In un parco privato del popoloso quartiere di periferia, al terzo piano di uno degli edifici ivi insistenti, i signori De Falco si preparavano alla cena. Lui aprì uno dei moduli della cucina e restò basito, stupito e allarmato dalla presenza di buste di biscotti, torroncini, caramelle e cioccolatini. Non avevano figli e i dolciumi li avevano esclusi dalla dieta; né avevano in programma nell'immediato ospiti in arrivo con bimbi. Chiamò la moglie e le chiese severo: «Lucia, puoi venire un attimo?». Lei era di là nel salotto, intenta a seguire la soap e per niente allettata dal pensiero di doverne interrompere la visione. «E' urgente?» domandò. «Sì.» le rispose lui, risoluto. Di malavoglia ma paziente, lei si alzò dal divano e lo raggiunse: «Cosa c'è di così urgente, Corrado?». «Mi spieghi il perché di tutti questi dolciumi?» «Non ti preoccupare, non sono per noi.» «Ah, no, e per chi allora?» «Oggi è il trentuno ottobre.» «Quindi?» «Si festeggia halloween.» fece lei, sorridendo e sollevando le braccia con un lieve accenno di danza. «Tornano i defunti. Sono gli spiriti di chi è morto di morte violenta; e non li fermano le lastre tombali, né le mura o i cancelli: escono dalle bare, dai cimiteri, danzando ebbri e minacciosi nella tetra processione della notte di Ognissanti!» Il De Falco la guardò, sconcertato e scuro in volto: «Da quando in qua festeggiamo halloween?». «Noi no, ma i bimbi sì.» «Quali bimbi? Non ne abbiamo.» «Lo so che purtroppo non ne abbiamo. Ci sono, però, quelli degli altri: quelli del parco. Ti ricordi che l'anno scorso hanno bussato alla porta e ci hanno trovato impreparati. Senza nemmeno un biscottino o una caramella. Mi sono sentita inadeguata, sbagliata, e così ho pensato di non ripetere la figuraccia.» «Inadeguata, sbagliata, ma cosa vai farfugliando?» «Sì, inadeguata e sbagliata, perché se la gente fa una cosa io non posso fare sempre altro: non voglio essere guardata come un'aliena, una che si comporta in modo strano, diverso, che fa sempre l'opposto di quello che fanno gli altri.» «Io non mi sento né inadeguato né sbagliato: halloween non mi piace. È solo l'ennesima trovata per trasformarci in gregge ed essere funzionali al sistema.» «Di quale sistema parli?» «Lo sai di cosa parlo, non far finta di non capire.» «Bene, se vuoi, tu continua a fare l'orso: io, invece, voglio essere come tutti gli altri, far parte del gregge, sentirmi finalmente una persona normale.» «Normale?» «Sì, normale.» ribatté lei; e incalzò: «Tanto normale che dall'anno prossimo dietro i vetri delle finestre metterò le teste intagliate di zucca con all'interno i moccoli delle candele accesi, di modo che tutti quelli che ci passino di sotto le vedano brillare.» Lo squillo del campanello della porta d'ingresso interruppe l'alterco tra i due.
«Stanno bussando, sono loro.» disse la donna. «Chi è?» chiese, divertita. «Dolcetto o scherzetto!» gridarono di rimando i bambini. Lucia aprì e li vide, erano due maschietti e tre femminucce tra i sette e gli undici anni più uno piccolissimo. Indossavano i tipici costumi di halloween di streghe, vampiri e ritornanti vari, surrogati delle anime migranti e inquiete, che nella narrativa e nel cinema horror cercano di stabilire rapporti non sempre accettabili e condivisi tra i vivi e chi non lo è più. Al più piccolo del gruppuscolo, la maschera di gomma bianca dall'espressione urlante di Ghostface, l'assassino seriale di Scream, si era lacerata; e lui se la era tolta, stringendola in una delle mani: aveva gli occhi grandi come due prugne olivastre, che emanavano un fluido particolare, magico. E sorrideva. La donna ne era fascinata, continuava a fissarlo, immobile, muta. «Dolcetto o scherzetto?” ripeté il più grande, destandola dal suo torpore. «Già, dolcetto o scherzetto?...» balbettò lei; e aggiunse, abbozzando un mezzo sorriso o qualcosa che a malapena gli somigliava: «Dolcetto, ovviamente!» Fece cenno ai bimbi di aspettare, andò di là, prese i dolciumi e glieli distribuì. Nell'accomiatarli, si rivolse al più piccolo e gli chiese come si chiamasse. «Giacomino.” fece lui, stringendosi nel suo mantello nero dalla base dentellata. «Giacomino e basta?» «No, Giacomino Luini.» «Quanti anni hai?» «Sei.» rispose lui, illuminandosi in un sorriso a tutto tondo. Mentre con la destra mostrava quattro dita e con l'altra due, la mascherina di gomma ispirata all'urlo di Munch gli scivolò sul pavimento del pianerottolo. I compagni risero e lo presero in giro, invitandolo a seguirli: «Forza, marmocchio –imbranato, raccogli la mascherina e vieni via con noi». Il bimbo guardò la donna e arrossì. «Vai, Giacomino, gli amici ti chiamano.» Il bimbo interdetto sul da fare, ma sorridente, se ne andò, ricongiungendosi agli altri che già si erano avviati, pronti a bussare alle altre porte. «Quel loro dolcetto o scherzetto sa di ricatto», borbottò Corrado, non appena Lucia rientrò, «mi ricorda il vecchio “O la borsa o la vita!” di una volta.» «E poi cos'è questo moda di demoni e mostriciattoli vari?» aggiunse. «La solita americanata consumistica, che acriticamente ogni volta facciamo nostra, il sabba del villaggio globale, l'umanità che tenta di esorcizzare la paura della morte?» «Abbiamo capito.» sbottò lei, «Halloween non ti piace. E con questo? Perché non piace a te non deve piacere a nessuno? Fattene una ragione, halloween agli altri piace! Non sei obbligato a festeggiarla, però lascia chi vuole libero di farlo: come va il mondo non lo decidi tu.» L'uomo guardò fuori dalla finestra: nel cielo già scuro dell'approssimarsi della sera insisteva silente una grande e minacciosa luna, rossa di mestruo; e nell'aria c'era un puzzo insopportabile di morte e cadaveri in putrefazione. Pensò ai revenant, che, secondo la leggenda, nella notte di halloween lasciano le tombe per saldare i vecchi conti in sospeso; ma poi più realisticamente optò per i soliti cassettoni dei rifiuti sempre stracolmi, causa saturazione di alcune discariche, ai quali qualcuno doveva aver dato fuoco. Chiuse la finestra e ricominciò a preparare la tavola, mentre Lucia alle prese coi fornelli gli volgeva le spalle. «Dolcetto o scherzetto!» cercò di provocarla. «Vorrei sapere cosa gli insegnano questi genitori ai loro figli: ad andare in giro a chiedere il pizzo? Se mi dai il dolcetto, ti lascio tranquillo; se non me lo dai, io non ti lascio in pace.» La donna lo ignorò. Il silenzio fu la modalità comunicativa, che come un muro trasparente e infrangibile si frappose tra i due fino a notte fonda, quando il sonno li prese.
Quella mattina il commissario Gennaro Fasulo era allegro e insolitamente loquace. Chiamò nel suo ufficio il vicecommissario Oreste Gaudino e dopo averlo fatto accomodare gli annunciò con gli occhi che gli ridevano: «Giovedì santo vado a Procida e ci resto fino a tutto lunedì in albis. Martedì sarò già qui. Una vacanza, come vedi, brevissima; credo che me la meriti». «Certo che te la meriti.» rispose l'altro, sorridendo. «Dalla scorsa estate, non un giorno di malattia, non un giorno di ferie; sei sempre presente. Da fare schifo. Puntuale. Mai una volta che ti assenti. A noi comuni mortali, se continui così, rischi di farci sentire non adeguati, indegni del nostro status di lavoratori al servizio della comunità; quindi, ben venga questa vacanza!» proseguì. Il Fasulo e il Gaudino erano amici e si conoscevano sin da quando erano semplici agenti di polizia; in un'occasione il primo aveva anche salvato la vita all'altro. Si davano del tu e almeno una volta al mese andavano a teatro insieme alle rispettive mogli. «Ovviamente, tu mi sostituisci per tutto il periodo. Con te ci sarà Cellamare, un ottimo elemento. Con lui puoi dormire tranquillo.» «Sì, certo, è in gamba, ci ho già lavorato insieme; comunque, senza nulla togliere a Biagio, è la squadra che funziona, non ci sono problemi.» «Quindi, posso partire sereno?» chiese il commissario, effettuando una breve pausa, per poi precisare: «Sereno, ovviamente, nell'accezione tradizionale del termine». Il Gaudino sorrise e di rimando: «Non mi dire che vuoi darti alla satira politica». «Non ci penso affatto.» si schermì l'altro.
Salvatore Tofano
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