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Autore: Daniela Vasarri
1938
Storico
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1938
Ho ancora paura. So benissimo di essere al sicuro adesso, ma non posso fare a meno di pensare a lui, al suo viso grinzoso, buono, rassicurante. Si sarà accartocciato in una smorfia di stupore, stringendo forse in un pugno qualche filo d'erba, cadendo e, con l'altra mano, cercando a vuoto un appiglio, quello cui aggrapparsi alla vita.
Tenace, caparbio, un puro che, avrebbe dovuto tenerne conto, non poteva scamparla.
Sono felice di non avere figli, li ho rimpianti mille volte, ma ora no, so di essere stata graziata almeno in questo nella vita.

Se mi sforzo, posso ancora sentire l'odore della colla, quel liquido vischioso che gocciolava sulle beole ad ogni immersione del pennello, lurido, complice di tanta carta stampata. E pensare che a scuola mi piaceva, quando lo usavo per attaccare le foglie nell'erbario, facendo attenzione che non si sbriciolassero. Il segreto era raccogliere le migliori, non accartocciate e preferibilmente pulite; per trovarle ci spingevamo con i fratelli maggiori sopra a Monte Mario, poi trionfalmente tornavamo a casa e sul tavolo di legno della cucina le distendevamo, commentandone la foggia ma, soprattutto, la loro originalità. Ma la nostra colla era bianca, tanto solida che dovevi usare un pennellino per tirarla ed evitare che formasse grumi sulla carta. Quella invece che gli attacchini spandevano generosamente sui muri, sui pali, sulle saracinesche chiuse, imbrattava senza pietà ogni superficie purché annunci e manifesti fossero ben visibili, maneggiati da forze lavoro incuranti di rispettare qualunque proprietà e un minimo senso estetico che sarebbe stato invece dovuto. Perché l'obiettivo politico era che si doveva leggere quanto stampato sopra. Tacerne poi sul contenuto e nient'altro.
Non dico che noi ragazzi non ci fossimo abituati a quelle comparse che apparivano all'improvviso vociando e dandosi un tono, nemmeno fossero stati ambasciatori angelici ma dalle divise scure. Il clima in quegli anni era come sospeso, per tutti, sempre pronti alle novità che non erano tuttavia mai sinonimo di piacevolezza. Si viveva insomma come lepri con le orecchie diritte, stando all'erta, fiutando l'aria e pronti a nascondersi o, meglio, a diventare invisibili. I più piccoli non rinunciavano a giocare per strada, con quel che avevano, una palla, due legnetti, una corda dove saltarci dentro, e, poi c'eravamo noi, già più che ventenni, che non volevamo rinunciare a quello stato di gioventù e alle sue speranze.
Ero la penultima di cinque fratelli: tre maschi, due maggiori di me, Daniele e Davide, uno più piccolo, Enrico e poi c'era lei, Anna, con la quale avevo tredici anni di differenza. Ricordo gli sguardi tra i miei genitori quando discutevamo animatamente di qualcosa, avevano un che di rassegnato e nello stesso tempo pregno di ammirazione, intuivo i loro sacrifici ma anche la loro fierezza per averci messo al mondo e inseriti in una società che avrebbe dovuto (s'illudevano) rispettarci.
Quando nasci non hai nessuna etichetta, ma solo un aspetto: cambia il colore della tua pelle, il taglio dei tuoi occhi, la forma del tuo naso e la consistenza di quattro peli che spuntano (non a tutti) sulla testa. Piangi e ti dimeni, facendo del vagito l'unica forma di comunicazione con chi troverai fuori dal ventre di chi ti ha partorito. Lo si fa tutti allo stesso modo. Ma è la parola la chiave di svolta ed è la parola che ci differenzia.
Mia madre, insegnante, non aveva avuto bisogno di insistere perché, dopo il ginnasio e il liceo, m'iscrivessi all'università. Sembravo già, fin da ragazzina, modellata per quella facoltà di lettere. Mi ci impegnai comunque, ma solo, e senza fatica, per non disattendere le aspettative dei miei genitori, i quali ritenevano che l'istruzione fosse importante tanto quanto la farina di grano integrale con cui si faceva il pane azzimo.
Eravamo ebrei. Parola che, identificandoci, fece la differenza nelle nostre esistenze.

Camionette rumorose tagliavano la strada agli abitanti di Roma, quasi volessero ridurla a un enorme padiglione disordinato. Io amavo quella città, anche se non ci ero nata, la amavo per ciò che emanava da ogni pietra od angolo, storie secolari che si raccontavano da sole, che ricordavano anche ai più distratti il privilegio di viverla. Ma non altrettanto la apprezzavano i soldati e gli autisti di quei mezzi che stonavano come un esercito di cavallette, rovinandone l'antica bellezza.
La mia tesi sul verismo, discussa nella maestosa aula magna de La Sapienza, davanti agli occhi acquosi di mia madre e seri di mio padre, mi aveva regalato non solo un'ottima valutazione ma anche l'opportunità di comprendere che l'insegnamento avrebbe potuto rappresentarmi nella vita. Ne stavo giusto parlando con mio fratello Davide, appoggiata alla zampillante fontana posta alle spalle della nostra casa, quando venni più che distratta, direi infastidita, da tre uomini boriosi, armati di secchio colla e un manifesto arrotolato, i quali, senza riguardo, avevano scelto la saracinesca del lattaio, ancora chiuso, per imbrattarla con un proclama.
Anche mio fratello, Davide, che si stava prendendo gioco di me immaginandomi dietro a una cattedra, ebbe un attimo di pausa. Come se a quel film che era la nostra vita fino a quel momento, venisse tolta l'energia e spezzata la bobina. Lesse, lui che ci riusciva dando io invece le spalle a quel manifesto rosa, e mi accorsi della sua pausa: una sospensione verbale e temporale. Non ho mai smesso di dimenticare quel rimpallo di sguardi tra noi, il mio interrogativo e il suo esitante. Io, con gli occhi, gli chiedevo: «Che succede?» e lui con gli occhi mi rispondeva: «Non so come dirtelo».
Ricordo che la soluzione fu quella di prendermi per mano, condurmi fino alla saracinesca e leggere insieme.
“Tutti i professori e gli insegnanti di razza ebraica sono espulsi dalle scuole del regno.”
Era il 17 novembre del 1938 . Il tempo a Roma si era fatto nuvoloso. Mi strinsi nel cappotto spigato e lui, per la prima volta da quando eravamo ragazzi, mi prese sottobraccio, come se avesse voluto proteggermi.

Tutti dicevano che gli assomigliassi, chissà perché dobbiamo sempre trovare una somiglianza fisica nei bambini a qualche membro della famiglia. Forse è vero che ereditiamo geneticamente dei tratti somatici, ma sono fermamente convinta che una comparazione al naso del papà, alle mani della mamma, ai capelli dello zio, creino una dipendenza scomoda nella vita di un individuo. Eppure, era vero che, su cinque figli, io sembrassi la versione femminile di mio padre, proprio di lui con il quale avevo poco da condividere. Non che non fosse un bravo uomo, mia madre se ne era profondamente innamorata, ma la sua impulsività contrastava con la mia pacatezza. Se papà in un'ora era capace di ribaltare un locale di lavoro, io nella pari frazione temporale, rileggevo lo stesso episodio di un testo, per approfondirlo e goderne la narrazione. Il divario caratteriale si acuiva proporzionalmente alla nostra somiglianza. Gli stessi capelli spessi e scuri, con la medesima onda indomabile, la struttura esile ma tenace che facevano di me una donna amabile e di lui un uomo intrigante. Sono certa che mia madre mi amasse con particolare attenzione perché gli ricordassi lui, così come sono certa che completassi in lei quella parte teorica e culturale che mancava in suo marito. Persino quando la cattiva amministrazione di papà ci costrinse tutti a lasciare la cittadina toscana per sfuggire ai creditori e ricominciare a Roma, mamma accettò quella sorta di disfatta famigliare ed economica, rimboccandosi le maniche. Si mise a scrivere per una redazione, che peraltro la pagava pochissimo, a cui aggiunse, nel pomeriggio, lavoretti di cucito. Rammendava con maestria qualsiasi indumento, cosa che avrebbe resa fiera mia nonna materna. Quanto a papà si dava un gran daffare per rimettere in piedi un'attività che assomigliasse alla precedente, ma, vuoi per paura, vuoi per occasioni mancate, si dovette rassegnare anche lui a impieghi estranei, che non lo soddisfacevano di certo. Ma non c'era malumore in casa, semmai grande silenzio. Quello di mia madre che, cucendo, non aveva bisogno di parlare o che, scrivendo articoli per bambini, doveva misurarne bene le parole; quello di mio padre, che rimuginava come una betoniera, sperando di spianare la strada comune della nostra famiglia. Ma eravamo ebrei e questo rendeva le cose ancora più difficili.
La casa al Circeo era in effetti un cubo simile ad altri, che dava l'idea di poter essere spazzato via al primo colpo di vento un po' più forte, la stuoia che sostituiva la porta d'ingresso sembrava ci parlasse o ci chiamasse quando, ragazzini, nostra madre, ci avvisava che fosse l'ora di rientrare e lasciare la spiaggia. Io non amavo l'acqua, proprio come mio padre, che, nelle sue rare apparizioni, se ne stava sotto un parasole a fissare la distesa del mare, guardando giocare i miei fratelli minori o spiando incuriosito cosa stessi leggendo. Ma avevamo anche degli amici, non tutti ebrei, con i quali trascorrere quei periodi di lontananza da Roma e con i quali imparare a crescere. Davide, il maggiore, usava quella casa come un punto d'approdo ai suoi spostamenti, dove Parigi era la meta più frequente. Raccontava che viverci fosse indispensabile a un artista e che il continuo confronto con Roma stimolasse in lui la creatività. Faceva degli schizzi bellissimi, in carboncino, aveva sempre le mani sporche per questo, e riduceva ogni novità, incontro, fantasia a una serie di segni sopra un cartoncino, trasformandoli in qualcosa di forte.
«Siediti lì» mi disse un pomeriggio poco prima che tramontasse il sole. Ed io capii che voleva interpretare le mie fattezze. Non mi negai, perché entrambi avevamo bisogno di fissare quel giorno.
Ora che lo riguardo, non posso fare a meno di notare un velo di tristezza e di rassegnazione. Davide aveva saputo, in pochi tratti, cogliere il mio stato d'animo. Il mare iniziava a calmarsi come ogni sera e la marea a cambiare, il vento lasciava un po' di tregua alle nostre preoccupazioni. Ma era inutile sperare in un cambio di rotta, la mia era ormai segnata e quello sarebbe stato l'ultimo giorno al Circeo, l'ultima vacanza, come cittadina italiana e libera. Almeno per me. Ricordo con lucidità che mi ritrovai a pensare a Ovidio, a quel poeta che tanto amavo e che davvero solo in quella circostanza comprendevo fino in fondo. Avrei scritto anch'io delle epistole come lui per esorcizzare la lontananza? Non lo sapevo e negli occhi di quel ritratto era racchiusa anche questa domanda.

«Hai controllato ogni documento? Devi tenerli a portata di mano!» mia madre riprendeva in mano ogni foglio già ordinato e riletto da me, non per sfiducia nei miei confronti ma, credo, per poter controllare gli ultimi istanti della mia vita romana accanto a loro. Grazie a dei conoscenti fidati, avevo ottenuto il visto per recarmi negli Stati Uniti, dove avrei trovato, con un po' di fortuna, la salvezza . Ricordo un senso di paura nebuloso, non classificabile né descrivibile, perché, in fondo, non sapevo cosa avrei trovato una volta arrivata oltre oceano. Quelle carte sulle quali leggevo il mio nome, la mia nascita, la mia provenienza e la mia destinazione rappresentavano l'unica ricchezza che possedessi. Una sorta di tavoletta cui aggrapparsi in un mare troppo grande per una ventenne inesperta.
Raccolsi tutti gli abiti che avevo, pochi in verità, e misi con grande cura, nella valigia rigida e smunta, il medaglione che mio fratello mi aveva fatto, riducendo quel ritratto al Circeo. “Una specie di portafortuna” mi aveva detto lui allungandomelo con imbarazzo. Davide era abituato ai viaggi, non come me che, a parte lo spostamento dalla Toscana a Roma, non avevo mai viaggiato, eppure appariva agitato come se fosse la sua prima volta. Sentii provenire da lui un affetto che non avrei mai scoperto forse, se non fosse accaduto che dovevo partire. Me ne compiacqui, ma non bastò ad alleviare quel senso di mancamento che provai quando vidi allontanarsi, in successione, la porta di casa nostra e poi la strada, il quartiere, la città. Mia madre non ce la fece a vedermi partire accompagnandomi al porto, preferì restare in casa, disse, a riordinare quel caos che avevo lasciato. In verità preferì restare a piangere, pensai io non a torto, e ad abituarsi alla mia assenza. I due fratelli più piccoli le avrebbero riempito le ore ma non la disfatta di vedere una figlia costretta a emigrare. Chissà se si pentì mai di essere nata ebrea e di avermi appoggiata nella carriera di insegnante.
Davide lungo il tragitto commentava il trambusto aeroportuale , raccontandomi aneddoti accaduti invece nelle stazioni dei treni, un tentativo di farmi giungere alla meta senza che potessi avere ripensamenti o momenti di debolezza. Si era fatto più loquace del solito e ricordo che non sentivo più la nostra differenza d'età, malgrado lui fosse il fratello maggiore e me lo avesse sempre fatto pesare in qualche modo. Era come se fossi stata promossa (nella sua accezione peggiore) alla vita, ora che dovevo affrontarla oltreoceano. Ci saremmo incontrati, non sapeva e non poteva dirmi quando, ma era certo che mi avrebbe raggiunta. Nel frattempo, però dovevo crescere da sola, arrangiarmi insomma.
Ho ancora viva la percezione del fumo che usciva da quella enorme casa galleggiante, che guardavo dal basso della banchina all'alto, sentendomi schiacciata dalla sua maestosità. Sono certa che non fossi spaventata dall'idea che tanto volume potesse galleggiare sull'acqua, ma piuttosto dal tempo che avrei dovuto trascorrervi sopra e da quello che avrei trovato dopo, una volta approdati a New York. La gente andava e veniva, si abbracciava, sventolava fazzoletti che sarebbero poi serviti a contenere le lacrime d'addio, vi era un gran frastuono tra voci, rumori, che copriva persino i segnali di richiamo ad affrettarsi all'imbarco. Davide trattenne la mia valigia fino all'ultimo, fino al momento prima in cui dovevo salire sullo scivolo, chissà forse avrebbe voluto che accadesse un evento soprannaturale a cambiare le cose, ma in questo erano in molti a sperarlo. Ci salutammo di corsa, come accade quando altre persone devono salire e capisci che non si può bloccare loro il passaggio.
«Fai la brava... sorella!» mi disse abbozzando un sorriso preoccupato. Mi si strinse il cuore, più che altro per vederlo in imbarazzo, lui che dava sempre l'idea di essere spavaldo e sicuro. Gli sorrisi ammiccando, e mi girai perché mi faceva male l'idea di averlo in qualche modo indebolito. Cercai di raggiungere un posto dove non potesse più vedermi, entrambi odiavamo gli addii, ma mi accorsi che stavo piangendo, e non avevo nemmeno un fazzoletto con me. La sirena tuonò alta nel cielo e la nave si staccò dalla banchina, lì iniziava il mio destino di emigrata ebrea.

Daniela Vasarri

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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