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Autore: Paolo Pedicini
L'equazione al contrario
Poliziesco
Lettori 2581 20 14
L'equazione al contrario
Io mi occupo di sesso, droga e rock'n'roll.
Per assistenza relativa a terremoti, alluvioni o carestie,
gli uffici si trovano al piano superiore.
(Satana)

Primo giorno

Lui, avanti con l'età ma ancora vigoroso, si muoveva sopra la ragazza. Strappò un sorriso di approvazione alla donna, giovane, bella e sensuale.
L'altra, la gemella, si avvicinò a loro due, nuda. Strinse forte una natica all'uomo e gli sussurrò una frase dal tono eccitante ma incomprensibile. L'idioma usato non si lasciava riconoscere. Poi gli ficcò un'unghia nella carne o almeno a lui sembrò così. In realtà era un ago. Un'iniezione? Si domandò il vecchio. Perché? La risposta giunse quando lo invase una sensazione sconosciuta. Avvertì un bruciore salire dallo stomaco ai polmoni, poi morì mentre veniva, ebbe solo il tempo di comprendere quanto l'istante che annuncia la morte sia simile a quello dell'orgasmo. Cessò di vivere accompagnato dal rimpianto di non poter raccontare agli amici l'emozione che gli era stata concessa di verificare.
Alberto Toracca, dirigente del commissariato di Ischia, sgranò gli occhi, poi fece una smorfia di sorpresa. Nella mente gli era rimasta una frase che si ripeté più di una volta: cazzo, la stronza ha giocato all'infermiera assassina. Una volta ritrovata la lucidità, si rese conto di essere stato il protagonista della scena, cruenta, forse, ma non angosciante.
Ombra, la gatta nera che lo aveva eletto quale compagno di vita, e che lo stava aspettando da tempo appollaiata sul lenzuolo, lo osservò distratta, poi cominciò la sua attesa.
La micia, infatti, era sveglia dalle quattro del mattino, come sua consuetudine, ma, come tradizione radicata nel tempo, aveva atteso in silenzio che lui si destasse. Immobile, statuaria quasi, la maniera felina di rispettare il sonno altrui.
L'uomo le sorrise vedendola avvicinarsi. L'accarezzò e iniziò a farle il solito discorso di prima mattina.
«Ombra, la devo smettere di addormentarmi convinto che la morte mi prenda con sé nel sonno. Tra l'altro, mi dispiacerebbe abbandonare il pianeta sapendoti sola» si interruppe colto da un pensiero, poi continuò.
«Il nostro mondo l'hanno chiamato Terra, che nome orribile! Io gli avrei dato un nome di donna, ‘la dea della fertilità', per esempio. Sarebbe meno opprimente sentire per il telegiornale che Demetra è minacciata dal cambiamento climatico.»
La gattina lo guardò con dolcezza, orientando la testa in diagonale, la posa che aveva adottato quando lo aveva visto la prima volta, e che aveva sancito l'inizio del loro legame affettivo. Poi ritrovò l'atteggiamento distaccato, scese dal letto e galoppò verso la cucina. Era l'ora del cibo. Alberto, dopo una breve sosta nel bagno, altro obbligo mattutino, la raggiunse e riempì la scodella col paté al salmone. Mentre sorvegliava il rito della nutrizione, le parlò ancora.
«Ho provato a farti assaggiare di tutto, ma tu niente, mangi solo scatolette per gatti. E chi sono io per contraddirti?»
Ombra non si voltò nemmeno. Sapeva che l'uomo a cui aveva vincolato l'anima, una volta bevuto il caffè, si sarebbe preparato per uscire. Terminato il pasto, lo raggiunse e seguì ogni suo movimento.
Lo vide indossare i pantaloni di cotone azzurri e una camicia bianca. Poi la giacca, in tinta coi calzoni, indispensabile a nascondere la pistola infilata sotto la cintura. Niente cravatta, da lui sempre ignorata, anche d'inverno. Alberto, una volta pronto, controllò la lettiera a la salutò.
«Micia, ci si vede al ritorno. Se dovessi tardare, fatto improbabile, ti vedrai con la signora Elvira.»
La donna in questione, che si occupava di tenere in ordine il suo appartamento, riceveva un compenso extra, garantendo la reperibilità nel caso in cui avesse dovuto provvedere a consegnare alla gatta il secondo pasto del giorno, quello serale.
Non era mai accaduto, tuttavia sarebbe stato irragionevole pensare che l'isola godesse un'eterna copertura solo perché immune, fino a quel momento, da avvenimenti eccezionali in grado di obbligarlo a trattenersi in ufficio. Meglio essere previdenti, quindi.
Alberto Toracca, originario di Sarzana, paese ligure, giovane promessa del calcio, mezz'ala della squadra primavera del capoluogo (quella blucerchiata, non l'altra), uscì di casa diretto alla palazzina che ospitava il posto di polizia di cui occupava la posizione apicale.
Come da consuetudine, percorse a piedi il chilometro abbondante che lo separava dalla meta. Una quisquilia per chi ha giocato a calcio, ma non per lui, che se camminava più del dovuto avvertiva un leggero affaticamento al ginocchio.
Era la conseguenza del contrasto di gioco che gli aveva ridotto a brandelli una rotula e anche i sogni di gloria. Lui, preso atto della situazione, aveva proseguito gli studi fino alla laurea in Legge, alla quale avrebbe dato lustro superando due concorsi, uno per Segretario Comunale, l'altro come allievo Vice Commissario nella Polizia di Stato.
La sua scelta era caduta sul secondo, più pericoloso e meno remunerativo, ma, per il giovane idealista qual era, colmo di fascino e dinamicità.
Al termine del corso venne assegnato alla Questura di Napoli, dove avrebbe prestato servizio per oltre un decennio, il tempo necessario ad apprendere il dialetto napoletano e conoscere la città in ogni sua sfumatura, anche grazie a episodi particolari.
Mentre percorreva il marciapiede ritornò, con il pensiero, su uno di quelli, una vicenda risalente ai primi anni del suo incarico, ma che non aveva mai dimenticato: una mattina si era presentata all'ufficio denunce una ragazza, giovane e bella, accompagnata dal fidanzato. Un agente li aveva scortati nella sua stanza, avvertendolo che i due avevano subito una rapina.
Il loro volto denotava tensione, che non sembrava effetto della brutta esperienza, però. Piuttosto somigliava a una divergenza di veduta sfociata in litigio, come lui avrebbe appurato fin dalla prima domanda che porse loro e alla quale rispose la donna, come avrebbe fatto fino al termine del breve incontro.
«Ragazzi, qual è il problema?»
«Stavamo passeggiando in un vicolo, quando ci siamo trovati di fronte un tipo armato di coltello che mi ha detto di togliere la catenina e consegnargliela.»
«E lei?»
«Commissario, ho ubbidito.»
«Poi?»
«L'ha presa, ma ha chiesto perché mi stesse scendendo una lacrima. Gli ho detto che la collana era un dono di mia nonna.»
«E lui?»
«Me l'ha ridata ed è scappato via.»
«Capisco. Perché lei e il suo ragazzo avete discusso prima di venire qui?»
«Io non volevo sporgere denuncia.»
«E il fidanzato, come l'ha convinta?»
«Dottore, mi ha detto che se il ladro avesse preso la collana, venire qui sarebbe stato inutile, perché non l'avrei riavuta comunque. Nel mio caso, l'utilità è rappresentata dal fatto che se l'episodio diventasse pubblico, potrebbe rappresentare una speranza per il futuro.»
«Va bene, ragazzi, faccio preparare la querela contro ignoti, poi firmeremo e ve ne darò una copia.»
Dopo che i giovani ebbero lasciato la stanza, informò dell'accaduto un amico cronista. Non gli fornì dettagli precisi, si limitò a raccontare l'evento, poi gli chiese un parere. Il giornalista gli rispose che, a suo avviso, la coppia aveva incontrato un delinquente disposto a impossessarsi dei beni altrui, ma non dei sentimenti, aggiungendo, soltanto, di non essere affatto stupito che fosse accaduto a Napoli, una delle poche città al mondo capace di scalare la sommità dell'arte, nel bene e nel male.
Nei tre lustri trascorsi nel capoluogo, avrebbe compreso quanto fossero vere, e non solo ricercate, le parole dell'amico redattore. Poi, inaspettato, gli era giunto l'ordine di trasferimento a Ischia.
La nuova destinazione aveva suscitato l'invidia di qualche collega, che, aspirando a occupare quel posto, lo aveva tacciato di essere un raccomandato di ferro. La sua discrezione, unita alla tendenza di evitare sprechi, gli aveva impedito di spiegare ai malfidati che lui non aveva fatto pressioni per ottenere quella collocazione e che fin da piccolo non era mai stato attratto dal mare, poiché detestava sentire i raggi del sole abbrustolirgli la pelle. Se lo avesse raccontato, tutti avrebbero pensato a una scusa, anche perché, a prescindere dalle sue ossessioni, era il primo ad ammettere che il panorama ischitano costituisse una delizia per gli occhi.
Oltrepassò l'ingresso del commissariato sorridendo ai colleghi che lo salutavano, sguardo che diventava torvo quando qualcuno di loro gli faceva il saluto militare, da lui poco apprezzato, anche se per lui era peggio ascoltare ‘signor Commissario, comandi'; retaggio dei tempi, per fortuna passati, ma che qualche giovane un poco distratto o parecchio impertinente, si ostinava a rivangare. Toracca percorse il corridoio e vide una stanza con la porta aperta, segnale inequivocabile della presenza in ufficio di Oropallo, il suo fidato e affidabile collaboratore. Entrò a salutarlo.
«Leonardo.»
«Alberto!» rispose l'uomo dai capelli chiari e crespi, naso piccolo, sorriso radiante e giovanile, nonostante tre figli, una moglie e qualche anno in più del suo collega superiore in grado.
«Novità?»
«No, capo. Ho mandato un paio di pattuglie a controllare gli sbarchi. Tutto come sempre, nessuna faccia sospetta, solo turisti. Stamattina ti ho riempito una cartella con i documenti da firmare. Ordinaria amministra-
zione, non ci sono segnalazioni di meteo avverso o arrivo imminente di
borseggiatori e fuorilegge vari.»
«Bene, così gli affari sull'isola possono proseguire spediti. Sai cosa
mi piace dei vacanzieri che frequentano i luoghi più costosi?»
«No, rendimi partecipe.»
«La gioia che gli leggo nello sguardo quando mettono mano al portafogli e pagano cifre assurde per un aperitivo. È evidente la loro soddisfazione nello sborsare cifre folli ma alla portata di pochi eletti.»
«Non hai torto, ma se tu fossi proprietario di un bar a Ischia o a Capri, godresti quanto e più di loro.»
«Leonardo, vado a scontrarmi con la burocrazia. Spero di non dover leggere qualche documento con l'avvertenza di rispondere entro e non oltre tale data. Madonna, quanto mi fa incazzare quella dicitura! È come ordinare un cappuccino e chiedere al barista di versare il latte dentro e non fuori dalla tazza.»
«C'è di peggio.»
«Cioè?»
«Il cartello con la scritta ‘rigorosamente vietato'.»
«Oropallo, litighi mai con tua moglie?»
«Certo, ma con sobrietà.»
«Vai a quel paese.»
«Comandi!»
Il Commissario entrò nel suo ufficio e prese posto dietro alla scrivania. Aprì il cassetto alla sua destra e appoggiò l'arma di ordinanza sul rosso della copertina di un libro, ‘A livella'.
La poesia l'aveva letta migliaia di volte, sempre come fosse la prima, ma i brividi che gli avevano scosso il corpo erano venuti quando la sua conoscenza del napoletano aveva raggiunto un valore in grado di consentirgli la lettura della versione originale, quella in dialetto. Sorrise al volto dell'autore ritratto in primo piano e iniziò a consultare i fogli che gli aveva lasciato l'Ispettore Oropallo. Lesse con il solito distacco note, dispacci, circolari, informative e tutto ciò che fosse riconducibile al consueto tipo di carte, per la maggior parte inutili, che pervenivano ogni santo giorno.
Assegnò ogni documento all'ufficio competente e siglò i fogli. Mentre stava riflettendo sulla pesantezza della burocrazia, sempre combattuta a chiacchiere dai politici, sentì bussare alla porta.
«Ingresso negato ai portatori di rogne.»
L'agente Sgambato oltrepassò la soglia reggendo un documento fresco di stampa. Salutò i superiore con l'ebbrezza di chi è giovane, simpatico e appassionato al lavoro.
«Dottore, è arrivata una PEC dal ministero.»
«Grazie, Giosuè. Appoggiala sul tavolo, dopo la leggo.»
«Se non ha niente in contrario, torno in ufficio.»
«Sì, però prima ho una domanda per te.»
«Dica pure.»
«Ma tu, cosa hai provato quando ti hanno detto che avevi superato il concorso?»
«Dottore, mi scusi, perché questa domanda?»
«Poi te lo spiego.»
«Ricordo solo che il presidente della commissione mi fece notare qualche errore di troppo nei test finali. Sentendolo, pensai di non avercela fatta. Secondo me notò la mia delusione, perché sorrise e chiese se credessi ai santi. Prese il foglio dell'ammissione al corso e mi ordinò di firmarlo ringraziando qualcuno di loro, da quel momento in avanti non ho memoria, credo di aver planato nell'aria, poi sono uscito dalla caserma e ho camminato per Roma parlando a telefono con mio padre. Solo quando sono salito sulla metropolitana ho capito che sarei diventato un poliziotto.»
«Ho avuto le mie conferme. Vedi, Sgambato, tutti noi ci siamo arruolati spinti da motivi somiglianti: chi perché attratto dalla missione, qualcuno dal fascino del potere che ti dà il ruolo, altri per le due ragioni combinate tra loro, molti perché credevano nel mestiere che andavano a intraprendere. Tu sei uno di quelli. E adesso la domanda principe: sei soddisfatto dell'incarico che svolgi o aspiri ad altro?»
«Commissario, mi piacerebbe il servizio di pattuglia.»
«Allora tieniti pronto. Dammi il tempo di far preparare l'ordine di servizio a Leonardo. Verrai trasferito alle volanti, mi raccomando, torna nella stanza senza usare le ali.»
Il giovane agente si voltò e lasciò Toracca alle sue riflessioni. Il Commissario aveva percepito insofferenza nel ragazzo, come se soffrisse l'inattività dell'incarico d'ufficio al quale era stato destinato, perché bilingue.
Sgambato parlava tedesco alla perfezione in quanto teutonico per parte di madre. Il possesso di quel requisito aveva costituito punteggio, per cui l'ufficio personale del ministero aveva scelto per lui, come prima sede, il commissariato di Ischia, zona frequentata in abbondanza dai germanici.
Il Commissario, a sua volta, lo aveva assegnato all'ufficio denunce considerandola una decisione consequenziale a quella dei vertici. A rigore di logica, in un'isola colma di turisti provenienti dalla Germania o Austria, l'eventualità che in posto di polizia comparisse uno di loro era altissima, e in tal caso avrebbe provveduto Giosuè. Un eventuale inglese sarebbe stato smistato all'anziano del distaccamento, il Sovrintendente Biagio De Angelis, originario di Salerno, che da giovane era emigrato in Inghilterra dove aveva lavorato per cinque anni, prima di ritornare e arruolarsi in Polizia.
Preso da questi pensieri, Toracca si rese conto di quanta tranquillità regnasse nella sua stanza e ritornò, con la mente, agli anni di Napoli, quando tra la radio che gracchiava e il telefono che squillava non esisteva un solo istante di quiete.
Allora sollevò la cornetta, compose un numero interno e chiese all'Ispettore Oropallo di raggiungerlo portando con sé la scheda dell'agente Sgambato.
Leonardo si presentò dopo due minuti e gli porse il fascicolo. Non fece domande, prese posto sulla sedia e attese il collega, che iniziò a leggere il profilo personale del loro collaboratore.
«Giosuè, Libero Sgambato, nato a Roma il 31 marzo 1996, da Enzo e Ute Liesbeth Ach. Diploma alberghiero con un buon voto. VFP1 a 19 anni, VFP4 a 22. Ha superato i test nel concorso per agente della penitenziaria, ma non le visite mediche. Stessa storia nei carabinieri, poi arriva da noi. Hai memorizzato?»
«Sì. Qual è la domanda?»
«Leonardo, voglio vedere se il nostro intuito splende ancora dopo anni passati a indagare solo su borseggi o piccoli furti. Prima ho parlato con Giosuè, mi ha riferito una frase sibillina che gli ha rivolto il presidente della commissione medica a proposito di santi dopo aver evidenziato qualche errore nei quiz attitudinali e prima di comunicargli il superamento della prova. Che ne pensi?»
«Il ragazzo è in gamba ed è studioso. Ne è dimostrazione l'aver sempre superato le prove preliminari. Ha una passione per le forze dell'ordine, perché poteva raffermarsi nell'Esercito, ma ha cercato una carriera alternativa. Mi sembra un idealista, perché, visto l'esito dei precedenti concorsi, presumo non abbia cercato la raccomandazione. Poi ci avrà ripensato ed ecco che un eletto, non dal Signore, lo segue e compie il miracolo di sottrarre un paio di errori dal conteggio finale.»
«Perfetto, mio Ispettore. Come premio per la tua arguzia, ti ordino di preparare una disposizione di servizio. Da domani, Sgambato passa alle volanti.»
«Bravo, Alberto, i giovani devono lavorare in strada. L'ufficio è degli anziani, come noi due. Infatti, se non c'è altro, tornerei alle mie scartoffie.»
«No, puoi andare. Però davvero, complimenti, hai fatto un'analisi eccellente, quasi uguale alla mia.»
«Perché, cosa ho mancato?»
«Che sa anche cucinare.»
«Alberto, tu non lo sai, ma tua moglie ti ama alla follia da quando hai deciso di mandare all'aria il vostro matrimonio.»
L'ispettore si alzò di scatto e scappò via, per impedire all'amico di replicare. Fu una misura superflua, però. Toracca non avrebbe potuto nemmeno volendo. È impossibile parlare quando si ride fino alle lacrime.
L'uomo, una volta terminati gli spasmi e asciugati gli occhi, iniziò a meditare, chiudendosi nei suoi pensieri.
È una giornata meravigliosa. L'avevo capito fin dall'inizio perché quel cretino del capo di gabinetto del Questore, ha deciso di estirpare le sfere a qualcun altro con la telefonata delle nove ante meridiane. Non mi dà fastidio la sua coglionaggine, anche perché senza quella non potrebbe svolgere così bene l'incarico che occupa. Non mi arrabbiano le stronzate che dice, poiché manco lo ascolto, è che lo giustizierei volentieri per il suo modo di affrontare le questioni: lui parla con la convinzione di essere il factotum del Questore, invece è solo il galoppino. Una volta, il grande capo Marasco, se l'è fatto scappare durante una telefonata personale, non so fino a che punto la confidenza gli sia sfuggita o l'abbia voluta. È strano, però, mi sento come se mancasse qualcosa. Parlando con Leonardo, ho avuto un pizzico di nostalgia dei tempi in cui lavoravo molto con il cervello. Mi è sempre piaciuto ragionare sui fatti e cercare di trovare una spiegazione, che poi, se è corretta, rappresenta l'anticamera della soluzione, ma a Ischia non è mai accaduto nulla di eccezionale, ed è meglio così. A Napoli, ho dovuto affrontare qualche caso complicato, ma anche se l'ho risolto, non mi sono sentito un vincente, al contrario, ho soltanto assaggiato la sgradevole sensazione che rimane dopo aver osservato il volto di chi ha subito un'ingiustizia.
Alberto Toracca, ligure di nascita, campano per adozione, lasciò da parte le sue riflessioni e iniziò a esaminare la PEC consegnata dall'agente che aveva abbandonato ogni purezza d'animo per convertirsi alla dura realtà.
La comunicazione era stata inviata con la convinzione da parte del mittente, di costituire un documento vitale per le sorti della nazione, tesi non condivisa dal destinatario, il quale, dopo un'attenta lettura, la ripose in archivio compiendo un gesto di convinta approvazione con la testa.
Toracca la inserì tra i faldoni da lui classificati come materiale improduttivo, poi, trovandosi alzato, decise di prendere un caffè. Andò alla macchinetta, ignorando che a breve avrebbe ricevuto una telefonata capace di indebolire più di una sua convinzione. La chiamata gli fu smistata dal centralino, mentre, tra una boccata e un anello di fumo, era giunto a metà sigaretta.
«Toracca, mi dica.»
«Dottore, buongiorno. Sono Romolo Iacono, vorrei segnalare la scomparsa della mia compagna Irene.»
«Da quanto tempo non ha notizie di lei?»
«Stamattina alle dieci è andata a casa dei suoi, o almeno, così ha detto alla sua collega di lavoro. L'ho chiamata mezz'ora fa, ma non risponde al cellulare.»
«Capisco, facciamo così: adesso le mando una pattuglia, così lei ci inizia a fornire i dati della sua fidanzata e tutto ciò che gli agenti le chiederanno. Se nel pomeriggio Irene non dovesse farsi sentire, provvederemo a formalizzare la denuncia. Dove si trova adesso, Romolo?»
«Sto lavorando, faccio il magazziniere al supermercato di via Mazzella.»
«Va bene, ci dia il tempo di arrivare da lei.»
«Commissario?»
«Sì?»
«Sono preoccupato.»
«Anch'io lo sarei.»
«Voi non siete napoletano.»
«Lo ha capito dall'accento?»
«No, perché usa il ‘lei'. Dottò, trovatela.»
«Romolo, si fidi di noi.»
Toracca chiamò Sgambato con il telefono interno. Mentre lo aspettava, rifletté sul comportamento del ragazzo appena ascoltato. Si percepiva l'ansia in lui, perché? Per carattere o c'era altro? L'arrivo del collega lo distrasse.
«Giosuè, fammi un favore: prendi un'auto e fatti un salto in via Mazzella, all'altezza del civico duecentoventi c'è un grande magazzino. Chiedi di Romolo Iacono, lui lavora lì. Raccogli tutte le informazioni utili e cerca pure di capire che tipo è.»
«Agli ordini, dottore. Di che si tratta?»
«Sembra che la sua ragazza abbia fatto perdere le tracce.»
«Vado, Commissario.»
Toracca non gli aveva fornito disposizioni precise di proposito, intendeva verificare le doti investigative del ragazzo, che gli cadeva bene. Per lui rappresentava un problema, poiché fin da piccolo aveva sempre avuto la tendenza a fidarsi delle persone che gli ispiravano simpatia e a giustificare ogni loro comportamento. La cosa non lo aveva mai afflitto più del dovuto, finché non gli era successo con un camorrista: dopo averlo arrestato, avevano trascorso un'ora insieme ad aspettare il magistrato e il legale, per l'interrogatorio; tra una formalità e l'altra, era poi passata mezza giornata, durante la quale aveva scoperto che quell'uomo dai modi rispettosi e discreta cultura, non gli era antipatico. In particolare, il mafioso, in un momento di familiarità, gli aveva anche confidato di aver scelto di affiliarsi poiché nella vita ognuno è chiamato a scegliere tra l'essere vittima o carnefice e che lui non era nato per recitare il ruolo dell'oppresso. Tesi di comodo e senza dubbio artificiosa, che però aveva contribuito affinché Toracca lo accompagnasse in carcere a malincuore.
Convinto che la giornata stesse per intraprendere una piega piuttosto ambigua, stava per raggiungere la stanza dell'Ispettore Oropallo, giusto per rinfrancare lo spirito e metterlo al corrente dell'accaduto.
La visione di un uomo in divisa che si avviava verso di lui con il sorriso a trentadue denti stampato sulla faccia, gli comunicò che il suo pronostico andava modificato e che l'ambiguità stesse per lasciare il posto alla malignità.
Colui che stava per mettere piede nel suo ufficio rispondeva al nome di Michelangelo Tenorio, comandante della Municipale di Ischia, da lui soprannominato ‘Tenebro'. Lo aveva conosciuto durante il suo primo giorno di servizio a Ischia, quando la guardia civica si era recata ad accoglierlo nell'isola, senza che nessuno l'avesse incaricata di fare gli onori di casa. In quell'occasione, l'uomo, fronte stempiata, sguardo indefinibile, esse sibilante, lo aveva imbarazzato. Toracca si era sentito come uno che osserva un quadro, neanche brutto, ma in cui risiede qualcosa di stonato, di tremendamente perverso, perché sembra di osservare una persona, in realtà si sta guardando un essere amorfo.
Il ricordo tornò alla luce, vivido come non mai, quando il Tenente Colonnello della Polizia Municipale di Ischia si accomodò di fronte a lui.
«Alberto, come stai?»
«Tutto bene. A cosa devo la tua visita?»
«Ti volevo parlare di una faccenda che riguarda due funzionari comunali, il Giudice mi ha dato la delega, ma è una faccenda delicata. Gradirei la tua collaborazione.»
«Se ce ne fosse bisogno, cosa che escludo perché tu te la cavi bene da solo, è fondamentale che il magistrato dia mandato anche a noi. Non credo lo farà, perché impiegare due corpi diversi ma con le stesse attribuzioni?»
«Vice Questore, c'entra la politica, è un'indagine prestigiosa.»
«Appunto, ti lascio i crediti che ne deriveranno. Adesso devo scappare, ho un problema da affrontare, meno rilevante del tuo, ma più urgente.»
«Di che si tratta?»
«Niente di che, Michelangelo, un presunto allontanamento che si rivelerà un litigio tra fidanzati destinato a rientrare. Alla prossima, Tenorio.»
L'ufficiale si alzò e lasciò la stanza senza stringere la mano al Commissario, che non gliel'aveva tesa per motivi d'igiene psichica.
Alberto avvertì la necessità immediata di raggiungere Leonardo. Gli doveva parlare, e non soltanto di lavoro.
Varcò la soglia della stanza attigua e gli sembrò di entrare nel regno della bambagia. Decise di infrangere la serenità imperante.
«È passato Tenebro.»
«Ecco spiegato l'effluvio. Che voleva?»
«Sta per rovinare la vita a qualcuno e voleva coinvolgermi. Gli è andata male.»
«Alberto, sai cosa non mi spiego? Quell'individuo ha denunciato metà dei comunali ma nessuno di loro è stato condannato. Come è possibile che la Procura si fidi ancora di lui?»
«Questo è il motivo della sua richiesta di amicizia. L'ha fatta per dare lustro e credibilità all'inchiesta, perciò l'ho rifiutata.»
«Però, così facendo, non lo puoi marcare a uomo.»
«Verissimo, infatti l'ho considerato, ma lui è troppo scaltro, avrebbe beneficiato della mia collaborazione senza farsi sfuggire nulla. Comunque non è questo il motivo che mi ha condotto da te: sembra che una ragazza sia sparita, ho mandato Giosuè a interrogare il fidanzato; siccome sta per rientrare, lo aspetterò qui e sentiremo insieme che notizie porta. Spero di no, ma credo che nei giorni a venire avremo da fare.»
La comparsa della persona menzionata impedì la replica dell'Ispettore. Sgambato iniziò subito a relazionare.
«Signori, ecco il resoconto: Romolo Iacono e Irene Carfagno convivono da circa un anno, stamattina la ragazza è uscita in auto, una Yaris scura, per andare al lavoro; gestisce un asilo privato con un'amica, tale Emanuela Tulimiero. Indossava jeans con tonalità di bianco all'altezza delle cosce, maglietta di cotone bianco portata fuori dai pantaloni, camicia rosa a vita alta. Il fidanzato, ha ribadito quanto riferito a lei per telefono, Commissario, cioè che Irene ha lasciato la scuola per recarsi a casa dei genitori, sembrerebbe che il patrigno avesse bisogno di aiuto poiché la stampante non gli funzionava, la signorina Tulimiero ha confermato. Oltre a farmi dare il cellulare di Irene, ho nome e indirizzo dei genitori di lei, Gregorio Gruttola e Ludovica Cangiano, residenti in via Acquedotto. È tutto, cioè no: la madre della ragazza si trova a Napoli per affari, si occupa di abbigliamento all'ingrosso. Per finire, non abbiamo la foto di lei, il fidanzato usa il cellulare solo per telefonare.»
Toracca sorrise soddisfatto al giovane agente, poi lo congedò.
«Grazie, Sgambato. Un'ultima cosa e potrai andare, come ti è sembrato Romolo?»
«Parecchio agitato» fu l'essenziale replica dell'agente che continuò salutando i due superiori.
«Commissario, Ispettore. Torno in ufficio.»
Leonardo guardò perplesso il suo superiore e chiese chiarimenti.
«Il ragazzo è stato bravo, come mai non gli hai fatto i complimenti?»
«Non voglio esaltarlo. La frenesia che avevo dentro mi fece andare sul pallone convinto di anticipare il difensore. Lui mi rubò l'idea, o forse era più gasato di me e successe che lasciai mezzo ginocchio sull'erba, ma la cosa peggiore è successa dopo: quando ho saputo che il mio avversario aveva smesso di giocare per quell'incidente, ho sofferto due volte. Insomma, i nostri allenatori, sia pure a fin di bene, ci avevano motivati oltre il consentito. Non farò lo stesso con Giosuè, l'eccessivo entusiasmo gli potrebbe togliere qualcosa più importante di una banale carriera.»
L'Ispettore riconobbe l'amarezza che accompagnava sempre quel tipo di ricordo nel suo collega, nonché amico, e riportò il discorso sui binari professionali.
«Che pensi? Come dobbiamo agire?»
«Sono rimasto con il fidanzato che se non avrà notizie positive, dovrà venire a sporgere denuncia. Credo che lo farà abbastanza presto. Nel frattempo, fammi il favore di controllare al pronto soccorso dell'ospedale e alle biglietterie, cominciamo a escludere l'imbarco o il ricovero.»
«E se così fosse?»
«Sarebbe una complicazione. Leonardo, a che ora smonti?»
«Alle due.»
«Io mi tratterrò anche nel pomeriggio, ti terrò informato. Prima di andartene, però, fammi sapere cosa hai scoperto.»
«Tranquillo, adesso mi metto al telefono. Poi saprai.»
Toracca ritornò nel suo ufficio con la percezione che gli eventi stessero per precipitare ma che la discesa fosse di una lentezza esagerata, come quando nei sogni si prova la sensazione di cadere nel vuoto e attendere un impatto che non sopraggiungerà mai, poiché ci si sveglia, oppure si cambia scena. Nella realtà, però, non funziona così, e lui iniziò a comprendere quando gli venne confermato il suo primo timore: nessuna Irene Carfagno era partita da Ischia, e nemmeno giaceva in un letto d'ospedale.
Toracca iniziò a riflettere. Rapito dai suoi pensieri, rinunciò persino al panino che di solito addentava quando rimaneva in ufficio, ma lui quando ragionava dimenticava ogni cosa, si estraniava dalla vita circostante ed entrava in uno spazio individuale.
Alle quattro del pomeriggio, però, accadde qualcosa che lo tirò fuori dal suo recinto: Romolo Iacono irruppe nella stanza del Commissario, trattenuto a stento dall'agente che aveva dato il cambio a Sgambato, urlava la propria angoscia.
«Dottore, è successo qualcosa di serio, Irene risponde sempre al telefono.»
«Romolo, siediti. Adesso prepariamo la denuncia, poi ci mettiamo in macchina e andiamo a casa tua. Va bene?»
«Perché?»
«Ci serve una sua fotografia.»
Lo aveva tranquillizzato evitando l'invito alla calma, che è sempre peggiorativo, inoltre doveva capire quanto fosse sincera l'agitazione del ragazzo, che o era davvero preoccupato o si sentiva responsabile della sparizione di Irene. Avrebbe tentato di scoprirlo nell'avvolgente tranquillità della loro abitazione, di sicuro meno asettica di un algido posto di polizia.
Il Commissario organizzò il sopralluogo chiedendo a De Angelis di prendere l'auto di servizio e accompagnarlo nella missione.
Quando prese posto a bordo, invitò il collega a seguire la vettura del ragazzo. L'uomo iniziò la marcia con un commento dei suoi.
«Mi avete messo in modalità taxista.»
«A volte penso che sia un mestiere migliore del nostro.»
«Dottò, che è ‘sto malumore? Mica tifate Napoli?»
«Peggio, tengo per la Sampdoria.»
«Embè? La fede sportiva è come gli affetti: la tenerezza nei confronti delle persone care aumenta nelle difficoltà.»
«Per cui, tu, quando il Napoli ha vinto gli scudetti, non hai gioito?»
«Diciamo che lo sento più mio quando perde, le sconfitte non le dimentico mai. Commissario, perché non il Genoa?»
«Mi piacevano i cerchi sulla maglietta della Samp, sembrava fatta apposta per me.»
Gli stop dell'auto che li precedeva segnalò che erano giunti a destinazione. De Angelis frenò e fermò la macchina, poi si rivolse al suo principale.
«Il giovanotto ha parcheggiato. Vi aspetto in macchina?»
«Sì, non farò tardi.»
Toracca scese dall'auto e seguì il ragazzo. Fecero le scale del palazzo condominiale fino al secondo piano, poi si fermarono davanti all'ingresso dell'appartamento. Entrarono uno dopo l'altro, e il Commissario ebbe modo di apprezzare l'ordine che regnava all'interno della casa. Notò l'arredamento privo di eccessi, i mobili non erano un tributo alla modernità, ma nemmeno prodotti di antiquariato.
Andarono nel salotto, dove, al centro della parete, imperava un meraviglioso orologio a pendolo, meritevole di lodi.
«Bellissimo. Complimenti a chi lo ha scelto.»
«Irene, ha deciso tutto lei.»
«Già. Mi dai una sua fotografia recente?»
«Certo. È sul comò, di fronte a voi.»
Toracca prese il portafoto nel quale due ragazzi sorridevano protetti da un vetro e una cornice d'argento. La donna dai capelli scuri somigliava a colei che gli aveva fatto battere il cuore quasi mezzo secolo prima.
Il viso ovale, i capelli ondulati, gli occhi piccoli e vispi, gli ricordarono Gina, la compagna di scuola per cui aveva preso una cotta straordinariamente soave, ma altrettanto impossibile perché lei smaniava per un altro. Mentre osservava il ritratto, si rivolse a Romolo.
«Raccontami di lei. Dimmi tutto.»
«Abbiamo la stessa età. Siamo fidanzati da che avevamo quindici anni. Qualche anno prima, suo padre aveva lasciato la famiglia per andarsene non so dove. Quando ci siamo conosciuti, sua madre aveva già trovato il ricambio, Gregorio, che ha sempre trattato bene Irene.»
«Che lavoro fa il signor Gruttola?»
«Fa il grossista di alimenti e bevande. Ha un sacco di operai.»
«Non hai mai pensato di lavorare con lui?»
«Sì, ma mio suocero non mi piace.»
«Come mai?»
«Non saprei. A volte è troppo misterioso, somiglia più a un settentrionale che a noi. Oh, scusate Commissario.»
«Ma no, Romolo, ci sta. Tra l'altro, i nordisti appaiono così, ma in realtà siamo solo meno espansivi di voi, tutto qua. A proposito, toglimi una curiosità: quando ci siamo sentiti al telefono stamattina, mi hai detto di aver capito che non ero di qui perché mi rivolgo col lei; al momento ho pensato che il riferimento stonasse con quello che mi stavi dicendo, dopo credo di aver afferrato, ma voglio che me lo spieghi tu.»
«Ero tormentato e per non sembrare un moccioso ho voluto fare il grande. Alla fine me ne sono uscito con quella cavolata.»
«Mi devi dire altro?»
«Ho avvisato mia suocera, stasera tornerà a Ischia.»
«E poi?»
«Dottore, che volete sapere?»
«Niente di preciso. Solo ciò che potrebbe aiutare a comprendere cosa può essere successo a Irene.»
«Ho capito. Andavamo d'accordo, e se lei si fosse stancata di me mi avrebbe lasciato senza pensarci su. È una tosta. Non ho notato niente di strano in lei, in più, tutto posso creder meno che sia scappata. Da chi? Dai bambini dell'asilo, che adora? Da me, che mi vuole bene? Io quello che so è che lei doveva andare dal patrigno, ma lui dice di non averla vista.»
«Domani andrò a fare due chiacchiere anche con lui. Dove ce l'ha il magazzino?»
«Vicino casa sua. È enorme, come il suo cognome piazzato sopra la cancellata d'accesso.»
Toracca salutò il ragazzo con una stretta di mano vigorosa. Un gesto di vicinanza, di conforto, e anche di speranza. Non era riuscito a escludere l'ipotesi di considerarlo responsabile, anche se in forma indiretta, della scomparsa di Irene, ma di certo aveva bisogno di solidarietà. Perché negargliela?
Una volta seduto nell'auto di servizio, osservò la foto che aveva scattato col cellulare, poi la mostrò al collega.
«Non potevo sottrarla alla cornice. Tanto si distingue bene anche sul display, non ti pare?»
«Sì, con i nostri potenti mezzi ricaveremo delle buone stampe. Dottore, ritorniamo al commissariato?»
«Di corsa.»
«Mi dispiace ma non posso. Se vado veloce mia moglie la prende a male e mi rinfaccia di averlo fatto apposta per scontentarla.»
Il Commissario sorrise all'autista, di cui apprezzò l'arguzia, non solo per la freddura, De Angelis, infatti, non fece domande e rispettò il suo silenzio, effetto delle teorie, poco ottimistiche, che si accavallavano nella sua testa.
La sua abitazione si trovava sul cammino di ritorno, Toracca ne approfittò e si fece lasciare davanti al palazzo che lo ospitava. Salutò il collega e si fiondò nell'appartamento con l'intenzione di pianificare la giornata successiva nel caso in cui la ragazza non fosse tornata a casa.
L'uomo oltrepassò l'androne con la speranza di evitare quell'evenienza, ma il timore che l'avrebbe dovuta affrontare lo rabbuiò.
Percorse il corridoio con l'entusiasmo di chi cammina nelle corsie d'ospedale illuminate dalla luce dei neon, spesso tremolanti, perché in quelle file di tubi metallici c'è sempre una lampada vicina al trapasso.
Cercò la gatta e la trovò a dormire beata sul divanetto della cucina, arrotolata su sé stessa. Ombra lo guardò per un attimo, poi riprese il sonno.
Verso sera, Toracca aprì il congelatore a pozzetto e tirò fuori una scatola quadrata. La osservò e fece un commento a voce alta, diretto alla micia.
«Alla diavola. Ottima scelta, Ombra. Dicono che voi gatti siete abitudinari, eppure ti trovo sempre in posti diversi. Io, invece, ogni santo lunedì devo mangiare la pizza, se la salto sembra quasi che la settimana sia iniziata male. Mi sa che sono più scontato di te.»
Accese il forno elettrico e aspettò cinque minuti, poi attese la cottura in rigoroso silenzio, aveva bisogno di riflettere.
Il telefono fisso iniziò a squillare interrompendo i suoi pensieri e il riposo della gatta, infastidita dal susseguirsi dei trilli, troncati poi dalla pronta risposta del suo padrone.
«Pronto?»
«Ciao Alberto, come stai?»
«Bene, e tu, Stefano?»
«Tutto a posto. Ti ho chiamato perché mi sento un poco giù di corda.»
«Capita. Cosa posso fare per te?»
«Quando vieni a Napoli?»
«Non lo so ancora. Spero di potermi muovere a fine settimana, al massimo la prossima.»
«Va bene. Da te come vanno le cose? Tutto tranquillo?»
«Stefano, lo sai, qui la vita è noiosa, ma almeno ti aiuta a non soffrire sbalzi di umore.»
«Già. Io a volte mi paragono a uno scrittore che pur di conservare la propria genuinità ottiene un prodotto saporito ma toccato da qualche imperfezione. Tipo i frutti del contadino che non usa diserbanti: buoni, ma con qualche parte macchiata.»
«In quel caso tagli la parte marcia e mangi quella buona. Io detesto le mele che appaiono perfette alla vista e poi non hanno sapore. A proposito, devo cacciare la pizza dal forno.»
«Vai, Alberto. Buona cena e fatti sentire.»
Ha ragione, pensò Toracca dopo aver riagganciato, non lo chiamo mai. Però lo sapeva fin dal principio come si sarebbe sviluppata la nostra storia.
I due si erano conosciuti in chat, dopo un anno di contatti frequenti attraverso internet avevano iniziato a sentirsi per telefono.
Stefano era un medico, sposato e padre di due figli, che aveva divorziato dalla moglie non appena compreso di essere attratto in maniera ossessiva dal sogno di interpretare il ruolo femminile durante l'atto sessuale.
Alberto, che da ragazzo aveva vissuto un'esperienza coinvolgente con un suo amico, aveva immaginato di provare a rivivere determinati momenti, anche per la curiosità di scoprire l'effetto che gli avrebbe provocato farlo in età matura. Durante le videochiamate, avevano avuto modo di unire all'accordo intellettivo, raggiunto nelle tante conversazioni, anche l'attrazione fisica. Da lì, inevitabile, la necessità di incontrarsi. Avevano deciso di approfondire la loro conoscenza anche perché legati dalla stessa determinazione a mantenere l'assoluto segreto sulla relazione, qualora fosse iniziata; Stefano, perché timoroso di poter danneggiare i figli, Alberto, la sua carriera. Avevano ragionato a lungo intorno a quegli aspetti e la decisione di mantenere il riserbo era stata unanime, nonostante la consapevolezza di vivere in una società nella quale il matrimonio tra persone dello stesso sesso era stato addirittura regolamentato.
Alberto ritornò con la mente alla loro prima volta. Tirargli giù i pantaloni e scoprire il sedere. Penetrarlo. Dall'inizio del movimento una sensazione meravigliosa, un sorta di piacere protratto all'infinito, accompagnato dalle frasi di appagamento sussurrate dall'uomo disteso a pancia sotto. Poi, il culmine del rapporto con l'orgasmo, che, per intensità, aveva eguagliato, ma non superato, il benessere provato fin dal principio. Da quel giorno si erano visti una volta al mese, magari ogni due, sempre a Napoli, mai a Ischia. Erano trascorsi quattro anni, e la loro storia si era mantenuta integra, e, soprattutto, inconfessata.
Alberto, infatti, non ne aveva parlato nemmeno con Leonardo, al quale mai aveva nascosto nulla della sua esistenza, compreso le precedenti relazioni sentimentali metropolitane e isolane, solo quelle avute con donne, però. Con Oropallo, non aveva trovato mai il coraggio di riconoscere la sua preferenza. Per pudore, non di certo per mancanza di fiducia nel collega.
La pizza faceva mostra di sé al centro della tavola. Alberto decise di onorare quella visione, prese posto sulla sedia e iniziò a addentarla.
Mangiò i primi pezzi con la sua abituale velocità, poi stappò una birra e la sorseggiò dopo aver riempito il boccale. La bevanda, fredda al punto giusto, colmò l'atmosfera di allegria, che lui trasferì alla gatta in attesa della sua razione di cibo.
«Ombra, che c'è di meglio della pizza alla diavola con birra? Tu mi dirai che forse al ristorante avrei mangiato meglio. Può essere, ma io preferisco passare la serata con te.»
La gatta lo guardò altezzosa poi riprese la posizione sul tappeto di plastica, sotto al piano di cottura. Era il posto da lei nominato sala da pranzo.
Alberto terminò la cena con una dose abbondante di frutta mista, epilogo per lui irrinunciabile, e sfamò l'amore della sua vita, che consumò con la consueta voracità due scatolette di cibo per gatti dall'odore immondo per chi gliele forniva, celestiale per lei, evidentemente.
Mentre la micia provvedeva alla pulizia del muso, il coinquilino sparecchiò e mise ordine alla cucina.
Una volta concluse le operazioni, i due raggiunsero la stanza da letto, dove lui avrebbe seguito un programma televisivo, lei, chissà.
Non trascorse molto tempo che entrambi caddero vittime del sonno incombente. Il Commissario si apprestò a trascorrere l'ultima notte priva di preoccupazioni in quella che sarebbe stata una settimana burrascosa, capace di generare una di quelle tormente dagli effetti catastrofici, per i sentimenti però, non per il territorio, come era successo a Ischia qualche mese prima.

Paolo Pedicini

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
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