Lisa. «Belle tette». Sono le prime due parole che mi ha detto Luca Parodi quando ci siamo conosciuti. Per la precisione, ci siamo incontrati di striscio alla festa annuale della polizia di stato organizzata nel palazzo che ospita il nuovo Museo egizio, a Torino. In ascensore, io ero in divisa, lui in jeans e giubbotto di pelle, coi capelli scuri che avrebbero avuto bisogno di un lavaggio con Head & Shoulders, lo shampoo antiforfora. Quarant'anni portati così così. Il commento sessista mi urtò da morire: «Che razza di maleducato! Come ti permetti!». «È vero che hai delle belle tette. Si vede nonostante l'uniforme. Le donne non dovrebbero portare la divisa, accettarle nel corpo è stato un errore»; la sua risposta era stata peggio di una doccia fredda. Già combattevo con mio padre, comandante della polizia di Torino, il questore in persona, ci mancava Parodi, l'ispettore più talentuoso della città. Il più giovane in quel grado, a suo tempo, e rimastoci da allora per via del caratteraccio e dell'insofferenza alle regole. Stranoto per i vizi. Sigarette, bevute e donnine allegre, un matrimonio fallito alle spalle. Niente prole, meno male per i mai nati. «Sei Lisa Argenti, la figlia del capo. Ti ho vista al distretto. Una pivella», il tono era offensivo, la radiografia era stata completa. Mi faccio notare, lo ammetto. Ho i capelli biondi, molto lunghi, gli occhi chiari, un bel viso e un fisico allenato. Madre natura è stata buona con me, la genetica familiare ha fatto il resto. «Già. Buonasera», volai fuori dell'ascensore verso la sala della festa. «Ciao, belle tette»; Luca lo ripeté, mangiandomi con gli occhi neri come il carbone. Riuscii a evitarlo come la peste de I Promessi Sposi, nella circostanza. Finì lì. Lo incrociai al distretto – la questura di via Vinzaglio – di tanto in tanto, tirando dritta e lui altrettanto; un'occhiata libidinosa e doverosa al mio seno ogni volta. Ieri mi è caduto addosso il mondo. Mio padre, Enrico Argenti, il capo, ha provveduto alle assegnazioni provvisorie degli agenti più meritevoli. Grazie allo stato di servizio ero una delle prime in graduatoria. Speravo in un incarico alla sezione narcotici. Quando ho letto il mio nome sul foglio in bacheca accanto a quello dell'ispettore Parodi, destinazione squadra omicidi, ho avuto un mancamento. I miei colleghi ridacchiavano; mio padre non mi ha mai concesso trattamenti di favore, ma stavolta ha esagerato. Detesto le scenate, ho ereditato la sobrietà dal mio divino genitore insieme ai tratti somatici. Per cui, giacchina avvitata e jeans scuri, cammino in corridoio con calma raccogliendo le idee, verso l'ufficio di papà. «Sandra, lui ha un minuto per me?» chiedo alla segretaria anziana, dai capelli bianchi raccolti in una crocchia, una nonnina con un piede nella pensione e l'altro nella fossa, che batte nevrotica sulla tastiera del PC. «Dopo Parodi». Luca – trasandato come al solito, i ricci più scompigliati che mai, l'immancabile giubbotto di pelle che indossa estate e inverno – fuma alla finestra aperta, soffiando fuori una nuvola lattescente e cancerogena. È lì per il mio stesso motivo. Cominciamo male, malissimo. «Buonasera, ispettore». «Ciao, belle tette». È senza ritegno! Sandra ride a crepapelle. «Ne vedremo delle belle, altro che tette. Se state pensando di far cambiare l'ordine di servizio al capo, lasciate perdere. Le assegnazioni non si modificano. È la regola». La segretaria ha ragione: mio padre è duro come la pietra. «Sono venuto a ringraziarlo»; Parodi mi squadra e mi fa l'occhiolino nel momento in cui si apre la porta. Papà, moro imbiancato alla George Clooney, asciutto e in forma come lui, forse più in un elegante abito scuro, la spalanca. «Ho poco tempo, entrate insieme». Mi guarda storto. Temo non potrò lamentarmi né chiedere di essere comandata ad altro ufficio. Ci sediamo sulle poltroncine imbottite rosse, davanti all'enorme scrivania d'antiquariato che troneggia nella stanza, fra un paio di librerie, un divanetto, una lampada da terra e gli immancabili libretti della polizia degli ultimi cent'anni alle sue spalle, con la foto del presidente della Repubblica. «Beh, che volete? Parodi, tu! Poche smancerie!». Luca scarta e succhia una caramella marca Spezzafumo alla menta, prima dell'attacco alla sottoscritta. «Capo, senza offesa. Sua figlia non è il massimo come collega... Prima mi affida i casi più complicati, poi mi appioppa una ragazzina. Mi aspettavo un partner esperto, o meglio nessuno! Non voglio rogne, è un lavoro delicato». Lui non è delicato, invece, è un bulldozer. «Ispettore, se non si farà le ossa, non diventerà mai esperta. Qui è solo l'agente Lisa Argenti, non mia figlia. Ho scelto sulla base del curriculum, hai avuto la migliore. Il migliore, intendevo» lo zittisce, poi si rivolge a me per impedirmi di replicare, vede la furia sulla mia faccia: «L'ispettore sarà un ottimo maestro, affidati a lui senza remore. Buonasera» ci indica la porta e non abbiamo modo di controbattere. Ci alziamo, insoddisfatti delle risposte ricevute. Sandra ride ancora sotto i baffi: la sa lunga, ci aveva pure avvertito. La saluto con un bacino, uscendo. Ho passato più tempo qui a disegnare accanto a lei che a casa mia, da ragazzina, quando mamma insegnava anche il pomeriggio. Parodi fissa il mio petto, contribuendo a rendermi più nervosa di quanto non sia già di mio. «Almeno potrò guardare le tue belle tette tutto il giorno. Sono un uomo fortunato e morirò felice». «Se non la smetti ti denuncio per molestie sessuali» ribatto stizzita e seria. Sarò la nuova Cristiana Capotondi nella lotta contro molestie e abusi sul luogo di lavoro. Nome di donna è un film che fa riflettere, dovrebbero proiettarlo tutti i giorni dalla scuola materna per tutti i gradi di istruzione, passarlo a reti unificate. «Magari! Sbrigati, così ti ammollano a un altro ed evitiamo di perdere tempo in due»; accende una sigaretta senza attendere di essere fuori dal distretto, spavaldo. «A domani mattina». L'educazione prima di tutto. Mi dileguo verso la mia Fiat 500 rossa. «Ciao, belle tette», Luca bofonchia, salendo sull'auto assegnatagli, un'Alfa Romeo Giulietta grigio metallizzato. Mi rimangono le sue offese nelle orecchie tutta la notte. Ho declinato l'invito di Patrizia, la mia amica più cara, per un aperitivo in centro. Ha due bambini piccoli, sa che l'imprevisto è all'ordine del giorno per entrambe. Mi rifugio nel mio bilocale sciccoso nel quartiere Crocetta, con un trancio di pizza margherita scongelato al microonde e Netflix fisso sulla maratona di Collateral, una serie thriller a sfondo investigativo con protagonista una poliziotta appena promossa, come me; mangio direttamente sul letto, con l'abituale appetito che non manca mai, riflettendo sulle parole di mio padre. Ha ragione, Parodi è in gamba, la sua fama lo precede. Stronzaggine compresa. E la squadra omicidi è ben più prestigiosa della narcotici. Papà ha voluto agevolarmi, darmi l'opportunità di crescere professionalmente, mica mi ha spedito all'ufficio passaporti a timbrare documenti. Dovrò mandare giù il rospo. Di un metro e ottanta centimetri per novanta e passa chili almeno, massiccio e maleducato, con una mentalità maschilista e sessista. Però bravissimo. Non si può chiedere la perfezione. Leccandomi le dita dal sugo della margherita, sento squillare il cellulare. È una videochiamata Skype dall'Australia. Il mio fidanzato Matteo, ingegnere aerospaziale, sta lavorando lì per un progetto della sua società. Non ci vediamo da tre mesi, di persona. È un tipetto carino, un ragazzo posato senza grilli per la testa, a volte un po' freddo e scostante. Solo che stasera proprio non ho voglia di sentirlo. Chiudo la comunicazione, scrivendogli un messaggio: «Sono a una riunione, a domani». È la prima volta che gli mento. Caspita, non dovrei. Perché lui è il mio amore vero, giusto? Mi lavo i denti, infilo la maglietta rosa di Hello Kitty che uso per camicia da notte e poi via, sotto le coperte. Tempo due minuti e mi addormento con il viso antipatico di Luca Parodi davanti agli occhi.
Nazarena De Angelis
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