Marlene. Achim fu svegliato dal rumore dello spazzone che sbatteva contro il mobilio e le pareti della stanza. Fuori era ancora buio e a tutta prima gli sembrò d'essersi appisolato solo per qualche minuto, poi guardò l'orologio e vide che era quasi l'alba. Marlene stava dando lo straccio per terra e lo faceva con grande energia, quasi con furore, mentre nell'aria aleggiava l'odore della candeggina e della polvere. «Intanto andate a lavarvi», disse, sentendo Achim che si sollevava a sedere sul letto. «Io do una pulita e un po' d'aria a questo locale che è chiuso da mesi; poi vi preparo la colazione. Trovate la doccia sulla vostra sinistra uscendo dalla porta, in fondo al corridoio». Pronunciò quelle parole continuando nel proprio lavoro, senza nemmeno voltarsi a guardare Achim che, ancora assonnato, raccolse gli asciugamani appoggiati sullo schienale di una sedia e si avviò verso i bagni. Al ritorno, Achim fu invitato ad andare nuovamente a letto dove, ritto sulla schiena e a gambe incrociate, consumò la colazione che gli era stata servita su un vassoio. Marlene si sedette accanto a lui sul bordo del letto e rimase a guardarlo in volto in silenzio, poi, vincendo la propria esitazione, disse: «È presto, vi va di fare una partita a poker?». «Come?» domandò Achim, che non era sicuro di aver sentito bene. «Vi va di fare una partita a carte?» ripeté Marlene, alzando il tono della voce. Achim diede un'occhiata all'orologio e poi chiese: «Hai tu le carte?». «Sì, le ho» disse Marlene con entusiasmo. Diede un'occhiata in direzione della porta, quindi si scoprì le gambe fino alle mutandine, svelando un mazzo di carte tenuto fermo con una giarrettiera in pizzo e raso nero. Poi, notando tutta l'attenzione racchiusa nello sguardo di Achim, disse: «Vi piacciono le donne, eh?». Ad Achim balenò improvvisa l'idea del suo prossimo libro; sarebbe stato la continuazione del primo: L'Inferno 2. Ora non mirava più al posto di lavoro tanto era coinvolto dal rinnovato entusiasmo che d'un tratto aveva sentito dentro di sé per la scrittura. Presagiva che l'interno della Biofarma nascondesse una quantità di segreti che attendevano solo di essere svelati; naturalmente si sarebbe guardato bene dal consegnare il manoscritto alla Commissione, anzi si sarebbe dovuto preoccupare di scrivere in segreto e di non rivelare mai a nessuno la sua idea. Per realizzare il progetto, tuttavia, aveva bisogno delle confidenze di alcuni colleghi, soprattutto di quelli che svolgevano le mansioni più umili, insomma, avrebbe dovuto cercare di farsi degli amici. Per un momento, la vista delle gambe di Marlene l'aveva distolto da quei pensieri e Marlene, che se n'era accorta, accavallò le gambe lasciandole maliziosamente scoperte. Appena furono distribuite le carte, attraverso i vetri della porta chiusa, apparve la figura di Antonio. Egli rallentò un poco guardando all'interno, quindi riprese il cammino accompagnato dal suono battente del suo indivisibile bastone di bambù. Il letto era posto tra l'ingresso e il soppalco della scrivania; Achim si ripropose di farlo spostare dall'altra parte per una maggiore riservatezza. «Adesso abbiamo i minuti contati», disse alzandosi; «giochiamo questa sera, dopo il lavoro, così possiamo restare tutto il tempo che vogliamo». Non avrebbe saputo spiegarsi il perché, ma teneva al giudizio di Antonio ed era stato sorpreso in un atteggiamento che gli appariva poco dignitoso: a letto, mentre reggeva le carte e con accanto a sé Marlene con la gonna sollevata. «Non temete per Antonio», disse Marlene alzandosi a sua volta, «è uno che non parla, o forse, volete che resti con voi tutta la notte?». «Non ho detto questo», rispose Achim bruscamente. Tutto voleva, fuorché lasciarsi irretire con l'arma della seduzione. E tuttavia, per il suo progetto, Marlene poteva essergli molto utile; quindi aggiunse, quasi in un sussurro: «Magari l'ho pensato...». A quelle parole Marlene, che aveva assunto un'espressione risentita, parve rianimarsi. Dopo aver osservato Achim che si rivestiva, insistette perché si lasciasse pettinare, così da potersi muovere intorno a lui e di tanto in tanto sfiorarlo col petto prosperoso, dai capezzoli tanto pronunciati e turgidi. «Che strano tipo Antonio, neh?», disse Achim, cogliendo al volo il momento propizio per raccogliere delle informazioni o qualche pettegolezzo. «Ve l'ho già detto; anche se ci avesse sorpresi nudi, voi sopra e io sotto, non ne avrebbe parlato con nessuno». «Mi riferivo a come veste, al fatto che gira con un bastone che neppure gli serve per camminare... Ma qual è la sua mansione?». «Non ha un compito preciso: delle volte fa il fattorino, delle volte è l'uomo delle pulizie». «Che strano...». «Cosa vi sembra così strano?». «Un ruolo tanto umile in una persona che sembra possedere un tale carisma, una tale autorità sugli altri...». «È vero: la sua sola presenza incute un grande rispetto, più di tanti dirigenti, però non ha mai fatto carriera in tanti anni che è qui, forse perché qualche volta viene sorpreso completamente ubriaco». «Perché, beve?». «Nessuno l'ha mai visto bere; lo farà di nascosto. E poi, si sa che a un alcolizzato basta un goccio per prendersi una sbronza». «Antonio ubriaco! Non posso crederci. Ma l'hai visto anche tu in quello stato?». «Sì. Delle volte ha un'aria trasognata, gli occhi semichiusi, un ineffabile sorriso stampato sul volto e barcolla nel tentativo di reggersi in piedi prima di cadere per terra lungo disteso». Per nulla convinto, Achim avrebbe voluto continuare a indagare sulla figura di Antonio, Marlene, al contrario, non mostrava di avere pari interesse, perché parlava con sempre minore partecipazione. Tutta la sua attenzione era concentrata sul lavoro di pettinatura e quando finalmente sembrò soddisfatta della propria opera fece spostare Achim per dedicarsi alla sistemazione del letto, lo invitò poi a mettersi in viaggio di buona lena; lei davanti, lui dietro che di tanto in tanto la rincorreva per non farsi distanziare. Giunsero all'appuntamento proprio mentre suonava la campana; Achim salutò Marlene e attese qualche istante prima di bussare alla porta del direttore. Era stanco e sudato per la corsa e non voleva presentarsi affannato. Entrando nell'ufficio, Achim vide il direttore bisbigliare qualcosa nell'orecchio del dottor Mazza e questi annuire più volte. Entrambi erano in piedi ed entrambi lo squadrarono dall'alto in basso, proprio come il giorno prima, proprio come se il tempo si fosse fermato. Dunque, sembrava aver superato nuovamente non si sa quale esame. «Dobbiamo essere attenti al sentimento delle persone», disse, il dottor Mazza, uscendo e invitando Achim a seguirlo. Subito dopo si fermò d'improvviso per vedere nel volto dell'altro quale effetto avevano prodotto le sue parole. Achim allora prese a fissarlo dritto negli occhi, aspettando il seguito, poi finalmente rispose: «Sì, sì. Sono d'accordo». «Ah! Sei d'accordo!», ripeté l'altro con enfasi, poi riprese il cammino e poco dopo aggiunse sottovoce, come parlando tra sé e sé: «È ai matti che si dà ragione!». Dopo un lungo percorso il dottor Mazza disse: «Hai sentito di quell'operaio che voleva gettarsi giù dal quinto piano?». «Uno della Biofarma?». «Sì, l'hanno detto anche alla televisione». «No, ma quando è stato?». «Una quindicina di giorni fa. Qui lo sanno tutti». «Io non c'ero quindici giorni fa». «Ah, già!». «Ma perché, cos'era successo?». «Gli hanno negato l'adozione di un bambino. Si tratta di una coppia senza figli». «Perché, non riescono ad averne?». «Non credo che ci abbiano neanche provato: sono due uomini». «Ma senti. Poi, com'è finita?». Per tutta risposta Achim ricevette una serie di frasi incomprensibili. Il dottor Mazza, che sino a quel momento aveva scandito le parole in modo chiaro, ora aveva preso a farfugliare, ma Achim, che non aveva alcun interesse all'argomento, rinunciò a chiedere spiegazioni. Immaginò che quelle frasi, che gli apparivano senza né capo né coda, erano state pronunciate al solo scopo di rompere il ghiaccio; in fondo, non si conoscevano affatto e avrebbero dovuto lavorare a stretto contatto. Per prima cosa, Achim fu condotto a visitare i vari reparti della Produzione con particolare attenzione alle linee di confezionamento. Andava sostituita una macchina etichettatrice e il dottor Mazza, che aveva messo in concorrenza numerosi fornitori, rappresentò al suo nuovo collaboratore che contava anche sui suoi suggerimenti. Lo stabilimento era tutto un cantiere; in molte aree erano presenti le impalcature per lavori di ristrutturazione o di nuova costruzione. Per recarsi da un reparto all'altro, il dottor Mazza, di volta in volta, quando lo riteneva conveniente, percorreva tragitti alternativi. Così, per fare prima, si arrampicava o si calava lungo vertiginose scale alla marinara fissate alle pareti esterne degli edifici o, in un caso, attraversò l'ampio cortile interno appeso a una fune d'acciaio che collegava due strutture a forma di torri. Dietro di lui, Achim si affannava per non restare troppo indietro. Era una giornata ventosa; a un tratto gli mancò la presa e restò sospeso nel vuoto a braccia aperte, sorretto dalle forti raffiche. Allora ricordò le volte che suo padre, al mare, lo lanciava per aria e lo riprendeva al volo. Era nella sua prima fanciullezza e i ricordi erano vaghi e confusi, né ricordava il volto di suo padre, ma quella piacevole sensazione di vuoto e di vertigine irruppe improvvisa nella sua memoria procurandogli un doloroso sentimento di nostalgia per tornare ad avere un padre, eclissatosi tanto presto, e per tornare a essere un bambino. Muovendo opportunamente braccia e gambe, come chi, gettandosi dall'aereo si dirige verso i compagni d'avventura per formare delle figure nell'aria, così Achim riusciva a volteggiare rimanendo vicino alla corda metallica, pronto ad afferrarsi per non precipitare. Allargava le braccia e si impennava verso l'alto; le avvicinava al corpo e scendeva in picchiata. Con la giusta angolazione si librava nell'aria come un gabbiano che vola senza sbattere le ali. Godeva di quella sensazione di assenza di peso e allora scivolava avanti e indietro poco più in alto della fune d'acciaio. Se avesse deciso di uscire dalla Biofarma, questa volta sarebbe volato via senza dover superare la porta d'ingresso. Il dottor Mazza, che era già arrivato a destinazione, restò un po' a guardare e infine batté le mani e gridò: «È tardi. Achim, basta giocare!». S'era fatta l'ora di pranzo; anziché mangiare nella mensa riservata ai dirigenti, il dottor Mazza aveva dato disposizione di apparecchiare nel suo ufficio. Venne utilizzato il grande tavolo rotondo, normalmente adibito per le riunioni di lavoro. Per l'occasione erano stati invitati oltre ai capi-reparto, suoi sottoposti, altri responsabili di vari settori. L'evento non rientrava nella normale prassi, ma, come fu rappresentato dai colleghi, il dottor Mazza, che pudicamente si schermiva, con quel gesto intendeva festeggiare l'ingresso in Biofarma di Achim. Questi dovette superare lunghi momenti d'imbarazzo, trovandosi al centro dell'attenzione generale e con alle spalle un cameriere pronto a raccogliere ogni suo ordine. «Achim è in attesa del giudizio della Commissione sul suo nuovo romanzo», esordì il dottor Mazza, rompendo il silenzio, dopo una lunga pausa in cui tutti gli sguardi dei presenti si erano appuntati sul volto dell'ospite d'onore. «Ah! Ma questo è mooolto interessante!» disse il dottor Lorenzi, con un gran sbattimento di ciglia e uno sguardo da innamorato. «In realtà è il mio primo romanzo», disse Achim, asciutto. E intanto non poté fare a meno di considerare che non si faceva mai alcun cenno all'annuncio sul giornale per la ricerca di personale e alla relazione dei candidati. «E come s'intitola?» disse ancora il dottor Lorenzi, col viso posato sulle mani giunte. Aveva i gomiti puntati sul tavolo e guardava rapito Achim dritto negli occhi. «Ma come, non sai niente?», intervenne il dottor Holmes. «È un romanzo bellissimo: L'Inferno». «E com'è che ti vengono in mente quelle idee?», proseguì poi, rivolgendosi ad Achim. «Quali, in particolare?», domandò Achim. «...Dico in generale. Tutte quelle situazioni descritte nel libro». «È un romanzo bellissimo e la Commissione non ha ancora deciso la pubblicazione. Achim ti chiede a quali idee fai riferimento e non sai cosa rispondere. Di' la verità che non l'hai nemmeno letto», s'intromise il dottor Fresco, vice-capo del personale. «La verità è che sei gelosa!» ribatté il dottor Holmes drizzandosi sulla schiena e lanciando uno sguardo ad Achim. «Puttana!» esclamò il dottor Fresco scattando in piedi e minacciando di andarsene. «Basta ragazze!» intervenne il dottor Mazza alzandosi a sua volta e battendo le mani; «Basta con gli isterismi». Poi, rivolto al dottor Fresco: «Siediti e smettila di dare spettacolo». «Fa così perché le manca qualcosa», commentò il dottor Mauro, capo del settore Ricerche. «Sì, l'amore!» disse il dottor Holmes facendo il gesto dell'ombrello. Tutti si unirono in un coro di risate che divenne via via più sguaiato; ne prese parte anche il dottor Fresco che ora non appariva per nulla risentito. “Sono in mezzo a un branco di culatoni”, disse Achim, tra sé e sé, e intanto cercò di immaginare come avrebbe potuto volgere la situazione a suo favore. Aveva l'obiettivo di sollevare un velo su quanto accadeva realmente in Biofarma; quelle scoperte rappresentavano gli spunti necessari per iniziare e portare a compimento il suo secondo romanzo, così come si era riproposto. Ora aveva ben chiaro quale fosse il vero interesse del dottor Mazza nei suoi confronti: la sua prestanza fisica. Per quello era stato studiato tanto a lungo insieme al direttore e per quella stessa ragione era stato presentato, con una punta d'orgoglio, agli amici, omosessuali come lui. A un tratto trovò una giustificazione anche per il completo color rosa confetto che l'altro indossava sotto il camice bianco e che in un primo tempo aveva giudicato semplicemente come un modo di abbigliarsi piuttosto stravagante. L'attrazione che esercitava sul dottor Mazza e sugli altri poteva essere un'arma potente per i suoi obiettivi ma c'era da chiedersi quale sarebbe stato il prezzo da pagare. Dopo che i piatti furono serviti e prima che si iniziasse a mangiare, alcune parole, enunciate a una sola voce, furono articolate da tutti i presenti, seguite poi dal segno della croce tracciato con l'unghia del pollice sulla fronte, in mezzo alle sopracciglia. Poiché Achim rimase in silenzio e in attesa, aspettando che terminasse quel cerimoniale, il dottor Mazza disse: «È un mantra; ripeti con noi», e tutti tornarono a pronunciare quelle parole incomprensibili. Per non farsi pregare, coperto dal borbottio dei presenti, Achim mormorò una frase che in qualche modo richiamava quei suoni: «'Ngul a soreta, a mammt e papt», quindi, per esagerare, si fece il segno della croce nel modo canonico. Tutti iniziarono a mangiare nel più assoluto silenzio, rotto solo dal tintinnare delle posate contro le stoviglie. Come secondi piatti vennero servite delle bistecche insolitamente alte e poco cotte, grondanti sangue. A quella vista, e per la prima volta in vita sua, ad Achim passò definitivamente la voglia di assaggiare la carne. «Perché non mangi? Questo filetto è tenero come il burro», disse il dottor Holmes, vedendo Achim fissare con aria disgustata il piatto davanti a sé. «No. Penso che mangerò due uova», disse Achim. «Scrambled?». «Yes, scrambled». «Strapazzate», tradusse il dottor Holmes per il cameriere che prontamente tolse il piatto di Achim per sostituirlo. «Sei inglese?» domandò Achim, incuriosito per la carnagione così scura del collega. «I'm a bastard!». «È un meticcio», intervenne il dottor Mazza. «Mio padre è inglese, mia mamma indiana», spiegò il dottor Holmes. «Anch'io sono un bastardo!» disse il dottor Fresco ridendo e battendo un piede per terra. Quella dichiarazione provocò una risata interminabile e il forte rumore metallico prodotto dal suo colpo indusse Achim a chinarsi e a guardare sotto il tavolo. Nel pieno dell'ilarità generale, nessuno badava a lui, così poté vedere che il dottor Fresco si era liberato di una scarpa e aveva un pantalone sollevato. Al posto della gamba, mostrava una zampa pelosa e al posto del piede uno zoccolo ferrato, come quello di un cavallo. «Come hai fatto a essere assunto?» domandò ad Achim, una volta ristabilita la calma. «Non è ancora stato assunto», intervenne il dottor Mazza. «È in prova». «Sarà anche in prova, ma è già alle dirette dipendenze del direttore. E poi, che stipendio. Guadagna già più di me!». «Io non ne so niente», disse Achim. «Che bell'esempio di riservatezza», intervenne nuovamente il dottor Mazza, rivolgendosi al dottor Fresco. «E meno male che lavori nell'ufficio del personale! L'incarico di Achim prevede due collaboratori, che tu non hai. E poi queste son cose che decide il direttore, senza bisogno del tuo avallo». «Si vede che avrà delle conoscenze», commentò il dottor Fresco a mezza voce e per nulla convinto. «Parli proprio tu!», rispose seccamente il dottor Mazza, senza aggiungere altro. «Perché, cos'ha lui di speciale?» domandò Achim. «Ha delle conoscenze a Corte, ecco che cos'ha!». «Brutta troia!» disse Achim, quasi bisbigliando. Ma il suo commento fu udito dal dottor Holmes che confermò: «Ah! Per esser troia, è proprio troia!». Per nulla offeso, il dottor Fresco, atteggiando un'aria imbarazzata e guardando Achim di sottecchi, disse: «Perché metti in piazza le mie virtù?». Dopo quelle schermaglie iniziali, la conversazione si indirizzò su argomenti di lavoro e l'atteggiamento di tutti tornò d'incanto serio e formale. Achim, fingendosi interessato, osservava in silenzio i presenti cercando di capire chi, nel gruppo, rivestiva il ruolo del leader, o di chi avrebbe mai potuto fidarsi. Poi pensò alla zampa del dottor Fresco e la collegò alle figure dei guardiani che sorvegliavano le uscite della Biofarma. Aveva immaginato che indossassero delle teste di cartapesta, ma ora aveva un valido motivo per ricredersi. E il gigante a cui avevano cavato un occhio? Ora che ci pensava, quella testa enorme, sproporzionata, non sembrava appartenere al suo corpo, piuttosto, sembrava essergli stata impiantata con un'operazione chirurgica. Che si trovasse all'interno di una fabbrica degli orrori? Stranamente, questo pensiero non lo angosciava, anzi, lo lasciava del tutto indifferente. “È materia buona per il prossimo romanzo”, concluse tra sé e sé. Si rallegrò alla notizia dello stipendio generoso che gli era stato attribuito. Come venne a sapere nei giorni seguenti, la sua retribuzione, molto al di sopra di ogni aspettativa, comprendeva la paga vera e propria, che egli fece accreditare sul proprio conto bancario, e una diaria giornaliera, consistente anch'essa, per le spese correnti. Come gli fu spiegato, il trattamento economico era assimilato a quello di un lavoro in trasferta, giacché a nessuno era consentito di uscire dalla Biofarma; questo divieto si rendeva necessario per combattere lo spionaggio industriale. Quando gli comunicarono che Marlene era fuori dall'uscio che l'aspettava, Achim si accorse che fuori era già calato il buio e che era arrivato il momento di rimettersi in cammino. Al rientro in quello che ormai considerava il suo ufficio, egli vide che il letto non era stato spostato semplicemente dall'altra parte rispetto la scrivania, così come aveva richiesto, ma era stato collocato su un soppalco che si raggiungeva per mezzo di una scala a chiocciola, metallica. Marlene, che appariva orgogliosa della nuova sistemazione (era stata lei stessa, come spiegò, a dare le disposizioni), si avviò senz'altro su per i gradini e Achim, che la seguiva, vide che sotto la gonna non indossava nulla oltre la giarrettiera. Già prevedeva che il letto si sarebbe presto trasformato in un campo di battaglia, ma quello che accadde andò oltre la sua immaginazione. Marlene, senza pronunciare una parola, si avventò su di lui con la stessa foga che aveva usato per spazzare a terra. Mostrava di possedere un'energia insospettabile, inoltre mordeva con forza, graffiava, gemeva in continuazione. Gli orgasmi erano annunciati dal tremore di una gamba e poi da sussulti in tutta la persona che conducevano, quasi si trattasse di veri e propri attacchi epilettici, alla perdita della coscienza per un tempo che ad Achim apparve ogni volta interminabile. Guidato dalle mani esperte di lei, non ci fu apertura, cavità, scanalatura del suo corpo che egli non avesse penetrato, e tuttavia, costantemente, rimase con la sensazione di non essere mai lui a possedere, ma di essere sempre stato usato, e posseduto. Il soppalco era stato posto così in alto che, in piedi, costringeva a restare col capo piegato e, sul letto, durante la lotta, gli era capitato più volte di urtare contro la volta del soffitto, inoltre lassù stagnava un'aria tanto calda che presto entrambi si ritrovarono madidi di sudore sulle lenzuola bagnate. C'era però il vantaggio di poter guardare all'esterno attraverso i vetri delle finestre. Fuori si vedevano le strade illuminate dai lampioni e dalle luci delle insegne pubblicitarie che si accendevano e si spegnevano; le macchine che correvano, la gente lungo i marciapiedi..., ma tutto appariva minuscolo, lontano, come attraverso le lenti di un binocolo rovesciato. La furia amorosa durò ore e solo a notte tarda entrambi furono vinti dal sonno. Il mattino seguente Achim si svegliò con Marlene che, alle sue spalle, lo cingeva stretto tra le braccia. Contava di essere chiamato per tempo, per questo quando constatò che era già tardi, si ritrovò del tutto impreparato ad affrontare il nuovo giorno. E tuttavia ebbero un nuovo rapporto; lui lo compì controvoglia, quasi forzatamente, perché comprese che non c'era altro modo per liberarsi da quella morsa. Intanto si doleva per non aver chiesto nulla, per non essere riuscito ad avere alcuna informazione durante tutte quelle ore in cui erano stati insieme.
Elia Giovanni Babsia
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