L'inseguimento. Tra le ultime conoscenze, Elias annoverò nella lista dei personaggi del bar “L'informatore di polizia”. Era un ragazzo di circa la sua età, dalla folta barba, che entrava nel locale solo nei momenti di maggior affollamento. D'abitudine, guardava fisso per terra; solo di tanto in tanto lanciava occhiate furtive ora a questo ora a quello, poi, senza mai ordinare nulla, si allontanava sgusciando tra la moltitudine e usciva in strada aprendo la porta quel tanto per scivolare fuori. Con ogni probabilità era già un avventore del bar prima che Elias avesse cominciato a frequentarlo, ma questi lo notò solo molti giorni dopo, per averlo sorpreso mentre, a capo chino, l'altro lo osservava con insistenza. È vero che in quel periodo era spesso al centro dell'attenzione, perché da quando si era lasciata alle spalle la timidezza, era lui che il più delle volte teneva banco, ma quello sconosciuto lo squadrava senza mostrare di divertirsi alle sue parole. Sembrava solo impegnato a studiare ogni particolare del suo volto ed anche quando i loro sguardi s'incrociavano, non smetteva di osservarlo freddamente. Di lui nessuno sapeva dire con precisione chi fosse, perché non parlava mai; solo uno azzardò che si trattava di un poco di buono ma che aveva una totale immunità da parte delle forze dell'ordine in cambio di qualche soffiata. Insomma, solo voci, che tuttavia ebbero il potere di infastidire Elias; inutilmente si ripeteva che non aveva motivo di preoccuparsi. Qualche volta, prima di prendere sonno, quando già tutti i suoi pensieri stavano svanendo nel nulla, all'improvviso si riaffacciava l'immagine di quel ragazzo che, col volto piegato verso il basso, lo fissava con insistenza. Allora si rigirava sotto le lenzuola finché era costretto ad accendere la luce per prendere un libro e mettersi a leggere sino a stancarsi. A poche settimane dall'inizio degli esami venne ad aggiungersi un altro “messaggio” - trovato, questa volta, tra le pagine del testo di diritto - ad aumentare quello strano senso d'insicurezza. Il “messaggio”, scritto su di un foglio di carta igienica, recitava: “Le tue colpe si stanno accumulando e sempre maggiore è la loro gravità. Non sarebbe meglio costituirsi? Firmato: l'“A.” Il foglio, insudiciato con pillacchere di sterco, aveva completamente imbrattato le pagine del libro di scuola. A quella vista non poté trattenersi dall'esclamare: «Anche la merda, adesso!» Un mattino, poco dopo essere giunto al bar, Elias udì in lontananza numerose sirene che sembravano provenire da macchine che correvano a tutta velocità. Insieme agli altri avventori, attese invano che almeno una si avvicinasse e, dopo aver aspettato a lungo i bordi della strada, rientrò chiedendosi cosa potesse essere accaduto e facendo le più svariate congetture. Le macchine, che a volte sembravano persino aumentare di numero, si fermavano e poi ripartivano girando tutt'intorno, ma lontano. Solo i più curiosi si mossero per andare a guardare prendendo chi quella chi quell'altra direzione, a piedi o con l'auto. Dopo oltre mezz'ora, si udivano ancora delle sirene, ma c'era come l'impressione che quel clamore si stesse spegnendo lentamente. Nel bar si commentava che non si era mai sentito niente di simile e che doveva trattarsi di qualcosa d'estrema gravità. L'atmosfera era un po' tesa, come se dovesse giungere qualche cattiva notizia da un momento all'altro, magari riguardante qualcuno dei presenti. A volte cadevano lunghi silenzi in cui l'uno si voltava intorno e leggeva nello sguardo dell'altro la sua stessa angoscia, ed anche Elias, quasi ne fosse stato contagiato, viveva una dolorosa attesa, densa di tristi presagi. Quando ormai si era spento l'urlo dell'ultima sirena e tutti cominciavano a tirare un sospiro di sollievo, entrò nel bar “l'informatore di polizia” che indossava una divisa da alto ufficiale, tutta piena di nastrini e medaglie. Non teneva più il viso rivolto verso il basso; ora aveva un portamento eretto e fissava tutti, diritto negli occhi. Elias si accorse, ora che poteva vederlo bene in viso, che era molto più anziano di quanto gli era sembrato. Se non fosse stato per i lineamenti, che ricordava benissimo, avrebbe detto che non era nemmeno la stessa persona. Poco dopo due agenti di polizia, mitra alla mano, entrarono quasi di corsa. “L'informatore” indicò subito Elias puntandogli contro un dito accusatore. Elias scaraventò da un lato il tavolo che aveva davanti e, approfittando della confusione e aiutandosi con calci e gomitate, riuscì a guadagnare la porta. Ma già udiva l'incalzare dei passi degli inseguitori, allora accelerò la corsa spiccando un balzo formidabile che lo portò a superare i tetti dei palazzi del quartiere; con due agili salti percorse alcune centinaia di metri lievitando sulla città come sospinto dal vento. In un lampo si ritrovò in una zona dove le strade erano deserte e già l'eco delle grida indirizzate a lui si udiva in lontananza. Decise di scendere a terra, ma all'improvviso ogni movimento comportava una grande fatica; doveva lottare con tutte le forze per guadagnare pochi metri, perfino pochi centimetri. Così sospeso per aria, quasi immobile, sarebbe stato un facile bersaglio per chiunque, armato, si fosse trovato sotto di lui. S'impegnò allora fino allo spasimo e si udì perfino gemere nello sforzo di ridiscendere, finché, finalmente, riuscì a toccare il suolo. Ben consapevole del pericolo corso, si ripromise di non ricorrere più ai salti nel suo tentativo di fuga. “L'informatore” era adesso alla testa di decine d'agenti che aumentavano sempre di numero, giacché altri poliziotti confluivano da ogni parte; da strade laterali, da locali pubblici e perfino da case private. “L'informatore”, scorgendo Elias in lontananza e vedendo di non guadagnare terreno, cominciò a esplodere alcuni colpi di pistola; gli agenti in prima fila lo imitarono facendo fuoco con i loro mitra. Elias respirava ormai a bocca aperta e capì che l'unica salvezza era di trovare un nascondiglio. Davanti a sé la strada era vuota; solo lontano, in fondo ad alcune vie secondarie, si scorgevano delle persone in divisa che però sembravano del tutto indifferenti a lui e parlavano tra loro come semplici passanti... Girò in una strada laterale e poi per delle viuzze ancora più strette. Vide un portone e tentò di entrare, ma era chiuso. Più avanti c'era un negozio con la porta aperta; entrò di corsa guardandosi intorno. Era una grande drogheria completamente rifornita e con tutto in ordine, ma sembrava abbandonata; provò a nascondersi dietro il banco, ma non gli dava alcun affidamento. Nel retrobottega trovò uno sgabuzzino, dove si rannicchiò in mezzo a scatoloni, secchi, scope e mucchi di stracci, ma poi considerò che se fosse scoperto non avrebbe avuto via di scampo, e decise di cercare un altro posto. Il clamore e gli spari nel frattempo si erano talmente avvicinati che, uscendo, temeva di essere visto da qualche poliziotto. Dopo aver percorso alcuni metri di corsa, vide un locale pieno di mobili d'epoca e di quadri in esposizione; una porta all'interno immetteva in un enorme deposito. C'erano mobili di foggia antica e quadri d'ogni dimensione accatastati uno sopra l'altro. Continuando nella sua esplorazione scoprì che quello stanzone immenso non era l'unico, perché da lì si entrava in altri locali, tutti ugualmente pieni di mobili e quadri. Uno di questi comunicava con l'esterno, ed Elias giudicò quello il posto adatto, dove nascondersi, perché, in caso di pericolo, poteva fuggire da un'uscita o dall'altra. Tutti quei locali formavano una specie di labirinto, ed erano male illuminati da piccole lampadine che proiettavano lunghe ombre e che permettevano di vedere con chiarezza solo in prossimità della luce. Più di una volta, Elias, nel suo cauto procedere, aveva sbattuto dolorosamente ed era stato costretto a tendere le mani o la punta dei piedi davanti a sé. Udendo delle voci concitate che si avvicinavano, si sforzò di scegliere con cura il posto dove rifugiarsi. Non appena ebbe raggiunto il suo nascondiglio, udì aprire la porta dello stanzone e accendere la luce. Col cuore che gli martellava nel petto, vide un'ombra che si approssimava al centro del locale e che andò a fermarsi proprio sotto la lampadina; era un agente col mitra già in posizione di sparo. Il poliziotto fece un giro chinandosi a guardare dove le ombre erano più fitte. Non riuscendo a distinguere nulla, esplose numerose raffiche ad altezza d'uomo; in particolare si accanì a sparare proprio negli angoli. Non soddisfatto, fece un secondo giro e, passando nelle vicinanze del punto dove Elias era rannicchiato, indugiò per qualche secondo. Egli poteva vedere la sagoma delle gambe in controluce, poi chiuse gli occhi e si sforzò di trattenere il fiato il più a lungo possibile. Il suo cuore pulsava con tanta violenza che temette si potesse udire. Quando riaprì gli occhi, vide con sgomento che il poliziotto era ancora davanti a lui, ma infine si decise ad andarsene, ed Elias, che già assaporava la gioia di essere in salvo, vide entrare da un'altra porta un secondo agente che impugnava una potente torcia elettrica. Questa volta si sentì perduto; si mise in posizione di poter scattare e tentare la fuga, ma senza convinzione, sicuro com'era che se riusciva a sfuggire alla presa del poliziotto non avrebbe potuto evitare i proiettili. Nei lunghi momenti che seguirono, ricordò quando, ammalato e costretto a letto con la febbre alta, nel vedere rientrare in casa suo fratello che portava con sé il profumo dell'aria aperta, si struggeva dal desiderio di potersi alzare, di uscire, e provò perfino nostalgia del tempo passato che pure l'aveva visto imprigionato tra abitazione, ufficio e scuola. Con un brivido, si rese conto che i suoi erano i pensieri di un condannato, un condannato a morte e in lui si rafforzò la determinazione a vendere cara la pelle... «Sei qui, Elias? Se ci sei, fatti vedere senza timore. Non voglio farti del male, anzi, sono qui per aiutarti». Queste parole furono pronunciate da qualcuno a mezza voce, come temendo che potessero essere udite da altri. Elias si sporse un poco, per guardare in faccia chi aveva parlato. Vide che non era armato, ma non riusciva a distinguere altro, perché abbagliato dal fascio luminoso. «Se ci sei, ti prego, fatti vedere. Se ti ostini a rimanere nascosto non hai nessuna possibilità di salvarti, perché tutta la zona è circondata da poliziotti che hanno l'ordine di sparare a vista contro chi non indossa la divisa. Io sono un amico del bar. Non riconosci la mia voce?» Elias, non ancora convinto, raccolse un pezzo di legno e lo lanciò lontano per assicurarsi che lo sconosciuto non avrebbe sparato. «Ci sei, dunque? Ma non far rumore, per l'amor di Dio». Lo sconosciuto scrutò intorno a sé a lungo, ma senza successo. Badando di non fare il minimo rumore, Elias uscì allo scoperto portandosi vicino a una delle porte, poi disse: «Gira la torcia e puntala contro di te». «Ah, finalmente!», esclamò lo sconosciuto, e così dicendo si mosse in direzione di Elias volgendo il fascio di luce contro il proprio viso. «Non così!», urlò Elias, che da lontano vedeva il volto dell'altro tutto deformato dalla luce violenta e da grandi ombre; «Fermati e non puntare la luce dal basso, ma solleva la torcia all'altezza del naso e distendi il braccio più che puoi». Quando l'uomo eseguì quanto gli era stato ordinato, Elias finalmente riconobbe il “trafficante”. «Sei tu!», esclamò pieno di riconoscenza per il suo salvatore. «Svelto. Indossa questa divisa; dovrebbe essere della tua taglia. E dammi tutta la tua roba; bisogna nasconderla da qualche parte, perché se la dovessero scoprire, sarebbe tutto inutile». Mentre Elias si spogliava e rivestiva con grande sveltezza rinunciando a chiedere spiegazioni, il “trafficante” appariva teso solo a cogliere il minimo rumore sospetto e al tempo stesso incitava il suo protetto a sbrigarsi. Non appena questi fu pronto, il “trafficante” radunò gli indumenti ammucchiati per terra, ne fece un fagotto e si mosse per far sparire tutto, come tenne a spiegare. «Ora non devi temere più niente», aggiunse poi; «Se vedi entrare qualcuno, fa finta di cercare. Giacché sei in divisa, nessuno sospetterà più di te». Quando tornò, il “trafficante” appariva molto più disteso. Si sedette su un tavolo, si accese una sigaretta e invitò Elias a rilassarsi ricordando ancora una volta che il pericolo era passato. Elias, che tuttavia non si sentiva per niente tranquillo, domandò: «Ma di cosa mi accusano? Non si è mai vista la polizia sparare addosso alla gente addirittura con i mitra, quasi fossi un pericolo pubblico. E poi, non sanno che sono disarmato?» «Di cosa ti accusano? Non è difficile immaginarlo: di attività sovversiva». «Ma se non mi sono mai occupato di alcuna ragion di stato, né ho mai mostrato vicinanze per alcun partito!» «Sarebbe stato molto meglio che tu avessi professato un qualsiasi credo politico. Ma non capisci che è stato proprio il tuo “essere diverso” che ti ha reso sospetto? E poi, la tua insofferenza per ogni tipo di costrizione che hai sempre sostenuto a voce alta nei tuoi discorsi al bar ... È questo che ti accusa in modo così preciso. Nessuno di noi ha mai mostrato tanta sincerità e coraggio. Il tuo arrivo, per noi, è stato come una ventata di aria fresca e tutti abbiamo provato una grande emozione quando hai finalmente deciso di rivelarti. Man mano che ti aprivi l'ammirazione nei tuoi confronti è diventata una vera e propria devozione». Elias si sentì avvampare e fu grato a quella penombra che consentiva di distinguere a mala pena i contorni delle figure. Si sentiva lusingato di essere ben voluto dagli amici del bar, ma non poteva credere a quelle ultime parole che giudicava esagerate. Obiettò: «Ma se nel bar non si fa altro che parlare di libertà, d'indipendenza, di arte...» «Parole vuote, frasi alla moda e niente più. Quando parli tu, invece, si vede subito che le parole vengono dal cuore; molti ti considerano già un maestro di vita e ti hanno eletto loro guida». «Io non amo che vivere libero e come maestro non saprei davvero cosa insegnare», si schermì Elias. «L'amore per la libertà e la vita, appunto! Possibile che ti sia sfuggito come negli ultimi giorni vi fossero un insolito fermento e un grande entusiasmo in tutti noi?» «No, non me ne sono accorto davvero», confessò Elias e, tornando all'argomento che più gli stava a cuore, continuò: «Non riesco ancora a capire di quali colpe mi sono macchiato per meritare una simile persecuzione». «Ma è semplice!», s'infervorò il “trafficante”; «Senza che nemmeno te ne renda conto, possiedi un tale magnetismo da condurre le persone ovunque vuoi tu e sono sicuro che anche in passato debba aver influenzato in modo decisivo la vita di chi ti era vicino». Elias ricordò che, ogni volta che esprimeva la sua insofferenza per la vita d'ufficio, seguivano delle improvvise dimissioni di qualche collega, oppure, quando confessava i suoi timori che il diploma non si sarebbe rivelato utile per la carriera lavorativa, a distanza di pochi giorni accadevano degli improvvisi quanto misteriosi ritiri da parte di qualche compagno di classe. Solo adesso, in seguito alle parole del trafficante, metteva in relazione se stesso con quegli strani avvenimenti. «Se tu vuoi, sarai il nostro capo, e noi tutti abbandoneremo le nostre famiglie e gli amici e ci dirameremo nel mondo in cerca di nuovi seguaci. Ti prego, non abbandonarci ora che ti abbiamo trovato!», implorò infine il “trafficante”. «Tu sei pazzo!», sbottò Elias indignato; «Io non voglio essere né il capo, né la guida, né il maestro di nessuno. Cercate un pazzo esaltato come voi. È mai possibile che non troviate soddisfazione nella vita se non avete qualcuno che vi guidi?» «Ma noi non vogliamo un capo che ci guidi; vogliamo solo te. Ti prego, abbi pietà di noi!» «Lasciami, lasciami!», urlò Elias cercando di liberarsi dalla presa del “trafficante” che si era gettato in ginocchio e gli stringeva le gambe in un abbraccio disperato. Quando riuscì a divincolarsi lasciando il “trafficante” disteso per terra che piangeva come un bambino, si lanciò verso l'uscita inciampando e urtando contro una quantità di sporgenze, rese invisibili dalla fitta penombra. Dopo essere passato da un locale all'altro procedendo tentoni, e quando ormai la poca luce non era divenuta che un punto luminoso, trovò finalmente una porta che spalancò con impeto. Gli si presentò una scena sconcertante: davanti a sé una donna e due bambini seduti a un tavolo apparecchiato. Tutti, a causa di quell'irruzione inaspettata, si voltarono a fissarlo con occhi spalancati. Il bambino più grande si bloccò col cucchiaio ancora pieno all'altezza della bocca, mentre il più piccolo, visibilmente spaventato, aveva le labbra che gli tremavano e sembrava dovesse scoppiare a piangere da un momento all'altro. Elias, molto imbarazzato, si scoprì il capo e, rivolgendosi alla donna, disse: «Mi sono perduto e non sapevo che questa porta comunicasse con un appartamento privato. Se m'indica la strada per uscire, tolgo immediatamente il disturbo». «Dov'è il mio papà?», chiese il bambino più grande con voce lamentosa. Prima che Elias potesse replicare, e mentre l'altro bambino piangeva silenziosamente, la donna lo ammonì: «Non dare fastidio al signore». Poi, rivolgendosi a Elias, disse: «Di qua, prego». Lo introdusse in un corridoio e, al termine di quello, si fermò accanto ad una porta. Chiese: «Non l'avete ancora preso?» «Anche suo marito è alla caccia di quel ragazzo?», domandò Elias di rimando. «Sono stati arruolati tutti gli uomini del centro; solo donne, vecchi e bambini, che non possono prendere parte alle ricerche, sono tenuti a restare chiusi in casa». «È vero, e come vede, sono stato arruolato anch'io. Mi chiedo, però, perché solo alcuni sono armati: a me, ad esempio, non hanno dato altro che l'uniforme». «Quelli armati, sono i veri poliziotti, gli altri sono tutti civili. Ma dica, secondo lei è possibile che abbiano già catturato quel ragazzo? Sono così in pensiero per mio marito... così allo sbaraglio, senza nemmeno la possibilità di difendersi!» «Ma suo marito, almeno, conosce il ricercato?» «No, ma è l'unico che si muove dentro la zona recintata senza divisa». «Quale zona recintata?» «Tutto il centro di Mainal, che è stato chiuso prima che iniziasse l'inseguimento. Lei queste cose dovrebbe già saperle...» La donna ora aveva preso a scrutare Elias con sospetto. «Ha ragione, ma siamo stati arruolati in fretta e furia e a molti non è stata data neppure una parola di spiegazione. Beh, ora devo proprio andare; non vorrei passare per un disertore. Buongiorno e grazie». «Buona fortuna e si riguardi: dicono che quel ragazzo sia un pericolo per tutti!» Appena fuori, Elias si ritrovò in una strada che non riconobbe. Da lontano giungeva il clamore di persone che urlavano e sembravano correre nella sua direzione. Il suo primo impulso fu di fuggire, ma poi ricordò che indossava una divisa. Una decina di persone correva al seguito di un vero poliziotto (era l'unico che impugnava un mitra). Elias rimase a guardarli dal punto in cui si trovava, ma l'agente gli gridò: «Cosa fai lì impalato? Avanti, muoviti!» e fece cenno col braccio di unirsi a loro. Elias si accodò al gruppo correndo per un centinaio di metri, intanto il poliziotto gridava frasi come “A morte il ribelle”, oppure “La giustizia trionferà”, mentre brandiva per aria il mitra. Il codazzo urlava in coro le stesse parole. Tra una pausa e l'altra, Elias chiese a un vicino: «Quanto potrà durare ancora questa corsa?» «Finché non sarà catturato il ribelle. Ma perché non gridi insieme a noi? Sei forse un amico del ricercato?» «No, no, anzi, non lo conosco nemmeno! Il fatto è che devo assolutamente tornare a casa; i miei genitori saranno già preoccupati perché non ho trovato il modo di avvertirli di questa mia assenza prolungata». «Dove abiti?» «Vicino a Largo dei Prati.» «Allora non dovevano arruolarti, perché non risiedi nella zona recintata. Se vuoi, puoi farti esonerare». «Ma non sembrerà sospetto chiedere di allontanarsi dalla zona delle ricerche?» «No. Ci sono già stati numerosi errori. E poi, quando qualcuno chiede di uscire dalla zona recintata, è controllato da chi conosce bene il ribelle». Era quanto Elias desiderava sapere; durante la corsa si distanziò volutamente dagli altri, perdendo terreno poco a poco e, quando quelli che lo precedevano voltarono per una stretta strada laterale, si fermò e poi si diresse con passo svelto verso la periferia della città; doveva uscire al più presto dalla zona recintata. Ma quando vide la rete metallica, alta più di tre metri, il filo spinato che la sormontava, i numerosi poliziotti armati di mitra e cani lupo al guinzaglio che la ispezionavano, si convinse che l'unico modo per uscire era superare uno dei posti di blocco, anche se controllati da un grande spiegamento d'uomini e mezzi. Accanto alle uscite, oltre ai soliti agenti armati, c'erano anche postazioni con mitragliatrici; addirittura, vicino a uno dei passaggi principali, Elias vide un carro armato col cannone puntato ad altezza d'uomo. Per fortuna, davanti all'uscita più vicina c'era già un discreto numero di persone che facevano richiesta di passare nella zona libera. Su di una sedia, posta in cima a un'alta impalcatura metallica, sedeva una ragazza che, servendosi di un potente cannocchiale, scrutava i richiedenti uno a uno. Per segnalare se il candidato poteva passare oppure no, la ragazza agitava un drappo bianco, poiché dalla posizione in cui si trovava, non era agevole distinguere un semplice cenno della mano. In un momento in cui posò il cannocchiale in grembo per riposarsi, Elias credette di riconoscere Miriam, ma, per quanto stringesse gli occhi, gli rimase il dubbio di scambiarla con qualcun'altra. D'altra parte, in un diverso posto di blocco poteva incappare nell'“informatore” col quale non poteva certo farla franca, allora, col cuore in gola, si mosse per raggiungere la fila alla quale si accodò. Ogni tanto volgeva lo sguardo verso quella figura in cima all'impalcatura da cui sapeva di essere osservato con attenzione. Dall'alto, amplificate da un megafono, giunsero queste parole: «Lasciate passare il ragazzo in fondo alla fila; è un mio amico e ne rispondo personalmente». Era proprio Miriam, la ragazza del bar. Elias le sorrise e agitò una mano in segno di saluto. Poté passare davanti a tutti; raccolse i suoi abiti, spuntati chissà da dove, e finalmente poté accedere alla zona libera. Mentre camminava senza sapere dove andare, perché era troppo presto per la scuola, Elias considerava che non sarebbe occorso molto alle forze dell'ordine per scoprire la sua identità e che doveva assolutamente far perdere le proprie tracce. Costituirsi, come consigliava l'ultimo “messaggio”, non sarebbe servito ad altro che a buttarsi fra le braccia della polizia che già l'aveva condannato. Dopo aver percorso qualche centinaio di metri, si voltò a guardare se la recinzione esisteva davvero o se aveva sognato. Nonostante la distanza, distingueva chiaramente l'affollamento di là dalle uscite e l'altissima impalcatura su cui era in osservazione Miriam. Dal punto in cui si trovava, appariva ancora più evidente l'esilità della struttura che si ergeva sino all'altezza di un palazzo di dieci piani. Si chiese come aveva fatto a salire fin lassù e poi restare seduta su una sedia, forse per ore, senza neppure un parapetto di protezione. Di là dalla rete sembrava di essere in tempo di guerra, mentre nella zona libera la gente si affrettava a correre da una strada all'altra senza quasi accorgersi che tutto il centro era presidiato. Il traffico era deviato su percorsi alternativi, e a un osservatore poco attento poteva sembrare che di là stessero girando semplicemente le scene di un film. Gli oziosi che curiosavano premendo contro la rete erano convinti ad allontanarsi con colpi di sfollagente dagli agenti che sostavano accanto alla recinzione. A un tratto Elias si destò dal proprio stordimento e si accorse che stava andando in direzione di casa, col rischio che qualche vicino lo vedesse e che i suoi genitori venissero a sapere che non era al lavoro. Ricordandosi dell'ufficio si toccò la tasca interna della giacca, dove abitualmente conservava i documenti. Era vuota. Frugò disperatamente in tutte le altre, ma, come temeva, non trovò niente. Cercò di richiamare alla memoria se, quando aveva indossato la divisa, aveva tolto il portafoglio dalla giacca, ma inutilmente. E poi c'era stato il secondo cambio d'abito..., in ogni caso ricordare non sarebbe servito, perché era impensabile tornare nella zona recintata. Non era preoccupato per la perdita dei documenti, pure così importanti, ora che era ricercato, ma lo indispettiva non riuscire a ricordare se anche quel giorno aveva compiuto il gesto automatico di prendere il portafoglio da sopra il mobile e metterlo nella giacca. Più di una volta, per la fretta, aveva dimenticato di farlo e, tornando a casa, aveva ritrovato tutto al solito posto, quindi poteva essere accaduto anche questa volta, ma non riusciva ad accettare quella zona buia della memoria. Pensò ai libri di scuola, che aveva dovuto abbandonare al bar; erano andati perduti per sempre, insieme a tutti gli appunti di tecnologia e di diritto che, a pochi giorni dagli esami, erano sicuramente più importanti dei testi. Ma come poteva ancora pensare alla scuola ora che la sua stessa vita era in pericolo? Provò nuovamente l'impulso di dire tutto ai genitori, come il giorno del licenziamento, ma anche questa volta la storia che avrebbe dovuto raccontare era talmente assurda che non l'avrebbe creduta lui stesso. E poi, come pensare di essere davvero estraneo a tutto ciò che aveva causato gli ultimi tragici avvenimenti? Come pensare di essere davvero senza colpa alcuna? Ora cominciava a dubitarne. Senza quasi rendersene conto, iniziava a considerarsi un po' responsabile per il comportamento tenuto dal giorno della partenza per Sokol; non che giustificasse i suoi persecutori, ma non si scagliava più contro di loro con piena convinzione, come faceva prima. Anziché fuggirli, avrebbe dovuto contrastarli, a cominciare dal professor De Magistris. Era pur vero che non aveva mezzi a disposizione, ma non avrebbe mai dovuto permettere che fossero calpestati i suoi diritti, passando così dalla ragione al torto. E ora era troppo tardi per tornare indietro. Era fin troppo chiaro: non aveva altra possibilità che la fuga; doveva andare lontano di casa, lontano da Mainal, lontano perfino dal suo Paese. A poco a poco nella sua mente si mostrava un piano, e con sempre maggiore chiarezza. Avrebbe atteso non lontano di casa l'ora del rientro da scuola, poi si sarebbe ritirato come se nulla fosse accaduto. Il giorno seguente, all'ora solita, sarebbe uscito con qualche libro, come faceva sempre. Avrebbe raccolto i pochi risparmi e sarebbe partito per un lungo viaggio; non aveva ancora una meta precisa, l'importante era portarsi quanto prima oltre confine.
Elia Giovanni Babsia
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