Le nostre mille maratone. Un anno di grazia.
Il 2002 è stato un anno speciale, di grazia. Noi stessi, tuttora, ci stupiamo di come abbiamo fatto a portare in porto cento maratone. Non era un nostro obiettivo, non apparteneva neppure all'universo dei nostri sogni. Se a inizio anno avessimo appena balbettato questo numero, avrebbe fatto il suo dovere chi ci avesse imbracati in una camicia di forza e portati al manicomio. L'idea iniziale era di farne cinquanta, un numero tondo e meno impegnativo. Poi ci siamo lasciati prendere dalla... gamba, ed è nato il numero perfetto per antonomasia. Il difficile è stato non tanto correrle quanto il reperirle, in tempi in cui le maratone non erano numerose. Non perdemmo tempo. L'11 gennaio volammo all'esotica Maratona di Dubai, per scongelarci dall'ibernazione contratta nella fredda Maratona di San Silvestro. Qui scoprimmo che Giuseppe Togni, negli Emirati Arabi, era più famoso di Totti e Baggio messi insieme. Lo aspettammo sul traguardo per applaudirlo e farlo sentire meno solo in terra straniera. Ci sbagliavamo di grosso. Appena apparve con il suo caratteristico profilo, arti superiori aderenti al corpo con gomiti estesi e palme delle mani rivolte all'indietro, arti inferiori saltellanti come un canguro, ci fu un boato di applausi mai sentito. Lo speaker annunciò l'arrivo della sua 551a maratona con lo stesso delirio dei cronisti brasiliani, quando esultano a una rete della loro nazionale. Firmò decine di autografi. I giornalisti cercarono di carpirgli il segreto di tanta energia: se la cavò egregiamente con un po' d'italiano, un po' di tedesco conosciuto da emigrante, e tanto dialetto di Lumezzane. Il giorno seguente riempiva tutti i giornali una sua gigantesca foto a colori. Continuammo nell'isola della perenne primavera alla Maratona delle Bermuda il 19 gennaio, in cui le donne erano più numerose degli uomini. Approfittando dello scalo a New York, ci recammo al Ground Zero a rendere omaggio alle vittime dell'11 settembre. Il 27 gennaio tornammo fra gli ulivi secolari della Maratona di Parabita. Gli inizi di febbraio ci videro alla Maratona di Valencia. A metà mese corremmo mascherati da principi arabi alla Carneval Maratona di Castiglion Fiorentino. A fine mese superammo indenni una bufera di vento alla Maratona dei Luoghi Verdiani. A marzo ci sciroppammo la Maratona di Piacenza. Non soffrimmo di vertigini a girare nella pista di atletica alla Maratona di Ferrara il sabato pomeriggio, e non eravamo stanchi alla Maratona di Napoli la domenica mattina seguente. Concludemmo il mese con la Maratona di Roma. Ad aprile facemmo la Pasquetta alla Maratona di Bolzano. Non ci fermammo al traguardo della Maratona di Londra, ma continuammo a correre fino a quando non ci infilammo nella vettura della metropolitana, in cui cambiammo gli abiti davanti agli altri viaggiatori. Solo così riuscimmo a non perdere l'aereo del ritorno a casa. Con la Maratona di Amburgo-Volksdorf del 19 aprile, iniziò il nostro rapporto speciale con la città, che segnò una svolta nella rincorsa al record. Navigando sulla rete, ho conosciuto Christian Hottas, Presidente della 100 Marathon Club Deutschland, che raccoglie gli atleti con almeno 100 maratone disputate in carriera. Nel sobborgo di Volksdorf organizzava maratone intorno a un laghetto, il Teichwiesen, intitolandole a personaggi illustri della cultura e dello sport. È intorno a questo specchio d'acqua che faremo un gran numero di maratone. Lo percorreremo in primavera con gli alberi in fiore; saremo sorpresi dagli acquazzoni estivi; lo rivedremo in autunno con foglie ingiallite; ghiacciato e con alberi carichi di neve durante l'inverno. Il 21 corremmo a Torino, il 25 Pisa e il 28 a Padova. Non dimenticheremo facilmente l'avventuroso viaggio per raggiungere Helgoland, isola tedesca del mare del Nord, in cui il 3 maggio abbiamo corso la Warm up Marathon e il giorno seguente la Helgoland Marathon. L'albergatore rimase stupito che una coppia d'italiani – forse la prima avventuratasi da quelle parti – avesse preferito quel posto piovoso e sperduto alla primavera mediterranea. L'isoletta si rivelò interessante e, per coprire la distanza della maratona, si dovette farne quattro volte il periplo, applauditi dal garrito di milioni di gabbiani. Con Air Dolomiti arrivammo a Monaco; coincidenza con Lufthansa fino ad Amburgo, ove, pensavamo, un normale aereo di linea ci avrebbe condotto su quest'isola ventosa, come dice il nome. Invece, ad attenderci c'era un piccolo aereo a quattro posti che, dopo essere stato sballottolato dalla furia della tempesta, si adagiò indenne sulla pista di atterraggio. Nel viaggio di ritorno, nonostante le cattive condizioni atmosferiche, il piccolo bimotore partì comunque. Giunto in vista della costa, effettuò un atterraggio di emergenza. Poi un taxi ci portò all'aeroporto di Amburgo a spese della compagnia. Il 12 corremmo fra le ridenti colline della Maratona del Custoza, laddove si fa strada il Mincio. Il 17, 18, 19, 20 e 22 ritornammo a girare intorno al laghetto di Volksdorf, diventato l'arena più famosa del mondo: quattro gare di seguito, un giorno di riposo, e poi una quinta. Un'esperienza mai fatta! Per la cronaca, Angela fu la vincitrice femminile della classifica finale della serie di maratone. Concludemmo il mese sul Sentierone di Bergamo, ai piedi della città alta. Il primo giugno fu un problema correre per le strade di Drebber, villaggio di pochi abitanti della Bassa Sassonia. Giunti in aereo a Hannover, per raggiungerlo dovemmo inoltrarci per molti chilometri nell'ordinato paesaggio della campagna tedesca, fatta di linde villette dai tetti aguzzi e ornate di fiori. Il mattino seguente eravamo a Minden, nella Renania Settentrionale-Westfalia, alla Rose Marathon, una delle più belle dell'anno. Sui prati, con alle spalle il fiume Weser, orchestre formate da giovanissimi suonavano brani di musica classica, facendomi odiare i ritmi indiavolati del rock di altre maratone. E, dulcis in fundo, il cronista annunciare l'arrivo al traguardo di Angela e Michele da Barletta, e ricevere l'abbraccio affettuoso della sig.ra Filomena di Canosa di Puglia, una professoressa da molti anni in Germania, incredula che due quasi compaesani fossero capitati da quelle parti, esclusivamente a stancarsi per una maratona! Se venerdì, 7 giugno, siamo riusciti a non saltare la Maratona di Scandiano, lo dobbiamo esclusivamente alla generosa pazienza dell'organizzatore. Essendo una giornata lavorativa, solo alle dieci siamo riusciti a liberarci dagli impegni della nostra struttura medica. Raggiunta in macchina Firenze, prelevammo il nostro amico tedesco Hans Drexler, in Italia per un convegno medico. Velocemente ci dirigemmo verso Scandiano per prendere parte alla maratona in programma nel pomeriggio. Fu una corsa contro il tempo, in un traffico automobilistico mai tanto convulso quanto quel giorno. Resomi conto di non poter giungere in tempo, telefonai all'organizzazione: «Nessun problema», fu la sorprendente risposta. «Siate prudenti lungo la strada! Vi aspettiamo». Pigiai ancor di più sull'acceleratore per creare il minor disagio alla manifestazione, limitando il ritardo a una quindicina di minuti. Sabato 9 giugno, eravamo nel Baden-Württemberg a correre tra i vigneti della Heilbronner Trollinger Marathon. A metà mese, alla Maratona di Biel, Angela portò il suo personale a 4:11:06, e il giorno dopo corremmo nella città anseatica di Lubecca. Il 22 non ci facemmo intimorire dall'altimetria di Treia, nel maceratese. Il 26, 28 e 29 di nuovo sul Teichwiesen, che ormai conoscevamo metro per metro. Conclusa l'ultima gara, volammo in Danimarca, e il giorno dopo, sotto una pioggia scrosciante, eravamo al via della Maratona di Viborg, dove al ristoro davano solo acqua, e se volevi un po' di Coca-Cola dovevi pagarla. Luglio e agosto sono mesi in cui le maratone scarseggiano in Italia, ma Internet ce ne fornì un'infinità in Europa centrale. L'estate ci vide saltare da un aereo all'altro, prendere treni in corsa, dormire nel sacco a pelo. Stringemmo amicizie, fummo ospitati in molte case, arricchendoci sul piano culturale e umano. Fu un girovagare infinito, passando per grandi città e villaggi sperduti della Germania, ove ne abbiamo corse un buon numero. Una certa freddezza, i maratoneti tedeschi, ce l'hanno fatta sentire soltanto al primo impatto. Poi, conosciuti i nostri obiettivi, la diffidenza si è trasformata in ammirazione. Ci hanno aiutato a realizzarli, ospitandoci nelle loro abitazioni e accompagnandoci in luoghi che difficilmente avremmo potuto raggiungere con mezzi pubblici. Come non ricordare quella volta in cui arrivammo di corsa in metropolitana mentre il convoglio stava partendo, e Christian a tenere aperti gli sportelli con le sue braccia per darci la possibilità di tuffarci nella vettura, nonostante il guidatore imprecasse nel suo guerresco idioma! La corsa contro il tempo è stata l'altra difficoltà affrontata: una maratona nella maratona! Non avremmo potuto correrne tante se non avessimo rischiato con orari stretti di coincidenze, giungendo qualche volta pochi minuti prima dello start. Il 6 luglio, alla Maratona di Zermatt, la celebre montagna piramidale, dai 1116 m della partenza ci arrampicammo ai 2582 m dell'arrivo. Il panorama mozzafiato, disteso davanti ai nostri occhi, ci fece rendere conto che era valsa la pena di esserci sottoposti a quell'intenso sforzo fisico. Ci precipitammo alla Malpensa, ma vedemmo l'aereo, che doveva portarci in Belgio alla Maratona di Bruges, decollare e passare sulle nostre teste. Non ci rassegnavamo a perdere una maratona. La gara più vicina era la Sky Marathon di Corteno Golgi in Val Camonica, non lontano da Brescia. Telefonai all'organizzatore, che mi scambiò per un neofita: con pazienza stette a spiegarmi che una maratona impegnativa come la sua prevedeva l'iscrizione con largo anticipo. Tornammo a casa e, domenica 7 luglio, trascorremmo una “giornata particolare” al mare di Barletta. Il 13 e 14 continuammo la serie di gare al laghetto amburghese. Pur facendo maratone la domenica, il sabato e qualche volta il venerdì, non saremmo mai riusciti a raggiungere l'obiettivo prefissato se non ne avessimo fatte 10 in 10 giorni in Olanda nei pressi di Maastricht, dal 19 al 28 luglio, sacrificando le ferie estive. Avevamo già fatto cinque maratone in sei giorni, ma dieci consecutive, per un totale di 421,950 km, mai! Volemmo provarci. La selezione è stata dura, e solo dodici uomini e due donne le hanno concluse tutte. Angela ha vinto nove singole gare e la classifica finale femminile. Lo start veniva dato da un maneggio situato in aperta campagna. Ogni mattina si partiva per un percorso naturalistico sempre diverso, prevalentemente sterrato, tra boschi di betulle, querce e abeti. È stata problematica la prima maratona, svoltasi di sera. Eravamo arrivati solo qualche minuto prima, dopo un viaggio avventuroso. Ancor più sofferta è risultata quella del mattino seguente, senza il tempo di recuperare le energie, su un terreno fangoso per la pioggia e un sottobosco graffiante gambe e braccia. Angela ha avuto problemi al ginocchio sinistro al nono giorno, ed io alla coscia sinistra al settimo. Stringendo i denti, incerottati e fasciati, siamo giunti in fondo. Difficoltà, non certo secondarie, sono state la differente alimentazione e le condizioni atmosferiche sempre cangianti. Improvvisi piovaschi facevano seguito a sole battente e a folate di vento, rendendo difficile la scelta dell'abbigliamento. Il 2 agosto siamo tornati al laghetto. Il 4 agosto, poco dopo la mezzanotte, stavamo a Greenwich per la più originale delle maratone: si andava avanti e indietro in un angusto tunnel pedonale sotto il Tamigi. Me ne aveva parlato l'inglese Peter Graham alla Maratona di Helgoland. Su dieci parole, ripetette cinque volte “tunnel”. Tanto bastò perché declinassi l'invito: «Sottoterra non correrò mai!». Mi si proponeva di sprecare energie per circa quattro ore in un luogo buio e angusto, a me amante del sole, della luce e dei colori. Avevo cominciato a correre a Canne della Battaglia, ove la bellezza del luogo si coniuga con la grande storia. Quando me ne andavo per maratone, sceglievo con cura le più gradevoli dal punto di vista naturalistico, artistico e storico. Con questi precedenti, non potevo accettare di correre nelle tenebre di una galleria sotterranea. Qualche giorno dopo la citata Maratona di Helgoland, mi trovavo nel salotto del dottor Christian Hottas, ad Amburgo. Mi parlò di Greenwich, da cui si cominciano a contare i meridiani. Da un magnifico prato di questo sobborgo di Londra parte la Flora Marathon. Cento anni fa – continuava a dirmi – fu costruito un passaggio pedonale sotto il Tamigi e, per celebrarne la ricorrenza, era stata organizzata una maratona a numero chiuso. Ci confidò che l'evento si sarebbe svolto una sola volta. Angela e io eravamo gli unici italiani a essere invitati, un privilegio guadagnato per quanto andavamo facendo per le strade di tutto il mondo. Christian non nominò mai la famigerata parola “tunnel”. Messa così su un piano meno brutale e quasi culturale, preso per il mio lato debole, e perché chi va con lo zoppo impara a zoppicare, accettai di partecipare alla The Greenwich foot centenary tunnel. Quando si vuole battere un record, si è costretti a partecipare a tutte le gare che offre il mercato, non solo a quelle coreografiche come New York. Dopo 150 maratone, potevo permettermi di farne una diversa. Anzi, devo confessare che cominciai a trovare eccitante la nuova esperienza. Chi ha detto che un po' di bizzarria non faccia bene? Non bizzarri, addirittura marziani dovettero sembrare ai newyorkesi quei pochi corridori che attraversarono la città alla prima edizione della maratona. Adesso quello sparuto manipolo è diventato una moltitudine applaudita senza fine. Per non intralciare il traffico diurno del tunnel, siamo scesi negli inferi in compagnia di altri cento maratoneti nel buio della notte. Aveva una forma semicilindrica, largo 2 m, alto 3 m, lungo 364 m, che tra andata e ritorno diventavano 728 m, da ripetere 58 volte per completare la distanza della maratona. Per un terzo della lunghezza era in discesa, per un terzo in piano, l'ultimo terzo in salita. In questo stretto spazio, duecento piedi battevano rumorosamente il suolo. Era un va e vieni di concorrenti che si lanciavano alte grida d'incitamento, in un frastuono accentuato dal rimbombo. Nell'intenzione degli organizzatori, la musica avrebbe dovuto addolcire la nostra fatica. Creò soltanto un aumento della rumorosità, mettendo a dura prova il senso dell'orientamento e dell'equilibrio. Con lo scorrere dei giri, l'atmosfera cominciò a mutare. Il tasso di umidità diventò sempre più alto, indebolendo le forze degli atleti grondanti sudore. Gocciolavano anche le pareti del tubo semicilindrico, che andarono a formare un rigagnolo sul pavimento. Le grida di entusiasmo gradualmente si attenuarono, i piedi batterono con minor vigore e i sorpassi diventarono meno frequenti. A metà gara si udiva soltanto ansimare, e piacevoli cominciarono a giungere alle nostre orecchie le note musicali. Olezzi non proprio gradevoli emanavano i corpi sudati e i muri bagnati. L'evento, cominciato in un rumore assordante, volse alla fine quasi in silenzio. A mano a mano il numero dei concorrenti cominciò a diminuire per aver concluso la fatica o per abbandono, mentre altri andavano al passo, spossati. Dopo circa quattro ore e trenta risalimmo a rivedere le stelle. Non male se si pensa che il giorno prima avevamo concluso un'altra maratona, e non era passata una settimana dalle dieci maratone in altrettanti giorni. Di primo mattino, nebbia e freddo avvolgevano questa zona periferica di Londra. Per noi, risalenti dal sottosuolo, ci sembrò godere una giornata primaverile. Il 9 e 10 agosto ancora al laghetto, l'11 a Wardenburg, distante 200 km, in Bassa Sassonia. Il 16, 17, 18 e 23 ci riprese la nostalgia e tornammo sul Teichwiesen. Il 24 ci allontanammo di 70 km per raggiungere Schneverdingen, e il 25 facemmo il periplo del lago di Plön dopo aver viaggiato per 190 km. Il 31 conoscemmo la città di Stendal in Sassonia-Anhalt. Il primo settembre ci trasferimmo a Halle e corremmo i 42,195 km che la separano da Lipsia. Ricco di sorprese fu il lungo fine settimana in cui il 6 settembre corremmo al laghetto, il 7 a Bremerhaven e l'8 a Münster. Questa illustre città della Renania Settentrionale-Westfalia fece parte della Lega anseatica; aderì alla Riforma in un primo tempo, per poi tornare al cattolicesimo; nel 1648 fu firmato il trattato di pace di Westfalia, che pose fine alla guerra dei Trenta Anni. La trasferta in terra tedesca era cominciata all'alba di venerdì con un volo Bari-Venezia-Monaco-Amburgo, per giungere alla partenza della maratona sul laghetto di Volksdorf nel pomeriggio. Terminata la maratona, a notte fonda, Christian Hottas ci prepara la cena e pernottiamo a casa sua. Sabato, Manfred Hopp ci porta in macchina a Bremerhaven, distante 180 km, in tempo per la partenza della gara. A gara conclusa, perdiamo il treno per Bremen, dove ci attendeva Uli Schulte per condurci in macchina a Münster. È sempre Manfred Hopp che si offre di accompagnarci in auto all'appuntamento con Uli Schulte. Giungiamo a Münster appena in tempo per il ritiro dei pettorali. Non abbiamo un albergo prenotato, e Christian riesce a farci ospitare presso una coppia, che l'indomani farà la prima esperienza in maratona. La villetta di Ingrid e Heinz Johannes è grande e raffinata. Nel salotto fa bella mostra di sé una riproduzione di un luminoso paesaggio con case bianche. A cena, Ingrid si rivela cuoca bravissima. Ci vengono serviti pennette in salsa con basilico, spaghetti al pesto, salmone saltato in padella e un insuperabile soffritto di cipolla. Non riesco, però, a distogliere lo sguardo da quelle pittoresche case bianche, che mi sembrano familiari e quasi appartenermi. Fatte fuori le pennette, passo agli spaghetti. Nel portare la prima forchettata alla bocca: «Ho trovato!» esclamo. «È Ostuni!». La conferma mi arriva quando leggo accanto al nome del pittore quello, in piccolo, della città. Si è soliti ritenere essere i nordici riservati e chiusi. Possono esserlo al primo impatto. Chi non lo è? Poi aprono la casa e il cuore. Proprio da queste parti l'8 settembre del 9 d.C., lo stesso giorno della maratona, si consumò il più odioso e meglio riuscito dei tradimenti. Arminio, figlio di un capo tribù germanico educato a Roma e in possesso della cittadinanza, tese un'imboscata nella selva di Teutoburgo ai soldati comandati da Quintilio Varo, presso il quale era stato ospite la sera precedente. Tre legioni, mentre si stavano aprendo faticosamente la strada a colpi d'ascia sotto la pioggia in territorio paludoso, furono assalite alle spalle, e sterminate fino all'ultimo uomo. Roma non riuscì mai più a rimpiazzare in quella regione i ventimila soldati trucidati. Qualche anno dopo, Germanico ristabilì il dominio romano, ma Tiberio gli ordinò di non superare la linea Reno-Danubio. Senza quel tradimento, la storia avrebbe potuto avere un altro corso. Forse non avremmo avuto le invasioni barbariche, Carlo Magno, le guerre di religione e il nazismo. Molto probabilmente, l'Europa unita sarebbe già stata una realtà millenaria. La maratona percorre la parte antica della città, estesa a pianta medievale attorno al monastero di S. Paulus. Mi colpisce la Westfälische Wilhelms Universität, una delle più grandi università tedesche. Mi dicono che Münster non abbia industrie e viva di cultura e uffici amministrativi. Per alcuni chilometri ci immergiamo nel Münsterland, fatto di campagna e piccoli centri, costeggiando per lungo tratto il suggestivo lago Aasee. Angela accusa dolori alle gambe, ma non cede; potrei allungare il passo, ma rimango a farle compagnia. Gli ultimi chilometri sono tutti nel centro storico, con il traguardo nell'armoniosa Principalmarket. Sebbene fosse la prima edizione, un numeroso pubblico ha applaudito i concorrenti con un calore mai visto. Ho notato anche un gruppo di suore mettere da parte l'abituale compostezza, sbracciarsi e applaudire: la città è un'isola cattolica in un land protestante. Lancio un ultimo sguardo al tardogotico Rathaus e alla Lambertikirche, i gioielli della piazza. Uli Schulte ci accompagna all'aeroporto. Ritardi permettendo, staremo a casa poco dopo la mezzanotte per poter riprendere gli impegni lavorativi lunedì mattina.
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Münster fu la sessantaseiesima gara. Angela aveva riconquistato il primato del maggior numero di maratone disputate in un anno, e poteva ritenersi appagata. Anch'io ero diventato il primo in campo maschile. Promettemmo a noi stessi di darci una calmata, limitandoci agli spostamenti in Italia. Le rimanenti maratone di settembre a Grottazzolina, Borgo San Lorenzo, Ravenna e Prato ci sembrarono delle passeggiate nei confronti del dinamismo precedente. Fu Mario Ferri, il più creativo del nostro ambiente podistico, a lanciare l'idea. «Perché non arrivate a cento?». «Il solito Mario sognatore!» commentai. Buttata lì per lì, quasi a bruciapelo, non le detti importanza. Appunto perché impossibile da realizzare, mi sembrò un suggerimento espresso per caso, tanto per dire qualcosa tra amici che non si vedevano da molto tempo, per via delle nostre frequentazioni estere. Quel “cento” cominciò a rimuginarmi nella mente. Per i pitagorici era una divinità, essendo il quadrato di dieci, da essi considerato numero perfetto. Nella cultura ebraica esprime il concetto di “santità”. Mettendo da parte argomentazioni teologiche, filosofiche e matematiche, anche nella pratica quotidiana, quel numero ha qualcosa di seducente. È la temperatura di ebollizione dell'acqua, il divisore dell'euro, il voto massimo all'esame di maturità, il numero base della percentuale, il numero d'anni di un secolo. Continuando a volare più basso: «Vorrei vivere cent'anni», «Colpire uno per educarne cento», «Meglio una cosa fatta che cento da fare». Trovammo l'idea entusiasmante e ci lanciammo anima e corpo alla rincorsa di quel numero: «Meglio un anno da leone con cento maratone che cento anni da pecora!». Il 6 ottobre eravamo a Carpi. Indimenticabile fu il fine settimana seguente in Germania. Il venerdì, raggiunta l'abitazione di Christian Hottas, in macchina ci dirigiamo alla volta di Wernigerode, nella Sassonia Anhalt. Dormiamo nell'affollata palestra della scuola cittadina, avvolti nel sacco a pelo. Ci svegliamo con il torcicollo e la schiena a pezzi. Non c'è tempo per i lamenti, ci attende la Maratona del monte Brocken, la cima più alta della Germania settentrionale, avvolta quasi sempre dalla nebbia o coperta di neve. Rimango perplesso nel vedere questi nordici protetti da calzamaglia, guanti, berretto e giacche antivento, mentre io sono l'unico in pantaloncini corti, maglietta a maniche lunghe e bandana in testa, usata per proteggere gli occhi dal sudore. Comincio a preoccuparmi quando vedo anche Christian, veterano di tante battaglie, coperto dalla testa ai piedi. «Lassù sibila il vento!» mi dice Hans Drexler, mostrandosi perplesso della mia tenuta quasi estiva. «In cima non c'è un albero, solo sassi battuti dal vento». E aggiunge: «Oggi la temperatura è -10°!». Tutti hanno un sacro timore del monte. Rimango indeciso, perché ho lasciato insolite temperature estive a Barletta. Ma titubare è noioso, e non c'è tempo per i ripensamenti. Affronterò la montagna nell'abituale abbigliamento. Siamo circa un migliaio a inoltrarci nella fitta foresta, che lascia cadere sui nostri corpi le prime foglie ingiallite. Un rumore di rotaia giunge al mio orecchio e, poco dopo, un suono simile a un fragoroso muggito: è la Brockenbahn, la caratteristica locomotiva a scartamento ridotto che porta i turisti in vetta. Il sentiero sterrato comincia a inerpicarsi, costeggiando un ruscello scavalcato più volte. Gli alberi a foglia caduca lasciano il posto ad abeti dal tronco alto e dritto con in cima un ciuffo di rami verdi. Seguono irti e piccoli abeti di recente forestazione, e un cielo sgombro di nubi si schiude su di noi. Il vento, non più trattenuto dalla vegetazione, comincia a far notare la sua presenza. La salita diventa dura, i più vanno al passo, mentre io continuo a correre per oppormi al freddo e al vento. Al 16° km, la strada s'impenna, ergendosi come una barriera altissima. La vegetazione scompare, il vento ulula investendoci direttamente. Chi non aveva ancora indossato una giacca pesante, ora provvede. Per il vento e la pendenza, si fa un passo avanti e due indietro. Non ho freddo alle gambe, sono ghiacciati le mani e il viso. Quando la salita si attenua, corro per non congelarmi. I tedeschi mi riconoscono come italiano dalle scritte sulla maglietta. Li sento parlottare, e percepisco distintamente: «Dolomiten!». Solo un montanaro delle Dolomiti, abituato al freddo, poteva sfidare il monte Brocken in pantaloncini corti. A me, montanaro! A me, nato e cresciuto ai bordi del Tavoliere! Scorgo la torre della stazione radiotelevisiva, che mi indica essere la vetta vicina: «È finita! Non lascerò le mie spoglie su questo monte». Hans mi aveva detto a valle: «Era l'orecchio della Russia che spiava l'Occidente». Ammirato il panorama di morbide colline, mi butto a capofitto nella discesa. Nelle mie vene avverto qualcosa cominciare a muoversi e poi a scorrere. Un caldo tepore m'investe, donandomi benessere. Le gambe vorrebbero volare e il cuore andare a mille, ma non posso rischiare di cadere sul terreno sdrucciolevole, compromettendo le future fatiche. Corro nel silenzio del bosco, di tanto in tanto interrotto dal muggito della Brockenbahn. Al traguardo mi attende Hans sventolante il tricolore. Poco dopo arriva Angela, batte ancora i denti per il freddo, ma ha tenuto duro. Alla piccola “Oktoberfest”, una zuppa calda di patate e una birra c'infondono calore e vigore. Partiamo per Amburgo, domani ci aspetta l'Alster Marathon. Prende il nome dal fiume Alster, lungo i cui argini si snoda. Abbandoniamo subito l'asfalto, e ci infiliamo negli stretti sentieri costeggianti il fiume, seguendone i meandri. Corriamo immersi nella natura malinconica d'autunno. Le rive sono deserte, silenziose, e qualche barchetta giace agli ormeggi. Oche scivolano sul pigro fiume, unico segno di vita in un'atmosfera di dolce decadenza. Piccole salite si alternano a discese, su un suolo reso morbido dalle foglie cadute. Incrociamo ripetutamente il corso d'acqua su piccoli ponti, e c'è anche un discreto numero di scalini da saltare. Con il passar del tempo i luoghi si animano, e sul finire della gara riceviamo gli applausi di coloro che fanno la passeggiata domenicale. Una doccia rigeneratrice ci rimette in sesto, mentre i soliti amici ci accompagnano all'aeroporto. L'aereo sussulta nel bucare le nubi che coprono il cielo autunnale di Amburgo. Rilassati, godiamo la quiete che segue la fatica, e Angela non ha bisogno di stringersi al mio braccio, come al solito, per superare l'impatto del decollo. Il 20 ottobre salimmo a San Marino, il 26 corremmo lungo il Reno di Basilea e il 27 sul Reno di Calderara, vicino Bologna. Il 2 novembre ci accolse la cittadina di Bredelar e il 3 la popolosa Düsseldorf. Ci portammo, quindi, a Livorno, Bari e Martinsicuro. Il 29, 30 e il primo dicembre ancora al laghetto. Il 7 corremmo a Ellerdorf, nello Schleswig-Holstein, l'8 nel quartiere Berne di Amburgo, il 13 al laghetto e il 15 a Reggio Emilia. Per farne cento, fummo costretti a passare le vacanze natalizie a correre attorno al laghetto per undici giorni sul finire di dicembre. Sono sedici i giri da inanellare attorno al Teichwiesen. Fa molto freddo, il terreno è lastricato di neve ghiacciata e mantenere l'equilibrio non è facile. Tutto fila liscio nelle prime due maratone. Alla terza il termometro segna -3°. I rami degli alberi reggono a fatica l'abbondante neve caduta nella notte, e un pallido sole illumina il paesaggio. Sul lago ghiacciato, i bambini inventano mille giochi. Angela ha appena iniziato il suo settimo giro, quando un bambino le sbarra la strada e, per evitarlo, rovina pesantemente al suolo, battendo la regione sacro-coccigea. Dolorante, si alza e continua la gara. L'infortunio condizionerà le rimanenti prestazioni, ma ogni giorno si presenterà alla partenza, nonostante la corsa ne acuisse la sofferenza. Alla quarta e quinta maratona la temperatura è -7°. Il giorno di Natale si corre la sesta. Se i lancinanti dolori non diminuiscono, almeno si riduce il numero di gare da correre, e questo dà ad Angela la forza di continuare. La sintomatologia è a livello del coccige, c'è ben poco da fare, anche se fosse fratturato. Non nevica più, quella residua sul terreno è diventata ghiaccio. Le scivolate sono all'ordine del giorno. Nella nona e decima il termometro sale, il ghiaccio si scioglie ed è il fango il nuovo problema, per via dell'immancabile pioggerellina. Con l'undicesima maratona termina l'avventura tedesca, ma non la sofferenza di Angela, la cui forte motivazione ha fatto miracoli. Nel pomeriggio, raggiunto l'aeroporto di Amburgo, l'aereo con un primo balzo ci porta a Monaco e con un secondo a Venezia. Raggiungiamo in macchina Calderara di Reno. È l'alba. La mattina del 31 dicembre, sotto una pioggia incessante e un freddo patito neppure in Germania, completiamo la centesima maratona dell'anno alla Maratona di San Silvestro. Poi ci siamo diretti a sud a trascorrere il Capodanno in famiglia. Dopo tanto vagabondare, gli affetti hanno un sapore diverso. L'anno nuovo ci ha trovato distesi sulle spiagge dell'isola di Mauritius, al Villaggio Valtur “Le Flamboyant”. In definitiva, il 2002 è stato un anno irripetibile, denso di emozioni inimmaginabili! Anche l'aspetto atletico, tutt'altro che marginale nel nostro approccio alla corsa, è stato di tutto rispetto. Il miglior tempo di Angela è stato di 4:11:06, e quasi tutte sotto le cinque ore. Il mio miglior tempo è stato di 3:37:58, e ben venti sotto le quattro ore. Dovendo farne tante, abbiamo dovuto per forza di cose distribuire con parsimonia le energie. Una cosa è gareggiare una sola volta e starsene un intero anno a riposare, un'altra è farne tante, e con altimetrie impegnative! I chilometri percorsi sono stati circa 4.219, una maratona ogni tre giorni. Sono da mettere in conto i massacranti trasferimenti e le estenuanti attese negli aeroporti, più stressanti della stessa fatica della maratona, per non parlare dell'alimentazione, cui abbiamo dovuto adattarci, e della salutare doccia, non sempre disponibile tra una gara e l'altra. Avendo corso a tutte le latitudini e in tutte le stagioni, anche il tempo atmosferico ha creato i suoi problemi con calure torride in estate e pioggia in inverno. Non si pensi che fossimo sempre in forma, essendoci qualche volta presentati sulla linea di partenza con qualche acciacco. Quarantuno gli anni di Angela, cinquantasei i miei. Fanno male tante maratone? Da sempre, ai cambiamenti di stagione, contraggo una sindrome influenzale. Nel 2002, niente! Cento maratone possono essere una valida alternativa laddove falliscano i vaccini. Il costo è il problema!
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I dolori del maratoneta con la moglie maratoneta La più grande sventura che può capitare a un maratoneta non è la cattiva prestazione o il ritiro: verranno giorni felici per dimenticare e riscattarsi; non è neppure l'evento traumatico: il riposo e le cure faranno ritornare il sorriso. La croce maggiore è avere la moglie maratoneta! Un peso che mi condiziona, mi schiaccia e mi perseguita da una vita. Se poi è anche famosa, sei finito! Coniuge letteralmente significa: uniti in due sotto il giogo. In realtà è il solo bue che si sobbarca tutta la fatica di tirare il carro dell'umana esistenza. Sono stufo di sentirmi ripetere mille volte: «Beato te!» da coloro la cui moglie non corre. Non riesco più a fare buon viso a cattivo gioco, per cui ho deciso di sfogarmi, di mettere a nudo la cruda realtà. I dolori cominciano già durante gli allenamenti. Uno smette di lavorare, e se ne va a correre per dare un calcio allo stress. A me, questa libertà, non è concessa! Sono costretto a farli con lei e adeguarmi al suo passo, perché devi proteggerla dai cani randagi, devi tirarla per velocizzarla o perché, semplicemente, da sola si annoia. L'allenamento diventa il proseguimento delle tensioni lavorative. Non è finita! La gente, che non sa come stanno le cose ma deve sempre parlare, guarda e fa commenti. «Nelle gare, lei arriva prima di lui!». «Hanno fatto 100 maratone?». «Lei, ci credo». «Pure lui?». Mi consolo al pensiero che parlano bene della mia metà, ed è come apprezzare me stesso. Nelle gare, per fortuna, la lascio e posso correre immerso nei miei pensieri. Ma non è sempre così. Quando il percorso non è ben segnalato o il traffico automobilistico indisciplinato, devo gareggiare con lei perché non si perda o non venga investita. Nelle gare riacquisto, qualche volta, il piacere di correre, ma perdo quasi sempre la mia identità. Non sono più Michele Rizzitelli, ma il marito di Angela Gargano, quando mi va bene; frequentemente divento il sig. Gargano. Tutti si affrettano a stringerle la mano, a complimentarsi per le sue imprese, e io rimango in ombra. Qualcuno, di quelli più caritatevoli, cui faccio compassione, mi rivolge la parola: «Corri anche tu?». Non conosco il beneficio di una bella doccia calda subito dopo il traguardo. Sotto qualsiasi condizione atmosferica, tutto sudato devo aspettare il suo arrivo per abbracciarla. Devo avere una fibra molto robusta se finora broncopolmoniti, reumatismi e malanni vari non mi hanno colpito. In cuor mio mi auguro che non rientri tra le premiate, altrimenti mi tocca caricarmi sulle spalle un intero prosciutto al Mugello, dieci bottiglie di vino a Martinsicuro, venti chilogrammi di pasta a Cagnano Varano. Nel tornare a casa, io guido per 700 km, lei trasforma il sedile in un comodo letto e mette a riposo le sue lunghe gambe, ponendole in posizione declive sul cruscotto per favorire il ritorno venoso. Quanto invidio quei maratoneti che, sulla via del ritorno, chiamano casa: «Amore mio, sto arrivando!». Trovano la porta spalancata con la moglie sull'uscio, in vestaglia e profumata. Giunti a casa, il mio destino è segnato, ed è sempre lo stesso. Ho fatto la doccia, mi sono appena sdraiato sul divano per raccogliere le mie stanche membra, ed ecco che devo prestare attenzione a lei che si lamenta dei suoi dolori. Ed io, che sono in condizioni peggiori delle sue, devo coccolarla, massaggiarla e sussurrarle parole d'amore. Questa è la dura realtà di chi è maratoneta lui e maratoneta lei. E non ho riferito tutto. Per non essere tacciato di tirchieria e venalità, sorvolerò sul fatto che ogni cosa costa il doppio. Quelle poche volte che corro da solo sulla spiaggia e la mente, libera da tossine, esprime il meglio di sé, questa situazione mi appare diversa. Comincio a pensare che dietro una grande donna c'è sempre un grande uomo. Intanto, continuo a correre. La brezza marina fa pervenire al cervello ossigeno purissimo, mentre l'immensità del mare mi dona pace e tranquillità. I neuroni, i nuclei e le sinapsi vanno al massimo, e mi fanno capire che sono un uomo veramente fortunato. Avere la moglie maratoneta è stato il dono più grande che mi potesse capitare!
Michele Rizzitelli
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