I fiori si bagnano il venerdì
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EDNA che non era di Korljevo ma di Vrestiče, un villaggio distante una ventina di chilometri in una valle laterale. Dove nel maggio del '92 viveva con Enis, da lei sposato soltanto un anno prima quando entrambi erano giovanissimi: lei diciotto appena compiuti, lui soltanto un paio di più. Edna che quel maggio di dieci anni prima non voleva partire, perché Vrestiče non era minacciato dall'avanzata serba come Korljevo. Perlomeno non ancora. Edna che soprattutto non voleva lasciare il suo Enis. Se in seguito ci fosse stato da rischiare la vita, avrebbe rischiato con lui, e se c'era da morire, sarebbero morti insieme. Poi Enis aveva saputo trovare gli argomenti giusti, parole che solo lui era in grado di dirle, e l'aveva convinta ad andarsene. Così lei aveva seguito le indicazioni di una zia di Korljevo di tenersi pronta, da un giorno all'altro sarebbero passati i camion per portarli in salvo in Croazia. Giù a Korljevo, da un paio di settimane granate di avvertimento erano cominciate a cadere nei dintorni, finché due case nella piana appena fuori del paese erano state colpite e semidistrutte. Solo per un caso nessuno ci aveva lasciato la pelle: i figli erano a scuola, i genitori a lavorare nei campi mentre vedevano la propria vita barattata con il frutto dei loro sacrifici, sventrato dall'odio concentrato in quegli ordigni. Allora a Korljevo era stato deciso di chiudere le scuole e di estendere il coprifuoco anche di giorno. Tutti rintanati nelle cantine e buio pesto di notte, per negare ogni riferimento a un nemico letale ma invisibile, là fuori. E mentre Amir stava seppellendo il suo tesoretto fra le radici del Golem, zio Safet era andato a bussare concitatamente alla porta della nipote di Vrestiče, dopo aver sfidato la notte a fari spenti in auto. Però Edna non avrebbe potuto portarsi dietro più di una valigia. Da Korljevo sarebbero venuti via quasi tutti, portandosi dietro solo le loro vite e quel poco che si poteva stipare sui camion del convoglio in arrivo. Dei quali nemmeno la metà, una decina, sarebbero stati a loro disposizione, con gli altri già stracolmi di fratelli dei villaggi vicini, anch'essi sradicati dalle loro case e dai loro affetti e ora in pasto a un futuro spietato quanto scriteriato. In paese sarebbe rimasto solo un manipolo di uomini con un'indomita volontà di battersi e di rischiare la vita per la Bosnia, da due mesi Stato indipendente secondo la volontà popolare espressa dal referendum di marzo. Bosnia patria della componente mussulmana degli abitanti della ex Jugoslavia e subito divenuta terra di conquista delle due etnie che fino a poco prima vi avevano convissuto: i bosniaci croati cattolici e i bosniaci serbi ortodossi. Ma quegli uomini non erano certo rimasti per un'impensabile difesa del loro paesino dall'assalto di un nemico dalla forza sproporzionata, bensì per individuare una via di fuga e potersi aggregare a qualche corposa brigata di resistenti a quella bieca logica di spartizione. Gli sfollati avrebbero poi saputo che non erano passati neppure due giorni dalla loro fuga, quando le milizie serbe erano entrate in Korljevo per impossessarsi di un paese fantasma. Un'altra bandierina piantata sulla mappa di un folle Risiko sanguinario, che se altrove aveva un corrispettivo etnico a parti invertite, non era in chiave espansionistica bensì difensiva e conservativa. L'obiettivo, allora occulto e in seguito disvelato, era la spartizione della Bosnia tra Serbia e Croazia. Secondo criteri che richiamavano l'efferato arianesimo nazista, il disegno geopolitico doveva passare attraverso il sacrificio dell'etnia considerata spuria, quella bosgnacca impropriamente chiamata “mussulmana”. Un aggettivo che non rifletteva un patrimonio genetico ma un credo religioso, quello a cui apparteneva, in quella parte della Bosnia, la quasi totalità degli abitanti di Korljevo. Così, dopo l'ultimo lancio di dadi del destino, anche Edna si era trovata a far parte dello scalcinato convoglio di anime bosgnacche che arrancava verso il ponte che lo avrebbe portato in salvo, oltre il confine segnato dalle anse del fiume Sava. In quella parte orientale della neonata Repubblica di Croazia, la situazione sociopolitica si era ormai stabilizzata dopo i cruenti scontri dell'anno precedente fra croati e serbi per la contesa della vicina Vukovar e dintorni. Ora quell'area croata rappresentava un salvifico punto d'approdo perfino per un convoglio “mussulmano” in fuga dall'inferno bosniaco. Quel tragico giorno di maggio neppure l'autorevolezza di zia Fikreta, direttrice della scuola di Korljevo, era inizialmente bastata a far trovare a Edna un posto su un camion già stracolmo di persone, valigie, scatoloni e piccole masserizie. Così entrambe avevano dovuto spendere il loro piccolo segreto: quella ragazza appena arrivata da Vrestiče era incinta di tre mesi. «Anch'io sono incinto, di venti mesi!» era insorto stizzito il vecchio Hasan, suscitando qualche risata pur in un frangente tanto drammatico. E non stava scherzando affatto, dato il rischio di dover sacrificare la vecchia poltrona che il nonnetto aveva ottenuto di portare con sé, a suo dire l'unica possibilità per starsene seduto senza patire i perniciosi dolori reumatici che lo stavano consumando di giorno in giorno. Infine si era riusciti a trovare una mediazione, con il vecchio seduto nella sua poltrona ma semicoperto dalla valigia dell'ultima arrivata appoggiata su uno dei due larghi braccioli. Edna non avrebbe mai dimenticato i tre giorni di caldo opprimente di quell'inopportuno assaggio estivo. Sudore e polvere, e poi polvere e ancora polvere per battere strade sterrate e tortuose, lungo le quali si sperava fosse meno probabile imbattersi in milizie ostili. Parte dei fuggitivi, soprattutto quelli sistemati in fondo ai pianali dei camion, era costretta a viaggiare con un fazzoletto sul volto a mo' di filtro, per non respirare quintali di polvere che si sarebbero comunque insinuati in ogni dove, compreso ogni poro di pelle. Inutile poi invocare una sosta che non fosse programmata o strategica, seppure per il malore di qualche anziano o per qualche incontrollabile esigenza corporale. Di notte si cercava di sonnecchiare tra i sobbalzi del camion che procedeva pericolosamente a fari spenti, con gli echi dei mortai sempre più vicini alla coda del convoglio nel tentativo di artigliare anche quel misero scampolo di diseredati. E finalmente il ponte. Ma con le granate che ormai hanno agganciato il sinuoso bersaglio. Rannicchiata a fianco della poltrona del vecchio Hasan, con le mani a coprirsi la testa aspettandosi da un momento all'altro il peggio, Edna non resiste alla tentazione di allungare di tanto in tanto il collo per dare un'occhiata di fuori. Finché vede gli ultimi due camion del convoglio, proprio adesso che l'agognata meta è a poche centinaia di metri, costretti a una spericolata inversione di marcia: l'unica speranza per evitare uno scroscio letale di granate che, con precisione funesta, sta ora flagellando la campata centrale del ponte. Ed è dal suo camion in folle corsa ma ormai in salvo sulla sponda croata che Edna, come gli altri korljevesi che si trovano in testa al convoglio, scorge quei poveracci rimasti sulla riva opposta prendere d'assalto le barche che riescono a trovare, sovraffollandole fino a metterne a rischio la stabilità. Figure sempre più lontane che si sbracciano in forsennati richiami in ogni direzione. E altre che addirittura si lanciano in acqua, nel tentativo estremo di attraversare a nuoto le ribollenti acque di quel fiume tanto largo quanto infido, già destinate dopo poche bracciate disperate a rinunciare o a soccombere. E come puoi gioire tu, per la tua sorte, avendo negli occhi un orrore del genere? Con la Morte che sembra ora accanirsi su altri fratelli per non essere riuscita prima a ghermire la tua vita. Quella notte, nel buio della palestra scolastica che funge da centro di raccolta, sdraiata a terra su una coperta e con le mani intrecciate sul ventre che denuncia una prima timida prominenza, Edna si lascia sfuggire un timido sorriso: se la sua creaturina è riuscita a scampare all'inferno di quei tre giorni, come minimo sarebbe campata trecento anni! Quattro mesi più tardi all'ospedale di Ceško, in Slovenia, sarebbe nata Jasmina. E siccome in qualche misterioso modo i collegamenti con la Bosnia riuscivano a sopravvivere, la neomamma sarebbe riuscita a spedire a suo marito Enis una lettera con una fotografia della neonata patuffolina. Ma quella che un mese più tardi le sarebbe stata recapitata al campo, sarebbe stata l'unica lettera da lui ricevuta. Enis raccontava di essersi ritirato con altri compaesani sulle alture intorno a Vrestiče, per cercare di contrastare l'accerchiamento con cui i cetnici volevano isolare e sfinire il villaggio. La situazione era molto critica. Ma adesso, a soccorrere Enis nei momenti più duri, c'era il pensiero di avere una figlia. Il futuro che lui avrebbe cercato di difendere sarebbe stato anche per la piccola Jasmina...
Marzio Biancolino
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