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Autore: Monica Benedetti
Nehuan ni Tehuan - io sono te
Romanzo
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Nehuan ni Tehuan - io sono te
La serata danzante.

Un'altra spunta nell'elenco delle cose da fare.
Sorridendo, soddisfatta, guardavo quel foglio di carta così prezioso per me. Avevo raggiunto un nuovo obbiettivo. Ora, per giusta regola, dovevo concedermi una piccola gratificazione per quella nuova conquista. Dopo aver premuto invio sul pulsante che confermava la disdetta dal giornale finanziario, provai un senso di panico misto al sollievo di aver compiuto un altro passo per allontanarmi da lui.
Era sua l'abitudine acquisita nel tempo di leggere, ogni
mattina, il quotidiano finanziario. Essere informata sulle quotazioni di borsa o investimenti fruttiferi non era mai stata una mia priorità finché Yuri non mi aveva insegnato l'importanza di conoscere il mondo del denaro, di svegliarsi con l'unico obbiettivo di essere informati, prima anche di fare colazione, sull' andamento economico planetario. E' questo il pane quotidiano mi ripeteva; l'unico pane utile per il successo. Ricorda che il valore di un uomo si riconosce dal suo conto in banca, sempre.
Decisi che mi sarei concessa una cena in un bel ristorante. Da qualche mese non avevo quasi messo il naso fuori di casa e uscire mi avrebbe fatto sicuramente bene. Scorrendo gli annunci dei migliori ristoranti in città, apparve sul desktop del mio PC la pubblicità di un evento che si sarebbe tenuto la sera stessa, per due giorni consecutivi. Un gruppo di nativi americani teneva uno spettacolo danzante al parco.
Sorrisi ricordando un evento simile di tanti anni prima. Una delegazione di indiani della antica tradizione azteca portava cultura e spettacolo in giro per il mondo. Raccontavano gli abusi e le ingiustizie subite dal loro popolo da più di seicento anni. Ero ancora una ragazzina e quel racconto scavò profondamente fino a farmi desiderare, per anni, di andare a visitare personalmente la riserva dei nativi. Imparai un antico saluto Nauatl, quella sera e mi sembrò la sintesi di ogni credo esistente: Nehuan ni Tehuan Tehuan ni Nehuan: Io sono te, tu sei me. Affascinata da quella cultura così lontana dalla società in cui vivevo, per alcuni anni mi immersi in ricerche ed approfondimenti, salvo poi tornare ad essere assorbita, anima e corpo, dal dovermi conformare con il mondo che mi impegnava, giorno dopo giorno, nella battaglia per la sopravvivenza nella società cui appartenevo per nascita biologica.
Alla fine decisi per l'evento al parco. Una cena al ristorante era comunque un modo per rimanere nella zona comfort e io dovevo uscirne nel minor tempo possibile.
Quando arrivai al parco c'erano sparuti gruppetti di persone in attesa dell'evento, perlopiù in coda agli stand che vendevano pane fritto, le nostre frittelle che per i nativi divennero per molto tempo il pasto principale, dopo la conquista europea dei loro territori. Mancava ancora una mezz'oretta all'inizio dello spettacolo e anche io mi avvicinai alle esposizioni alimentari del popolo nativo protagonista della serata. Il profumo del pane fritto mi spingeva ai ricordi d'infanzia quando ancora non mi ponevo troppi problemi di prendere peso e la nonna, ogni volta che andavamo a trovarla in campagna, preparava per me e mio fratello quel semplice composto gustoso, cui aggiungevamo un cucchiaio di zucchero dopo la cottura e prima di gustarne tutta la morbida fragranza. Potevo permettermi quella bomba calorica? Si, potevo farlo ma ritrovarmi con le mani unte e un peso sullo stomaco mi aiutò a desistere. Preferii perdermi nei turchesi argentati dei gioielli artigianali e stavo ancora decidendo quale acquisto avrei portato a casa in ricordo del mio obbiettivo raggiunto quando dal palco si levò un suono di tamburi e un uomo e una donna in abiti country annunciarono l'inizio delle danze, spiegando agli ospiti quali sarebbero state eseguite, volta per volta.
In fretta decisi per un bracciale rigido, molto semplice, con una grossa pietra turchese, di forma ovale, al centro e lo indossai. Avevo scelto una mise molto comoda per la serata, con jeans, scarpe da tennis e una camicetta bianca di seta con maniche a tre quarti e l'azzurro della pietra spiccava sulla pelle leggermente abbronzata del mio braccio sinistro. Non ero ancora scesa in spiaggia ma nel giardino della villa avevo una rinfrescante piscina e un solarium che mi davano la possibilità di godermi l'estate con l'unica differenza che non avrei dovuto immischiarmi nella calca estiva della spiaggia a poche decine di metri da casa.
Le danze erano cominciate. Cinque ragazze e cinque ragazzi, in abiti appartenenti al folklore Navajo, stavano compiendo passi ritmati dal tamburo che regolava l'intensità della danza. La scenografia di piume svolazzanti cucite negli abiti e sulle fasce colorate che portavano in testa aveva la capacità, unita al ritmo incessante del tamburo, di incidere la mia compostezza e mi ritrovai, poco dopo, a battere un piede e muovere le spalle. Quando me ne resi conto mi guardai intorno, imbarazzata ma nessuno lo aveva notato ed anzi, molte altre persone coinvolte dal ritmo stavano battendo leggermente i piedi a terra. Ricordai di aver letto, anni prima, che la danza per i nativi è una forma di preghiera, una sorta di meditazione che induce una trance leggera e apre le porte all'invisibile, al contatto con gli spiriti degli antenati. Avevo sperimentato, da ragazzina, quella leggerezza del lasciarsi andare, ascoltando cd con musiche native ma solo nel segreto della mia stanza quando nessuno poteva vedermi. Chiudevo gli occhi e mi immaginavo in mezzo alla terra rossa che si sollevava ad ogni battito del mio piede e avrei voluto rimanere in quello stato di beatitudine per sempre.
Mi chiedevo com'è possibile dimenticare lo spirito giovane quando si diventa adulti e scoprirsi qualcuno di completamente diverso da quello che sognavamo. Forse è il peso delle responsabilità a costringerci ad indossare abiti nuovi, stretti ma necessari per varcare la soglia dell'età adulta. Eppure quei danzatori avevano sicuramente superato quella soglia ma esprimevano la totale lievità di uno spirito giovane.
Mi immaginai in mezzo a loro a volteggiare assieme alle piume, libera di essere tutto quello che desiderava il mio cuore.
All'esecuzione di alcune danze seguì una pausa in cui fummo invitati a visitare uno stand in cui un autore emergente, di origini Dinè - Navajo, avrebbe presentato il suo libro che poteva essere acquistato con una dedica personalizzata.
Trovai posto in fondo alla fila di sedie preparate per l'occasione. Poche, in realtà ma tutte già occupate.
L'autore era seduto dietro un banco che esponeva diverse copie del suo libro, assieme ad un rappresentante della casa editrice che lo stava presentando.
Si chiamava Nigan Hatahl ed era nato e cresciuto in Italia, figlio di un nativo e un'italiana. Lo osservai notando che i suoi lineamenti rispecchiavano per la maggior parte le origini paterne. Portava lisci capelli neri lunghi sotto le spalle e scuri erano anche i suoi occhi. Il naso dritto e gli zigomi leggermente alti erano armoniosamente incastonati in un viso ovale e il mento squadrato. Indossava una camicia bianca e il contrasto con la sua pelle olivastra era apprezzabile. Laureato in lingue era presidente di un'associazione con l'obbiettivo di diffondere la cultura nativa per combattere la discriminazione. Del suo libro parlò poco preferendo impiegare il tempo a disposizione per informare il pubblico delle attuali condizioni del suo popolo, ancora ben poco diverse da duecento anni prima. L'uomo bianco, diceva, tende a voler uniformare regole e credenze ma loro intendevano conservare le loro tradizioni e lottavano soprattutto contro l'imposizione religiosa, nemica delle fondamenta stesse della libertà. Quando ci si allontana troppo dalle proprie origini poi diventa difficile ritrovare la strada verso il proprio vero sé. Capivo perfettamente il messaggio ed era proprio quel tentativo che da mesi stavo compiendo, con piccoli successi e ancora molte sconfitte, di ritrovare la me stessa originaria. Nel mio caso non potevo incolpare nessun altro che la mia incapacità di esercitare il personale volere sopra quello degli altri che desideravano vedermi secondo le loro preferenze. Ed erano passati così tanti anni che non sapevo più distinguere quali scelte aveva compiuto la mia anima e quali mi erano state imposte con la lodevole volontà che fosse per il mio bene. Alla fine della presentazione l'autore ci raccontò un aneddoto che fece sorridere tutti i partecipanti «per noi nativi il concetto di Dio non esiste, almeno non allo stesso modo in cui lo intendete voi. Quando giunsero i conquistatori spagnoli che la storia ricorda come l'arrivo in America di Hernan Cortez, i nativi utilizzarono un incenso tratto da una resina chiamata Kopalli, su ogni spagnolo. Mentre spargevano quel fumo profumato dicevano una parola teul. Questo gesto passò alla storia come la divinizzazione, da parte dei nativi, dell'uomo bianco venuto dal mare. In realtà, teul significava puzza e i nativi usarono l'incenso per profumare gli spagnoli che puzzavano.» *
Chiuse la breve conferenza dicendo che il suo libro era un inno all'istinto selvaggio e non avremmo dovuto acquistarlo se desideravamo rimanere nella nostra comfort zone.
Stranamente tutte le circa venti persone che avevano assistito alla presentazione si avvicinarono al banco e decisero di portarsi a casa una copia autografata di Torna a volare nel vento, così si intitolava il romanzo.
Attesi che finisse la fila prima di avvicinarmi e prendere la mia copia, sfogliandone distrattamente alcune pagine mentre attendevo che l'autore scrivesse l'ultima dedica. Quando venne il mio turno mi complimentai per il discorso interessante.
«Grazie a te per la partecipazione» rispose l'autore «come ti chiami?»
«Aurora, mi chiamo Aurora».
Sollevò lo sguardo verso di me, sorridendo «Ma guarda» disse tenendo la penna pronta per la dedica «anche la protagonista del mio libro si chiama Aurora!»
Spalancai gli occhi «Davvero? Che bella coincidenza!» Lui scosse la testa «Eh si, davvero» e rifletté un attimo prima di scrivere la sua dedica: Alla tua Anima Selvaggia Aurora. Ricorda di tornare a volare nel vento. Mi porse il libro, ringraziandomi.
Lessi la dedica e sorrisi «profetica. Mi trovo proprio in una fase della mia vita in cui vorrei davvero volare nel vento» e gli porsi la mano.
Lui ricambiò il sorriso e mi porse la sua mano ma, appena le nostre dita si sfiorarono, entrambi le ritraemmo di scatto.
«Ahi» dissi scrollandola «ho preso la scossa!»
«Anche io!» rispose lui ridendo; «riproviamo?»
Riluttante avanzai lentamente la mano verso la sua, per la seconda volta e andò tutto bene.
Lui portò anche l'altra a stringere la mia e disse «Posso offrirti una passeggiata per farmi perdonare?» Aggrottai le sopracciglia «Perdonare di che cosa? Non credo tu l'abbia fatto apposta a darmi la scossa... o si?» Rise, scrollando la testa «No, certo che no, però è stato un fatto singolare e mi piacerebbe parlare con te, naturalmente se anche a te fa piacere».
«Ma certo!» risposi e quando si alzò dalla sedia dovetti sollevare lo sguardo per coprire la distanza verticale che ci separava. Era altissimo! Io ero una normo altezza di circa un metro e sessantacinque ma lui sicuramente si aggirava attorno al metro e novanta.
Passammo insieme circa un'ora quella sera, camminando e raccontandoci e ogni tanto riposando su una delle fredde panchine di pietra del parco.
Prima di salutarci mi chiese «adesso dimmi una cosa: che cosa desidera in questo preciso istante la tua anima? Cerca di sollevare il peso del doverti conformare agli altri. Parlo di te, di Aurora.» Stava seduto accanto a me e mi guardava attendendo la mia risposta.
D'impulso mi uscì ««fuggire, vorrei fuggire» e subito dopo portai una mano alla bocca temendo di averlo offeso ma lui, neppure increspato dalla mia risposta disse «da cosa vorresti fuggire?»
Teneva un gomito appoggiato allo schienale della panchina e tutta la sua attenzione era rivolta ai miei occhi.
Aprii e richiusi la bocca un paio di volte prima di prendere coraggio «da qui, da tutto, da quello che sono oggi» e abbassai lo sguardo, imbarazzata per quella confidenza.
Lui mi sorrise e accarezzò, lievemente, un braccio «è un buon inizio» disse.
Mi alzai di scatto e farfugliai una scusa per andarmene. Si alzò anche lui e, prendendomi le mani nelle sue disse «d'accordo Aurora. Ma ti lascio andare solo se mi prometti che ci rivedremo domani a meno che il tuo desiderio sia di non vedermi più».
Mi morsi il labbro, dovevo sembrargli una scolaretta al primo appuntamento. Che figura stavo facendo! «Per me va bene. Ci vediamo domani sera allora. Grazie della chiacchierata» e finalmente ritrassi le mie mani dalle sue sollevandone una in forma di saluto e mi volsi dall'altra parte. Camminavo in fretta per raggiungere l'ingresso e smettere di sentire il suo sguardo su di me.
Solo quando sprofondai nel divano riuscii a trarre un respiro profondo e far tornare il cuore al suo ritmo normale.

Monica Benedetti

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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