Una notte magica San Giovanni
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1. 24 giugno 1926. Lubaantùn, Honduras britannico, colonia inglese. Il sole illuminava e abbagliava come una sfera incandescente la natura selvaggia dell'America Centrale. Un gruppo d'inglesi procedevano a fatica nella foresta pluviale, aprendosi il cammino con l'aiuto degli indigeni. Da mesi percorrevano strade che erano appena riconoscibili, si imbattevano in ruderi ricoperti dalla vegetazione, sfidavano i pericoli che si annidavano a ogni passo. Ogni componente del gruppo aveva mire differenti. L'esploratore inglese Albert Mitchell Hedges si aggirava nella foresta del Belize, dove un tempo era fiorita l'antica civiltà Maya, alla ricerca di qualcosa che per lui aveva una vitale importanza. Aveva avuto modo di leggere dei codici antichi che a prima vista sembravano solo trattati religiosi: descrivevano un lungo percorso di storia. Non era la prima volta che si imbatteva in queste teorie, perché nel 1913 era stato al seguito di Pancho Villa durante la rivoluzione messicana e aveva ascoltato dei racconti che sapevano d'inverosimile. Li aveva annotati su un diario a memoria futura. Parlavano della fine del mondo al termine dell'età dell'oro, di tredici teschi di cristallo che i sacerdoti avevano disperso ai quattro angoli della terra. «Quattro angoli del mondo?» aveva chiesto a un vecchio sciamano privo di denti che incontrò mentre vagabondava al seguito di Pancho Villa. «Sì» aveva risposto, elencando quattro luoghi: Messico, Yucatàn, Belize e Guatemala. Aveva fatto una bella risata ma aveva continuato ad ascoltarlo con attenzione. «Ecco» disse inalando una pozione magica. «Questa è la profezia dei tredici teschi». Mitchell Hedges, che tutti chiamavano familiarmente Mike, si fece più attento. «Cosa dice?» domandò, trattenendo a stento la curiosità, mentre si avvicinava allo sciamano. «'Quando i tredici teschi di cristallo saranno ritrovati e riuniti, inizierà un nuovo ciclo per il genere umano, un ciclo di grande conoscenza ed elevazione'» enunciò in trance. «Ma dove li posso trovare?» domandò tra l'incredulo e il curioso. Lo sciamano si strinse nelle spalle e chiuse gli occhi. Aveva finito di parlare. L'esploratore inglese, che era una spia al soldo di Sua Maestà, Giorgio V, si alzò e se ne andò. Però l'idea di recuperare i tredici teschi continuava a ronzargli nella testa. Rientrato a Londra l'anno successivo, aveva scoperto che al British Museum ce ne era uno esposto da diversi anni in una sala appartata. Così era diventata un'ossessione riunire i tredici teschi, finché nel 1923 con la benedizione del museo poté dare corpo al suo desiderio di partire alla ricerca degli altri dodici. Con Lord Gann e Lady Richardson-Brown, la compagna di Gann e finanziatrice della spedizione, partì per il Belize per una serie di scavi a Lubaantùn. Questa era chiamata così perché era definita la città Maya delle pietre cadute, scoperta anni prima dallo stesso lord. Inquieto e poco propenso a togliere il velo da questa città, abbandonata da mille e duecento anni, Mike si aggirava nella giungla da solo, qualche volta accompagnato da una guida indigena. Aveva ascoltato con molto interesse nelle bettole di Belize i racconti degli antichi discendenti Maya, che narravano di grotte piene di oro e gemme e di un mitico teschio di cristallo dai poteri mirabolanti. Molti ritenevano che quelle narrazioni fossero il frutto della fantasia di quegli abitanti scomparsi insieme alle loro città. «No» era solito dire Mike a chi dubitava di quei racconti. «Sono storie vere. Le ho ascoltate anche nel Messico, qualche anno fa. Quando ci sarà il nuovo re degli indiani, il sacerdote lo condurrà in una città segreta sotto la terra e lì avrà a disposizione immense quantità di oro e l'uso di un teschio di cristallo». I suoi ascoltatori ridevano e si burlavano di lui. Tuttavia le tradizioni orali dei vecchi discendenti Maya lo attiravano e in particolare quella sui poteri dei teschi di cristallo. 'Il teschio è un simbolo molto potente. É il simulacro di ciò che è stato e di ciò che è, di ciò che sarà, della vita che ha contenuto e della morte che rappresenta'. Erano le parole che aveva ascoltato più volte durante i suoi viaggi. Mike sapeva che descriveva un simbolismo antico, nel quale si era imbattuto più volte. Ogni cultura gli attribuiva una valenza. Per i Maya ogni teschio rappresentavano un ciclo di b'ak'tun, un periodo di 144000 giorni. La scelta del numero non era causale: tredici erano i cicli per arrivare al 12 dicembre del 2012, quando tutto sarebbe terminato per originare un nuovo ordinamento. La leggenda Maya ci avvertiva in modo drammatico: il nuovo ciclo avrebbe avuto inizio soltanto quando gli uomini sarebbero 'sufficientemente evoluti e integri', allora saremmo pronti a ricevere la formula per salvarci. Ricordava di aver ascoltato questo monito dal vecchio sciamano. Una formula potente, che sarebbe contenuta proprio nei tredici teschi. Questi dovevano essere riuniti in un solo posto alla presenza del re degli indiani e del sommo sacerdote. Mike era rimasto stregato da queste parole, perché indicava che l'umanità doveva essere chiamata a compiere un salto di qualità ed elevarsi moralmente. Era conscio di essere una contraddizione, perché di certo la sua vita non era stata irreprensibile, anzi molti suoi atti andavano nel verso opposto. Il passato non lo preoccupava, adesso era teso a rintracciare quel teschio, che alcuni indigeni avevano detto di aver osservato tra le rovine di Labaantùn. Aveva tentato in tutti modi di ottenere la localizzazione esatta senza successo. I suoi compagni non capivano perché si aggirasse con frenesia tra quelle rovine senza rispettare i protocolli della spedizione, che avevano stabilito prima di partire. I reperti trovati diventavano di proprietà della finanziatrice, Lady Richardson-Brown. Ogni ritrovamento doveva essere documentato. Ogni ricerca doveva essere condotta in coppia. Però Mike agiva da solo e questo era costante motivo d'attrito col resto del gruppo. *** Deborah si svegliò madida di sudore con negli occhi quella visione che non riusciva a collocare né nel tempo né geograficamente. “É stato un brutto sogno” si disse, tentando di riaddormentarsi. Il sonno era stato interrotto in modo brutale dalla visione, della quale non ricordava nulla a parte un uomo longilineo e ossuto, che parlava una lingua straniera. “Domani è il giorno di San Giovanni” ripeté mentalmente con la voce impastata. “Ora prova a riaddormentarti. É ancora notte”. Si girò e il sonno riprese vuoto e senza sogni. 2. 23 giugno 2012 Deborah stava in spiaggia a Cattolica, distesa sotto il sole. Intorno bambini urlanti e madri che fingevano di osservarli, mentre in realtà erano attente solo alle chiacchiere della vicina e all'avvistamento di qualche bel giovanotto da rimorchiare con discrezione. Lei si rosolava davanti e dietro con invidiabile costanza ma avrebbe voluto avere un paio di tappi nelle orecchie per isolarsi dal quel vociare convulso. In altre condizioni avrebbe schiacciato un pisolino dopo la notte passata tra sogni e incubi dei quali aveva perso i ricordi. Sbirciò l'ora dal grande orologio digitale del bagno. Segnava solo le undici. “Uffa ancora un'oretta buona prima del rientro in albergo” si disse, sbuffando. Stava maturando l'idea di alzarsi e andarsene, quando udì con la tipica cadenza romagnola una voce maschile, che invitava per la sera la vicina di ombrellone, una bella signora dal fisico asciutto. Si girò di quel minimo per intravedere un giovane ragazzo abbronzato che, seduto tra lei e la donna, prospettava una serata diversa dal solito. Nessuno dei due la notò. Deborah ascoltava interessata i loro discorsi. «Andiamo a vedere il mercatino di San Giovanni! Ci sono tante bancarelle con molte cose interessanti da comprare». Spiegava le meraviglie della festa gesticolando con le mani. «Ma Giuseppe dove lo parcheggio?» sussurrò con il tono di chi era più attratto di passare la sera tra le bancarelle che restarsene chiusa in albergo.
Gian Paolo Marcolongo
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