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Autore: Monica Benedetti
Sarana il giglio della steppa
Romanzo
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Sarana il giglio della steppa
Mi chiamo Sarana Borjigin, sono mongola, sono una odegon e fiera discendente di Chinggis Khan.
Voglio raccontarti del cielo che si china sulla steppa e della steppa che lambisce le acque cristalline.
Voglio raccontarti della foresta che si piega sulla montagna e della montagna che rincorre la steppa fino al deserto.
Voglio accompagnarti nei segreti nascosti tra le pieghe di un fiore e del tempo, scalfiti sulla roccia, imbastiti nel vento, cantati sulla sabbia, raccolti negli antichi sentieri.
Voglio narrarti di quando, giovane e spensierata, ho abbracciato il timore di essere donna e ho gridato il mio posto nel mondo. E di quando il ricordo ha macellato le mie carni e ha riposto nelle mani del destino la mia fragilità.
Voglio condurti per le vie misteriose dei battiti del böögiin bömbör, nel cuore pulsante della steppa, nelle danze tra i mondi e i sussurri degli spiriti.
Voglio condividere la vita e la morte. Condurti per mano al sacrificio del nome e al ritorno, alla trasformazione, all'evoluzione che attende il suo tempo ma giunge per tutti.
Voglio farti viaggiare nell'amore forte come le ali di un'aquila e leggero come i pastelli di un arcobaleno e potente come la folgore improvvisa.
Voglio prometterti il dono della rinascita, superando i limiti del presente e solcando le forme del passato.
Voglio e posso perché, ora, io sono Sarana Borjigin, Figlia del Tempo e del Ricordo, odegon della tradizione tengrista e fiera discendente di Chinggis Khan.

Nonna decide di morire.

Non li avevo convinti. I biglietti erano stati prenotati ormai da tre mesi e a nulla valsero le mie proteste per rimanere a casa. Non era come le altre volte. Questa volta mia nonna aveva deciso di morire l'otto di giugno e mia madre e mio padre volevano arrivare prima che accadesse. Inutili i tentativi di imporre la mia volontà su quella pazzia. Quello che diceva nonna Sarana era sempre stato Vangelo, a casa nostra e lo sarebbe stato anche quella volta. Mancavano tre giorni e non ero affatto preparata per un viaggio che avevo creduto di riuscire a rimandare fino all'ultimo momento, come accaduto negli ultimi quindici anni. Il mattino seguente dovevamo imbarcarci in quell'aereo e non avevo ancora preparato le valigie. E non potevo soprassedere sull'estetista dato che per due mesi mi sarei potuta dimenticare di avere gambe e ascelle depilate. Passare a salutare nonna Maria e ascoltare tutti i suoi spergiuri era d'obbligo. E poi c'era Carla. Soprattutto, Carla. Era la mia amica del cuore, l'unica in verità, poiché consideravo il resto solo conoscenze e lingue biforcute capaci di sorriderti nello stesso momento in cui ti stanno tagliando la gola. Ci ero cresciuta con quella convinzione e ormai, a trent'anni, era scolpita nel marmo. Tutta colpa di mia madre, beninteso. Se fosse stata italiana e non avessi dovuto portare il peso di quell'orribile nome straniero che ai miei genitori piaceva così tanto, sarebbe spettato anche a me il giusto posto, nel mio mondo. Chiamarmi Sarana in un luogo in cui anche i residenti del paese di fianco vengono considerati extracomunitari, era stata la scelta più scellerata che avessero potuto fare i miei genitori. All'asilo ero già la rana del borgo e mi sarei portata quel fardello ovunque se non avessi deciso che il mio nome era Sara e basta! Ma l'ultima sillaba è rimasta sempre la spada di Damocle sulla mia testa penzolante ogni volta che una di quelle lingue velenose che erano le mie compagne di classe fino alle scuole superiori, se ne ricordava.
Dunque, odiavo il mio nome, odiavo mia madre e odiavo la Mongolia. Si, perché mia madre è mongola e di quelle che vengono dalle steppe quindi, per giunta, ligia alle tradizioni della sua famiglia di nomadi. E sicuramente odiavo la nonna materna dalla quale avevo ereditato il nome. Era lei che aveva deciso la data della sua morte e convinto tutta la famiglia che, esattamente l'otto di giugno, avrebbe chiuso gli occhi per sempre.
La valigia era sul letto, pronta ad accogliere un nuovo contenuto. C'era ancora l'etichetta del viaggio dello scorso anno, a Barcellona. Avrei dovuto attendere un altro anno per decidere io dove andare in vacanza. Sbuffai, aprendo i sacchi sottovuoto degli abiti invernali. Fuori c'erano quasi trenta gradi e non era certo una cosa piacevole nemmeno quella di maneggiare maglioni di lana, felpe e giubbotti. Ma domani sera sarei atterrata a settemila chilometri, nella terra più inospitale del mondo, o quasi. C'erano due gradi sotto zero e per loro lì stava cominciando l'estate. Non badai neppure a quello che stavo disordinatamente incastrando nell'unica valigia che mi sarei portata, a parte uno zaino in cui avevo deciso di mettere il mio PC, della biancheria estiva per il prossimo mese e qualche libro per passare il tempo nei giorni in cui mi sarei fermata nella steppa. E il mio compagno di sempre: il diario. Più di vent'anni di vita racchiusa in quaderni che, una volta finiti, rilegavo assieme agli altri. Sarebbero state le mie Colonne d'Ercole, quelle pile di fogli, i confini del mio mondo. In verità, sarei rimasta pochi giorni con la famiglia nomade di mia madre. Avevo già deciso che, dopo il funerale della nonna – sempre che ci fosse stato – sarei tornata in città, a Ulaanbaatar e atteso lì i miei genitori fino a metà luglio. In quei giorni cadeva il Naadam, il festival della Mongolia e finalmente, dopo i festeggiamenti, saremmo tornati in Italia. Il venti luglio avrei detto addio per sempre a quella terra e a qualunque altro funerale di famiglia.
Mi ci dovetti sedere, sopra la valigia, per riuscire a chiudere la lampo. La sua forma era mutata e adesso sembrava una enorme melanzana ma era il meglio che fossi riuscita a fare in così poco tempo. Spazzolai in fretta i capelli, passai un filo d'ombretto sugli occhi e di matita alle labbra e filai in fretta dall'estetista che sicuramente mi stava aspettando visti i dieci minuti di ritardo accumulato. A mezzogiorno ero di nuovo a casa. Mia madre stava preparando il pranzo e papà la sua valigia o meglio, le sue valigie dato che ne aveva una più piccola in cui avrebbe riposto tutti i saggi di ricerca, utili per lui una volta là. Era ancora un antropologo convinto che il popolo delle steppe fosse uno dei più antichi depositari di una tradizione perduta, tramandata solo oralmente e molto del suo tempo lo avrebbe trascorso con la famiglia di mia madre o in qualche avventura nelle lande steppose a farsi raccontare storie incartapecorite dal tempo. Per me erano solo leggende ma per lui avevano un fondo di verità ed era quello che stava cercando anche quando conobbe mia madre, trent'anni prima, durante il suo primo viaggio nella steppa. Lui sosteneva fosse stata la fortuna del principiante a farli incontrare. Io credevo fosse lo scherzo crudele del destino, invece. E anche se non ci credevo, nel destino, era comunque un modo per poter incolpare qualcuno della mia nefasta nascita in quella famiglia. Cercai di rilassarmi e attendere che Carla mi facesse la video chiamata. Era ricoverata in ospedale e non sarei riuscita a far combaciare gli impegni di quella pre partenza con l'orario di visita. Finalmente il cellulare squillò e vidi l'unico volto capace di darmi gioia e tranquillità.
«Ciao Carla, allora? Come stai?»
«Sto. Attaccata a un filo come vedi.» Era in grado di fare battute spiritose anche in quel momento. Carla era davvero attaccata ad un filo, quello della flebo. La neoplasia mammaria, sconfitta due anni prima, aveva trovato un altro punto debole e ora stava crescendo nel suo cervello.
«Sempre spiritosa».
«Che devo fare? Sono viva no?»
«E vedi di guarire in fretta! Noi domani partiamo»
«Eh lo sapevo. Allora parti anche tu?»
«Già... questa volta non sono riuscita a convincerli». Carla aveva gli occhi segnati dalla malattia, scavati e con due profonde occhiaie «Mi sembra logico, dai. Non è come le altre volte.»
«Io non ne sono sicura. Secondo me è tutta una scusa per far partire anche me. Sono quindici anni che mi vuole lì a passare l'estate!»
Carla aggrottò le sopracciglia: «Sara! Ma cosa stai dicendo? E' tua nonna!»
Sbuffai: «che nemmeno conosco, o quasi. Io voglio rimanere qui, non mi va di partire sapendo che...» le parole mi morirono in gola.
Carla dondolò la testa: «sei patetica Sara. Io non sto per morire! Non ne ho proprio nessuna intenzione sai?» La vedevo sfocata anche se la webcam funzionava alla perfezione. Deglutii più volte. Domani sarei partita e non sarei tornata che dopo un mese e mezzo. Avrei rivisto Carla? Un brivido mi percorse da capo a piedi nonostante l'afosa giornata. Ero arrabbiata con mia nonna che aveva deciso di morire proprio adesso che l'unica amica, una sorella per me che ero figlia unica, stava lottando tra la vita e la morte e non potevo starle vicino.
«Sara! Reagisci! Guarda che nessuno mi ha data per spacciata ancora. Cosa fai porti sfiga???»
Tirai su col naso: «scusa. E' l'ultima cosa che vorrei. Solo che mi dispiace partire proprio adesso. Vorrei starti vicino.»
Carla sollevò una mano: «ma ci sei. Sei qui» e la portò sulla testa «e qui» poi la portò sul cuore «stai tranquilla per me, per favore. Io starò bene e ci vedremo al cellulare. Stai vicino a tua madre che adesso ha bisogno di te Sara. Ma ci pensi che fatto incredibile? Tua nonna tre mesi fa vi consiglia di fare il biglietto perché l'otto giugno sarebbe morta. Pensa come si sente tua madre in questo momento poveretta. Spero quella di tua nonna sia una previsione errata questa volta»
«A me fa paura Carla. Nessuno può prevedere la data della sua morte!»
«Tua nonna si!» Carla era sempre stata attratta dalla mia nonna materna e dalle sue stranezze e ne aveva sempre decantato le lodi dichiarando che, secondo lei, io ero fortunata. Ma io mi sentivo tutt'altro che fortunata. Specialmente in quel momento. Nonna Sarana era una odegon, una sciamana della tradizione tengrista. Non bastava fosse mongola e nomade, no, doveva essere anche una specie di strega, tanto da farmi sentire tutta la vergogna di appartenere ad una famiglia di pazzi. Per colpa sua non potevo stare vicino a Carla ed era così pallida e fragile col braccio livido, arreso alla flebo che stava gocciolando agonizzante. Non avrei sopportato di non vederla più.
Era uno di quei momenti della vita in cui mi sentivo particolarmente imprigionata dalle circostanze. Tirai qualche respiro profondo prima di salutarla. Mi aspettava ancora una visita a nonna Maria e dovevo rimanere calma e concentrata.
«Figlia mia, entra!» Nonna Maria mi accarezzò una guancia stampandomi anche due bacetti. Era era fatta così. Sempre affettuosa fino alla nausea anche quando mi vedeva ogni giorno. E parlava solo lei: «allora sei sicura di partire anche tu? Madonna mia... Ma perché non stai a casa con nonna? Cosa ci vai a fare tu? Nemmeno la conoscevi quella zingara!» Parlava e strascicava le ciabatte per tutta la cucina, ché lei aveva sempre qualcosa sui fornelli o nel forno, in qualunque momento della giornata. Mi accomodai nella sua poltrona. Potevo sedermi solo io lì, a parte lei stessa e approfittavo ogni volta di questo privilegio. «Eh, volesse il cielo che tuo padre apre gli occhi e la lascia là a quella donna!»
Non mi intromettevo mai nei suoi monologhi quando mi spiattellava in faccia tutto il suo disprezzo per mia madre e i suoi parenti stracomunitari, come li chiamava lei. La sopportavo e forse, in fondo, non le davo nemmeno tutti i torti.
Mia madre è una conservatrice. Non si è mai adattata alle abitudini del nostro paese tanto che nelle riunioni scolastiche o ai colloqui con i professori si presentava sempre con vestiti troppo colorati, troppo fioriti e troppo ingombranti e io fui costretta a portare le trecce quasi fino alla maggiore età.
A volte sentivo di odiarla con tutta me stessa. E odiavo sua madre, adesso più che mai.
Nonna Maria intanto aveva cominciato a sbattere gli oggetti che stava maneggiando e capii che era entrata in modalità pre crisi isterica. Le accadeva ogni volta, quando cominciava a ripercorrere le tappe della grave disobbedienza di suo figlio, mio padre, che consisteva nell'aver voluto sposare mia madre, la stracomunitaria. Alla crisi sarebbe seguito il pianto e il momento che stavo attendendo per intervenire. Stesso rituale ormai da trent'anni.
Ecco le lacrime. Nonna Maria si sedette, sfinita dai tumulti della sua anima ferita e cominciò a frignare. Mi alzai dalla poltrona, guardando il soffitto di sguincio, ben attenta a non farmi scoprire dalla nonna e abbassai i lati delle labbra sedendomi di fronte a lei e prendendole le mani. «Su su nonna, non fare così. Ci sono io. Lo sai che sei la mia preferita.» Il miracolo avvenne istantaneo, annunciato da una lunga soffiata di naso e, con lo stesso fazzoletto, strofinato sugli occhi, mia nonna riprese a vedere con chiarezza.
«Figlia mia. Sei l'unica cosa giusta che hanno fatto quei due. Ma quanta pena ho per te che devi sopportare tutta la maledizione che hai in casa!»
Lo stomaco mi si attorcigliò come la rete di un pescatore prima di essere gettata in mare e deglutii la solita rabbia, il solito dolore e tutto il disappunto che provavo nei confronti di quella che mi stava di fronte, sempre esagerata nei suoi commenti inappropriati, seppure, a volte, condivisibili. Era pur sempre di mia madre che stava parlando e credevo di avere una sorta di diritto di prelazione nel giudicarla. Ma che cosa potevo fare? Era vittima della sua stessa, profonda ignoranza. Delle voci di paese, delle abitudini e di un orgoglio non ben definito.
Ora, già sapevo, avrebbe attaccato con la storia della sua vita. Col nonno che era morto troppo presto, quando mio padre era solo un ragazzo e che, se ci fosse stato lui, la disgrazia di vedere il figlio sposato con una stracomunitaria non sarebbe mai accaduta. «Gli avrebbe spaccato le ossa piuttosto, te lo dico io! Ehhh... Madonnina Santa quanta pena che mi tocca sopportare» E così finiva il melodramma.
Adesso potevo parlare del motivo per cui ero andata a trovarla.
«Nonnina, sei tu che mi hai insegnato ad essere una brava ragazza e sicuramente, al mio posto, avresti fatto la stessa scelta. Non parto contenta ma non posso dare questo dolore a mamma e papà. Volevo chiederti una cortesia se non ti causa troppo disturbo. Mi prometti che mi chiamerai immediatamente se Carla dovesse peggiorare?»
«Certo figlia mia! Anche quella povera ragazza, che destino! Vi siete trovate tutte due. Povera Anna quanto soffre per sta figlia disgraziata!»
Anna era la mamma di Carla. Ragazza madre, aveva allevato la figlia da sola aiutata dai suoi genitori. Era una bella donna anche adesso, a cinquant'anni ma non aveva mai voluto un uomo al suo fianco. Anna era molto diversa da mia madre anche se , come le figlie, nutrivano un rapporto di vera amicizia. Gli ultimi due anni erano stati quanto di peggio una madre può aspettarsi dalla vita ma non si era mai scoraggiata. Cattolica fervente, credeva in Dio e nei miracoli ed era fermamente convinta che sua figlia sarebbe guarita. Avrei voluto anche io avere la sua stessa fede o, almeno, una fede qualunque ma non credevo in nessun Dio creatore; solo in una sorta di combinazione di elementi tali da aver dato forma a quella che chiamiamo vita. Un po' come quando compri un biglietto della lotteria di Capodanno e vinci il primo premio. Mia madre e mio padre credevano in Tengri, un'astrazione divina che ha creato il cielo, la terra e tutti gli esseri viventi e per loro viventi sono anche le pietre. Anche per questa conversione teologica nonna Maria odiava mia madre. Dopo una vita passata ad istruire suo figlio sui dogmi della Chiesa Cattolica si ritrovava in famiglia due eretichi come li definiva nel suo italiano personale. Anche mia nonna, al pari di Anna, si augurava il miracolo con l'unica differenza che non chiedeva la vita ma la morte, quella di mia madre.
Io, nel mezzo tra i due fuochi, venivo continuamente sballottata nelle burrasche personali di due donne che, volente o nolente, erano parte integrante della mia esistenza. Avevo imparato, col tempo e le lacrime zittite, a fare spallucce e pensare a me stessa.
Ma non questa volta. L'aereo di domani mi avrebbe condotta in un viaggio che, se avessi potuto pensare a me stessa, non avrei mai prenotato.

In terra straniera

Dopo tredici ore di volo ed uno scalo ad Istanbul finalmente l'aereo iniziò le manovre di atterraggio nell'aeroporto di Ulaanbaatar, la capitale della Mongolia.
Mi tornò in mente l'ultimo viaggio, risalente a quindici anni prima, nella stessa terra. La città era un'accozzaglia di stili architettonici, un miscuglio di modernissimo presente e ingiurioso passato senza una logica, disarmonica e caotica. E puzzolente, tanto puzzolente. Si è guadagnata, a ragione, il titolo di seconda città più inquinata al mondo e te ne rendi conto appena la scorgi dal finestrino dell'aereo. Una enorme coltre grigio giallognola che aleggia come un'eterna nebbia.
Quando sei in mezzo, per sei mesi all'anno, raramente vedi il sole...
Questo era uno dei mille motivi che mi inducevano ad odiare quella terra cui, mio malgrado, appartenevo per i due terzi del mio DNA.
Avremmo alloggiato al Blue Sky Hotel, centralissimo e vicino a piazza Sukhbaatar, sede del Governo e di una delle molteplici statue di Chinggis Khan, come desiderava mia madre che, ancora prima di giungere all'albergo, si era voluta fermare per rendere omaggio a quello che considerava il suo antenato.
La sua famiglia, infatti, vantava di appartenere ad uno dei clan Borjigin, lo stesso del famoso Chinggis Khan e mia madre ripeteva che erano discendenti diretti del figlio Ögödei, colui che radunò 150000 uomini e partì alla conquista dell'Europa. La storia del popolo mongolo è stato il tormentone della mia infanzia. Costretta a conoscere più di quello che bastava per prendere un bel voto a scuola, dovevo sorbirmi ore di lezioni da parte dei miei genitori su quel famoso antenato che nei libri di storia era un sanguinario genocida ma nei racconti di mia madre mutava in un saggio condottiero. Anche la sua difficile lingua mi venne impartita fin da piccola. Non ebbi grosse difficoltà dato che i bambini assimilano con ingordigia poiché il loro cervello non è ancora traboccante di informazioni ma spesso maestre e professori mi costringevano a traduzioni, solo per soddisfare curiosità personali, che issavano risatine in classe capaci di far veleggiare la mia vergogna nel mare di minuti che mancavano alla campanella.
In Mongolia fino agli anni 90 non esistevano i cognomi. Nel 1999 l'allora Governatore ha dato la possibilità, alle popolazioni nomadi, di riappropriarsi delle vecchie denominazioni dei clan storici e solo dal 2004 è diventato obbligatorio avere un cognome, sia per facilitare i censimenti che per controllare gli incesti. La famiglia di mia madre ha rispettato la propria genealogia derivante dal famoso Khan – che appartiene comunque a circa l'otto per cento del popolo asiatico – mantenendo il nome di Borjigin. Il clan di mia madre è sempre stato
molto rispettato, grazie alla benefattrice nonna Sarana e può vantare comodità e pregi di gran lunga superiori a
quelli di altre comunità nomadi le quali, spesso, devono adattarsi a sopravvivere nelle desolate periferie delle città, svolgendo umilissimi lavori adatti a malapena a soddisfare la necessità di cibo o nemmeno. Il clan Borjigin è una famiglia abbastanza ricca e qui ricchezza significa avere molti capi di bestiame da cui trarre nutrimento e prodotti commerciabili. Naturalmente sono nomadi delle steppe, di quelli che si spostano in base alle stagioni e alle esigenze alimentari dei loro animali. Come dice nonna Maria: selvaggi. Come dice mio padre: liberi.
Quando arrivammo in città i parenti di mia madre si trovavano nel distretto di Binder, provincia di Hentij, nella zona centro orientale del Paese, a circa quattrocento chilometri di distanza. Li avremmo raggiunti l'indomani, a bordo di un fuoristrada assieme a uno dei miei cugini che ci stava già attendendo in hotel. Questa volta il clan si era spostato per cause di forza maggiore. La nonna infatti aveva deciso di morire proprio lì, nei pressi del luogo dove nacque il suo famoso antenato: Temujin Borjigin poi divenuto Chinggis Khan.
Naran, mio cugino, era arrivato nel pomeriggio. Era quello che mi somigliava di più. Avevamo la stessa età, nati a soli due giorni di distanza, gli stessi occhi, più grandi di quelli delle genti mongole, così come la forma del viso ovale e non schiacciata. Grazie al cielo non ero nata con la faccia piatta! E neppure mio cugino. Potevamo benissimo essere scambiati per fratelli. Era anche quello che conoscevo meglio dato che mia zia Erzhena, la sorella di mamma, era venuta in Italia spesso assieme a suo marito Amgalan e Naran, figlio unico come me. Mia zia infatti non aveva seguito le orme della tradizione che chiede di sfornare figli come pagnotte di pane. Certo, non lo ha scelto dato che, dopo la nascita di Naran, ha contratto un'infezione all'utero e dovuto asportarlo. Gli altri fratelli di mamma, invece, avevano svolto bene il loro dovere e messo al mondo una piccola mandria di figli. Zio Altan e zia Gerel ne avevano cinque; zio Batu e zia Tsagaanzetseg sei e il più giovane di tutti, zio Bayan e sua moglie Unura solo tre, per ora. L'indomani avrei conosciuto quasi tutti i rampolli della stirpe Borjigin, dato che la maggior parte di loro erano nati negli ultimi quindici anni e non li avevo ancora visti.
Già non vedevo l'ora che fosse tutto finito, messa in scena o meno, per tornare a Ulaanbaatar. Non avrei potuto davvero sopportare di rimanere isolata dal mondo per troppo tempo. In città il servizio internet e telefonico era garantito come in Italia ma nelle steppe non sempre era possibile connettersi o telefonare, anche se il clan di mia madre possedeva un'antennina satellitare adatta allo scopo. (...)

Monica Benedetti

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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