La maledizione di Lorenza
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Ho troppa roba da portare, ma arrivo alla mia auto e apro il cofano. Ecco, anche qui, si vede il mio stipendio. Una Panda verde chiaro, ancora della prima serie, con i sedili sottili. Un modello così vecchio che il meccanico, quando la vede, fischia. Per fortuna la vede poco, solo per i tagliandi e qualche acciacco dovuto all'età. Potrei anche chiedere un prestito e comprare un modello più recente, ma quella è l'auto che aveva mio padre. Dentro, qualche volta, si sente l'odore di sigaro. Sul libretto c'è per primo il suo nome. È un dolce, caro ricordo. Tutto cigola, su questa vecchia macchina, ma non im-porta. Il tragitto sino a casa richiede quindici minuti di percorso, lento e tranquillo. Accosto al marciapiede e guardo la mia casa. Vecchia anche lei. Una villetta a schiera che ha quasi gli stessi anni della Panda. Era dei miei genitori, avrebbe bisogno di una mano di pittura, il giardino è terra secca, ma è mia. Quando apro il portoncino, esce il profumo di garde-nia che usava mia madre, me lo richiudo alle spalle e so-no in famiglia. I mobili sono quelli dei miei genitori, la cucina ha un nuovo microonde e un computer su un ri-piano. Tutto il resto, lo potremmo definire vintage. Il mio stipendio basta, potrei fare cambiamenti, nuovi acquisti, sostituire questi vecchi mobili, ma non voglio. Sono ciò che resta della mia famiglia. Metto tutta l'attrezzatura sulla cassapanca dell'in-gresso e tiro fuori dalla borsa il foglio stropicciato che mi ha dato il dottor Finzi. C'è l'appuntamento di domani mattina alle dieci per un vernissage a Palazzotto Juva, Volvera. C'è il nome del pittore e l'elenco degli articoli che devo preparare. Non sono due, sono tre. Uno più bello dell'altro. Vernissage di un pittore pensionato che deve essere in-tervistato e una breve descrizione del Palazzotto Juva con la sua ristrutturazione. In tutto tre cartelle, qualche in-formazione per una piccola rubrica del nostro giornale locale. Poche fotografie, giusto per invogliare i lettori a visitare la mostra e il palazzotto storico. Bene. Un lavoro di qualche giorno, l'unico vantaggio è che starò fuori dall'ufficio. Gestirò il mio tempo, respirerò aria pulita e nessuno mi guarderà con accondiscendenza. Conosco il paese che devo raggiungere, è una cittadina carina, con vista sul Monviso. Appallottolo il foglio, ma non lo butto via, lo rimetto nella mia borsa. In cucina apro il frigorifero, ma è desolatamente vuoto. Mi stringo nelle spalle mentre mi ricordo di non aver fatto la spesa. Sono troppo arrabbiata per uscire di nuovo, sento la voce di mia madre che nella mia testa, mi ricorda la sua filosofia di vita: “Non importa co-sa fai, ma fallo nel miglior modo possibile.” Me lo diceva già alle elementari, ho sempre fatto del mio meglio. Quando voleva tirarmi su il morale diceva: “Se la vita ti offre limoni, tu prepara la più dolce limonata della tua vita.” Così la limonata di stasera prevede tre articoli insignificanti e il gelato che c'è al fondo del freezer. Rido e lascio che il cioccolato faccia del suo meglio per il mio morale. Palazzotto Juva La strada provinciale attraversa la campagna. I campi, qualche capannone industriale, poi il Palazzotto Juva. Bi-sogna passare l'alto muro di cinta, una parete di mattoni dipinta di bianco con i coppi rossi. Dall'alta muraglia sbucano le fronde di grandi alberi. Percorrendo il sentiero sterrato si arriva al cancello di ferro. Si resta senza fiato, all'ingresso del giardino. Piante frondose, cespugli, aiuole. Una meraviglia verde, bordata di ghiaia. La frescura e il profumo del parco invitano a una passeggiata lenta, all'ombra, con il canto degli uccelli e qualche opera d'arte. Scatto fotografie, forse più per me che per l'arti-colo. Vorrei poter fermare l'atmosfera di quel magnifico giardino. Non si può entrare in quella casa senza trattenere il fiato. La porta finestra ha una maniglia che cede con un cigolio, i vetri tremano delicati e sottili. Ci si guarda in-torno e subito gli occhi si alzano verso gli alti soffitti la-vorati. La residenza è stata ristrutturata, ma i segni della storia sono presenti in tutta la loro bellezza. I pavimenti sono lucidi, sembrano ancora risuonare dei passi di gentili dame e valorosi cavalieri, il tintinnio delle spade, il frusciare dei ventagli e delle ricche vesti. Anche i mobili portano i segni del tempo, delle bevande sorseggiate nelle finissime porcellane o negli splendidi cristalli, sembra ancora di sentire il profumo della cacciagione condivisa con gli amici. Oggi la casa è abitata, vitale, aperta al pubblico per l'evento che io devo recensire. Mentre mi guardo intorno, colgo il mio riflesso in un vetro. Ho le braccia che fanno male, le mie mani stringono la mia borsa, il faretto e la prolunga arrotolata, ho la borsa della macchina fotografica a tracolla. Devo appoggiare tutte quelle cose in un angolo. La porta a specchio che mi riflette sembra volermi dare l'occasione di rimettermi in ordine: il mio completo color carta da zucchero è già stropicciato, le scarpe basse non mi donano, ma sono comode e dovrò stare in piedi tutto il giorno. I capelli sono il mio cruccio: lunghi, castano scuro, con riflessi mogano, sono mossi da onde naturali e sembrano sempre un po' spettinati. Incorniciano il mio volto e mettono in risalto il verde degli occhi e la mia pelle chiara. Potrei essere più alta, ma a me un metro e settantacinque sembra l'altezza giusta per la mia figura. Un cartello indica la sala del vernissage. Il nome del pittore è Marco Brera, un artista locale. Tra qualche ora arriveranno i visitatori. Nel grande salone, l'uomo siede a un tavolino, sta sfogliando un catalogo. Al suo fianco una giovane donna, così simile a lui da non destare dubbi sul fatto che sia sua figlia. Non voglio salutarlo subito, resterò sulla soglia per scattare una fotografia di tutta la sala. Farò anche uno scatto all'uomo e a sua figlia illuminati da un raggio di sole che entra nella stanza. La sala è luminosa, non ho bisogno di luce artificiale. Sulle grate di alluminio che occupano il salone e creano un percorso guidato, sono appesi gli acquerelli. Alcuni hanno un passe-partout in tinta, altri una cornice a giorno, altri ancora ne hanno una colorata. Ogni quadro è perfetto nel suo insieme e il cartellino è scritto a mano, con una bella calligrafia elegante. Preparo la macchina fotografica e monto l'obiettivo adatto. Ho il tempo di scattare una serie di fotografie d'insieme, poi mi lascio rapire da quel percorso guidato. I tratti di pennello sono delicati, sembrano ingenui, ma rappresentano con infinita bellezza il mare, i villaggi, le casette di pietra coperte di calce, i vicoli, i fiori e le nature morte. Decine di soggetti diversi che hanno in comune una mano gentile, delicata, precisa. Mario Brera è definito pittore amatoriale, ma a me sembra un artista meraviglioso con un tratto delicato ed elegante. Mi piace molto, ma io chi sono? Non ho conoscenze artistiche. Posso solo esprimere quello che sento. Sono immersa in quell'atmosfera silenziosa e la magia si spezza quando l'uomo si alza e mi viene incontro tendendomi la mano. Non è molto alto, ha i capelli neri, la mano piccola e gentile, una stretta decisa che non fa male. Parla sottovoce, anche se non ci sono visitatori e la sua voce è perfetta per il suo aspetto. Sorride e io mi sento a mio agio. Mi presento e gli spiego che scriverò un articolo che lo riguarda. Racconterò della mostra e lo intervisterò. Aggiungo che mi è stato richiesto anche un articolo su quella residenza storica, dove metterò in evidenza il recupero architettonico e la valenza sociale degli eventi che vengono organizzati. Devo parlare con i proprietari, mi potranno fornire tutti i dettagli che sul sito della residenza non ci sono. Nell'attesa dei visitatori, scatto fotografie ovunque. Ho anche il tempo di restare seduta in giardino a godermi i profumi e i suoni di quel magnifico posto. Quando il salone incomincia a riempirsi di visitatori, scatto qualche fotografia. Le persone che arrivano sono amici del pittore, altri sono suoi compaesani.
Comino Maria Caterina
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