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Autore: Milka Gozzer
Cercasi fantasma
Giallo
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Cercasi fantasma
Chi teme i fantasmi teme se stesso: sarebbe questa una facile verità se non fosse che la paura è un discorso piuttosto complesso. Un'immagine tremula, una figura sfocata, ovvero quando la mente decide di ingannarci, l'inconsistente diventa tangibile.
Vittoria non può aver visto la mia veste, non può averla veduta sul serio, intendo. D'accordo, io sono il fantasma del castello. Sono Cornelia di Pergine. Ma, beato canederlo al sugo, garantisco che Vittoria ha visto quello che ha creduto di vedere. Il prezzo che tutti, lei più di altri, hanno pagato per un'illusione ottica è proporzionato alle azioni dei protagonisti di questa storia, reale e umana, in cui io, Cornelia, il fantasma, mi sono limitata a svolgere onestamente il mio ruolo, in disparte. Ve la racconto così come l'ho vista, perché, a differenza di voi, io vi vedo come siete. Non ho bisogno di mentire o di ingarbugliare le cose. Io.
Sì, l'ho inseguita. Fin dal primo giorno, ma in modo discreto, escludo che se ne fosse mai resa conto. Assolutamente. Lo posso escludere finché non è accaduto quello che è accaduto.
È stata lei a venire da me. Vittoria ha voluto il castello, per inciso la mia casa, e non si è accontentata. Tipico delle persone avide. Più accumulano, più desiderano e più combattono per timore di perdere ciò che posseggono. Ed Elena? L'innocente di questa vicenda. Mi ricorda qualcuno... Ma fino a un certo punto.
Questa non è una storia di fantasmi, ma una storia realmente accaduta, Elena ne è la prova, perché la sua vita è cambiata nell'istante in cui ha incontrato Vittoria, nel momento in cui le ha permesso di sfruttarla, di esercitare il suo dominio, di mettersi addirittura, oh, per Diana stella!, nei miei panni! Come se fosse semplice impersonare un essere come me, antico di secoli, gran parte dei quali trascorsi nel luogo dove sono nata. Dove ho goduto gli anni più spensierati della mia breve vita, insieme a Ettore, il mio amante, alla cara zia, all'amica Riccarda, agli altri amici da cui sono stata sottratta con la forza.
Qualche lustro di gioia, da viva, e il resto del tempo vissuto da emarginata. Tendo a patire la solitudine, ve lo dico subito. A volte esco. Per meravigliarmi regolarmente di come è mutato il mondo o per inseguire gente come Vittoria e Achille. Due attempati egoisti che hanno messo le mani su quella ragazza. Se dovessi definire Elena, direi che è una giovane incline alla benevolenza, perciò debole di carattere, sì, debole, altrimenti non avrebbe acconsentito, come invece ha fatto, a soddisfare le voglie strampalate di Vittoria. Ma lungi da me attribuire ad altri certe fragilità di cui mi sono, ahimè, macchiata in gioventù tanto da cadere vittima pure io delle medesime trappole.
Rimettiamoci al rigore della storia. Così com'è andata, io ve la racconto.

Il titolare del market alzò lo sguardo oltre la montatura scura degli occhiali, senza smuovere il doppio mento appiccicato a un ciuffo di pelo grigio che sbucava dalla camicia che aveva i primi due bottoni aperti. Con i pollici scivolò sul bordo delle banconote senza perderle di vista. Era un tipo consunto, tarchiato e aveva lo stomaco gonfio: stonava in quel market ricolmo di profumi e detersivi, acquistato in franchising dalla sorella che dopo un brutto ictus era stata costretta a lasciare la ditta, e gliel'aveva mollata con i registri in rosso. Lui, Aldo, non era mai riuscito a farsi durare un lavoro. Era arrivato a cinquant'anni grazie a qualche sovvenzione governativa, ma soprattutto al sostegno della sorella. Per la prima volta avrebbe dovuto accollarsi delle responsabilità, rimboccarsi le maniche, in altri termini: mettersi a lavorare. Beato canederlo! Ma non sarebbe mai accaduto: quando qualcosa nasce storto... eccetera, eccetera.
Il ricordo di Ghino, il giardiniere e tuttofare del castello – che se non la cedeva alla gazza nel chiacchierare e ad altre abitudini opinabili rimaneva un galantuomo, onesto e affidabile malgrado il suo fare grossolano – l'immagine di Ghino, dicevo, rimaneva vivida nel mio cuore, e mi sarebbe parso di offenderlo se lo avessi paragonato a quel villano malcreato del ventunesimo secolo qual era Aldo Osler.
Elena, la commessa, doveva sentirsi a disagio quando Aldo la esortava a controllare i clienti come un mastino. Forse perché lui aveva le mani lunghe, era ossessionato dall'idea che lo derubassero?
Era rigida come un baccalà quando c'era Aldo in negozio – e si materializzava solo per prosciugare la cassa. Pensava sempre ai soldi, quel villano. Non le diceva se e quando sarebbe arrivato né quando se ne sarebbe andato. La trattava in modo brusco. Gli importava solo del contenuto della cassa, che ripuliva ogni volta fino all'ultimo centesimo.
Elena ora si trovava nei guai. Da quattro giorni Aldo aveva disattivato il bancomat ordinandole di piazzare un pezzo di carta con la formula FUORI USO.
– Dì che è colpa della banca.
Oltre che fannullone, era pure bugiardo!
Lei aveva dovuto rimetterci i suoi soldi per dare il resto ai clienti. Aveva riempito di post-it la cassa con la somma che Aldo avrebbe dovuto rimborsarle, ma i messaggi erano rimasti lì, e avevano ormai i bordi arricciati. Aldo non se ne curava, come di tutto il resto. Pagare lo stipendio alla commessa, per esempio. Elena aspettava. Lui era in ritardo di quindici giorni. Nel market entrava sempre meno gente, la clientela scarseggiava proprio come la merce esposta sugli scaffali. Le ore passavano lentamente, scandite dagli sbadigli della commessa.
Se ne stava quasi tutto il tempo seduta allo sgabello, guardava un punto fisso all'esterno della vetrata del negozio, oltre il bordo curvilineo dell'insegna stampato sul vetro, come se quello non fosse il suo posto. Osservava i rami ampi di un vecchio olmo e, all'orizzonte, il profilo delle montagne. In quel frangente le sue preoccupazioni sembravano dissolversi, a giudicare da quel viso candido – aveva la carnagione chiara e luminosa delle nordiche, il nasino a punta e occhi blu porcellana – tutto sembrava quieto quando se ne stava lì imbambolata. Elena era una ragazza apparentemente carina e perbene, che non dava fastidio a nessuno. Ma in fondo a quegli occhi c'era una malinconia profonda, la malinconia di qualcosa che si è perduto troppo presto.
Elena aveva, e questo imparai a capirlo osservandola, il vizio di eludere i problemi come uno struzzo che... eccetera, eccetera. In quel periodo soffriva di «benaltrismo», cioè eludeva un problema adducendo l'esistenza di altre problematiche più impellenti e generali: c'era ben altro di cui preoccuparsi. Non aveva tutti i torti. Ma allorché si accorgeva di un cliente che si infilava in tasca un prodotto, non interveniva, si limitava a rivolgere lo sguardo altrove.
Ce n'erano tanti con le mani lunghe.
Ai miei tempi, che pur girava tanta bassezza, i miserabili rubavano per mettersi un boccone nello stomaco vuoto. Con il passare dei secoli, qualcosa nel mondo era girato al contrario. Non ci si curava più della merce, la gente comprava e buttava con disinvoltura. Che bisogno c'era di rubare una matita per occhi, mi domandavo. Eppure le fila dei ladri compulsivi erano affollate.
Una volta, lì nel market, un tizio sui trenta, mezzo pelato, si era messo in tasca due confezioni di strisce depilatorie, e fuori dal negozio le aveva guardate come a chiedersi a cosa potessero servire. Le aveva girate e rigirate tra le mani con un'espressione perplessa. Poi le aveva abbandonate nei rifiuti: nel bidone della carta. Alla faccia della differenziata.

Aldo aveva smesso di contare i soldi. C'erano settantacinque euro in cassa. Sembrava deluso per l'ennesimo fiasco. Si infilò un mignolo nell'orecchio e diede una frullata per sturarselo, poi alzò il mento verso Elena come a dire: datti una mossa, per esortarla ad avvicinarsi alla cliente che era entrata nel negozio da un quarto d'ora, e che ora gironzolava tra uno scaffale e l'altro senza criterio.
Magari il guadagno poteva essere maggiore, poteva arrivare a cento euro, doveva aver pensato quel perditempo.
La cliente in questione era Vittoria, e in quel frangente si trovava a metà della prima corsia, all'altezza delle tinture per capelli. Sulle punte dei piedi e con un braccio allungato cercava di arrivare in fondo allo scaffale. Era già entrata nel market in passato. Era il tipo di cliente con l'aria indispettita di certi cani di piccola taglia mai stanchi di abbaiare contro il mondo.
L'ultima volta si era infuriata con la commessa perché il lettore del codice a barre aveva invalidato un buono sconto di cinque euro.
– La scadenza è oggi, guardi bene, signorina – aveva protestato Vittoria sventolando il cartoncino con le sue dita affollate di anelli. Elena era rimasta ipnotizzata da quelle unghie laccate di rosso: sembravano le mani di una donna più giovane. Come Aldo, neanche Vittoria aveva sgobbato molto nella sua vita, beato canederlo al sugo!, ma che poteva fare se non rispondere: – Mi dispiace, signora. Dovrebbe ritornare quando c'è il proprietario e presentargli...
Figuriamoci se Vittoria l'aveva lasciata finire! Aveva abbandonato il cestino e la merce sparpagliata sullo scivolo della cassa, aveva girato le spalle, e se n'era andata tronfia come un tacchino. Elena aveva dovuto riporre le confezioni sui ripiani e stornare l'importo che aveva già battuto in cassa.

Aldo la squadrò con un'espressione più esplicita, ora sembrava volerla spingere con gli occhi verso Vittoria, e rincarò il concetto con un gesto della mano, come se stesse alzando una palla, per sollecitarla a muoversi. Elena andò a piazzarsi poco distante dalla cliente. Cominciò a riordinare le confezioni di carta velina, che del resto erano già in ordine. Non era una stupida, doveva aver capito che Vittoria era quel tipo di cliente che, quando le offri una mano che non ti ha sollecitato, ti risponde «no» giusto per puntiglio. Era meglio tenersi nei paraggi e aspettare una richiesta più esplicita.
Vittoria non sembrava considerarla. Era sempre in punta di piedi e spostava le confezioni di tinture per capelli a una a una. Ogni tanto ne afferrava una e la leggeva con le sopracciglia aggrottate. Considerata la sua età, settantadue anni come avevo verificato, era sorprendente che riuscisse a leggere i caratteri minuscoli delle informazioni dei prodotti senza inforcare gli occhiali. Però si trattava di Vittoria e non c'era da stupirsi se quel genio del male aveva dei poteri eccezionali, per esempio la vista di un'aquila reale.
Ora tratteneva quattro confezioni strette al petto. Aldo le lanciò un'occhiata di sottecchi carica di aspettativa. Erano nuances di mogano e di castano chiaro. Che se ne faceva di quella roba Vittoria? I suoi capelli biondo cenere erano ordinati e senza ricrescita.
Io lo sapevo che si era fatta fare piega e tinta il giorno stesso. Andava da due cinesi che avevano il salone di parrucchieri poco distante dal market, in via Bortolamei, vicino alla Posta. Perché ora avrebbe dovuto acquistare delle tinture fai-da-te? Magari per Adele, la sua vecchia cuoca, per regalargliele a Natale. Eppure non era merce in offerta.
Mentre sbirciava restando nei paraggi, Elena doveva essersi accorta che la mano di Vittoria soffriva di un leggero tremore. Forse per nasconderlo, Vittoria spostava le confezioni dei prodotti a piccoli scatti. Un flacone cadde sul pavimento. Elena si affrettò a raccoglierlo. Aveva finalmente un pretesto per rendersi utile.
– La posso aiutare, signora?
Fu in quel preciso istante che Vittoria studiò la ragazza che aveva davanti e architettò il suo piano. Come l'avevo capito? Dallo sguardo. Si capiscono tante cose osservando gli occhi delle persone. Ci sono persone che hanno il naso allenato, come quello dei predatori: annusano le vittime da molto lontano, e quando se le ritrovano davanti, le osservano come un entomologo osserva una rara larva di farfalla Papilio Palinurus.
Vittoria guardò Elena come se avesse davanti un arrosto su un vassoio d'argento: in un secondo elaborò il modo per affondare il coltello e farlo a fette.

Il giorno seguente era una giornata piovosa, avvolta in quell'atmosfera adatta a prendere rifugio in un centro commerciale. Elena osservava il parcheggio davanti al market, popolato di vetture, perlopiù SUV. I tre posti riservati al Mille bolle blu erano occupati: eppure nessuno aveva varcato la soglia del negozio di profumi e detersivi. Avevano parcheggiato e si erano diretti altrove, in una fioreria, dentro uno spaccio di sigarette elettroniche, e in un outlet di abbigliamento sportivo che occupava cinque vetrine. Se ci fosse stato Aldo, sarebbe uscito sbraitando.
– Non si vede il cartello?! Il parcheggio è riservato ai clienti del mio negozio!
L'ultima volta se l'era squagliata dopo aver cacciato l'incasso del giorno nella tasca dei pantaloni. – Ciao – aveva bofonchiato sulla soglia. Era salito sulla nuova auto sportiva grigio metallizzato, che era comparsa subito dopo il ricovero in ospedale della sorella, e se l'era svignata.
Elena era rimasta a fissare la sua schiena tozza senza trovare il coraggio di chiedergli del salario. Come avrebbe pagato l'affitto? A quel tempo occupava una stanza presso una villetta a due piani affacciata sul parco, a dieci minuti a piedi dal market, vicino all'ospedale.
La padrona di casa, che si chiamava Loretta e abitava al piano superiore, era una donna insoddisfatta. Da un po' aveva smesso di sorriderle anche solo per educazione, e la guardava come una macchia di unto su una tovaglia immacolata ricamata a mano. Era scontenta e intendeva affittare il piano di sotto ai turisti, così aveva riferito alle sue amiche, una delle quali era Vittoria. Il guadagno sarebbe stato maggiore, e magari più sicuro. La notizia che la titolare del Mille bolle blu aveva avuto un ictus e aveva lasciato il negozio in mano al fratello nullatenente era circolata. La cittadina non era grande e tutti sapevano riconoscere un fallito del calibro di Aldo.
– Elena, devo pensare a pagare i conti, all'assistenza di mia madre che ha quasi cent'anni. Non posso permettermi di scialacquare. Sarebbe opportuno che tu ti facessi ospitare da quella tua amica, come si chiamava? Silvana! Almeno per qualche tempo. In autunno potrai tornare qui, se trovi un lavoro più stabile.
Sentendo pronunciare il nome di Silvana, Elena aveva alzato gli occhi al cielo, ma non aveva replicato. In ogni caso, dopo questo bel discorsetto, aveva intravisto la padrona di casa intrattenersi con una coppia di ragazze mentre rincasava. Una di loro era inginocchiata nel cortile e accarezzava Sally, un barboncino bianco con gli occhi cerchiati di rosso e un posteriore irrimediabilmente insozzato. Loretta aveva dato a Elena un'occhiata di striscio, come se non la conoscesse. Più tardi, le aveva comunicato che aveva trovato gente interessata alla stanza.
Tutto era accaduto troppo in fretta, e lei non aveva in mano neanche uno straccio di contratto di affitto per contestare uno sfratto tanto veloce quanto ingiusto.

La pioggia aveva preso a scendere a scrosci, accompagnata da violente sferzate di vento che mettevano a dura prova l'intelaiatura degli ombrelli venduti all'angolo da Joe, un senegalese che parlava in dialetto, ma ripeteva sempre le stesse frasi.
Elena contemplò il biglietto da visita che Vittoria le aveva messo in mano il giorno prima. Le aveva chiesto di aiutarla a portare la spesa nel bagagliaio della sua macchina. Più che una richiesta d'aiuto, era suonato come un ordine. La zia Ottilia usava un tono simile quando si rivolgeva a Ghino. La zia però non era malvagia come Vittoria, e il suo sguardo era dolce anche quando impartiva ordini ai servitori. Gli occhi di Vittoria, invece, sembravano spilli pronti a conficcarsi nella pelle di chi osava sfidarli.
Nel bagagliaio di una Golf viola prugna, Elena aveva caricato quattro fustoni di detersivo in polvere da cinque chili e mezzo ciascuno, tutti di sottomarca (le tinture non le aveva comprate). Aldo aveva già iniziato a fare ding ding ding con le palpebre, prima di scoprire che erano in offerta, tre al prezzo di uno, allora aveva fatto la faccia di un affamato a cui comunicano che la cucina ha appena chiuso e il cuoco è partito per le ferie.
– Ascolta bene, ragazza, ho il lavoro giusto per te. Ti faccio un favore perché qui non duri a lungo –. Vittoria aveva afferrato la mano di Elena, le aveva stampato sul palmo il cartoncino e si era guardata intorno come per trovare una conferma di quello che aveva appena detto. C'era soltanto il venditore senegalese nei paraggi, e se ne stava seduto in un angolo a testa bassa. Vittoria alzò lo sguardo al cielo invocando un'asserzione divina.
Cosa avrebbe potuto rispondere la commessa?

Milka Gozzer

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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