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Autore: Fabrizio Visca
Il giorno che non ti aspetti
Psicologia
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Il giorno che non ti aspetti
Se qualcosa la vita ti toglie, poi qualcosa ti ridà.
Ricordo, fosse ieri, quando il medico ufficiale, ai tempi della leva, me lo disse con voce ovattata al di là di un vetro alla fine della visi-ta del militare, ventisei anni fa.
E per tutti gli anni a venire non ho mai capito, o forse non mi so-no mai sforzato di capire, quali sarebbero potute essere le condizio-ni dello scambio né quando sarebbe avvenuto.
Ma soprattutto non ho mai capito a cosa realmente si riferisse.
Lui.
Lui che nel suo camice bianco, con professionale lentezza, firmava un documento senza sapere né chi fossi, né dove andassi, né cosa facessi lì in quell'afoso pomeriggio di luglio e tantomeno cosa mi aspettassi da quella giornata.
Eppure, non l'ho mai dimenticata quella frase e ancora oggi torna prepotentemente nei miei pensieri.
Un po' anche tra le mie speranze.
L'appuntamento è di mattina presto e sarò il primo paziente della giornata a sdraiarmi, per la prima volta per me, su un vero lettino da psicologo proprio come quelli che si vedono nei film.
E ad essere sincero ho scoperto essere anche comodo.
Inizia così, con queste esatte parole, il racconto della mia vita alla Dottoressa Antonella Scarti.
Seppur convinto di aver esordito nel migliore dei modi mi inter-rompe senza staccare lo sguardo da me.
«Francesco lei è qui per parlarmi di una frase di più di vent'anni fa?» mi chiede inclinando leggermente la testa.
«No... certo che no. Volevo iniziare...» farfuglio mentre cerco di assumere una posizione composta.
«Senza nulla togliere alla frase, che ammetto, è decisamente di forte impatto, al momento non serve al percorso che dobbiamo fa-re», aggiunge con fermezza.
È una donna tra i trentacinque e quarant'anni, fisicamente grade-vole, dai lunghi capelli neri e dai cui piccoli gesti traspare la sua perfezione per il ruolo e la professione svolta.
Nulla stona in lei.
Non è vestita né in maniera troppo elegante né troppo sobria.
Nei suoi jeans aderenti, abbinati ad eleganti scarpe nere dal tacco prominente, avvolta nel suo maglione color ocra, è semplicemente perfetta.
È padrona non solo del luogo ma soprattutto di sé stessa.
Dietro un paio di occhiali dalla spessa montatura nera c'è uno sguardo concentrato e impassibile piacevolmente incastonato in un viso semplice, ben disegnato e con un profilo oggettivamente fine.
Ricorda una dolce studentessa universitaria, di quelle che s'incon-trano nelle biblioteche, totalmente immerse nella lettura che raggo-mitolate in un maglione, di qualche taglia più grande, sorseggiano una bollente tisana.
Con le sue movenze e le sue parole trasmette eleganza e freschez-za. Qualcosa di lei mi dice che posso fidarmi.
Del resto, sarà la persona a cui, da lì a poco, racconterò tutta la mia vita, ogni minimo dettaglio, ogni emozione e ogni debolezza.
«...non serve che mi racconti tutta la sua vita in pochi minuti Francesco...» chiude l'agenda appoggiata sulle gambe proteggen-dola con le mani. Inclina ancora la testa ma sul lato opposto a pri-ma.
«Mi sta ascoltando? Ha sentito quello che le ho detto?»
«Si certo che non è necessario che io...»
«Prima. Quello che ho detto prima intendo», mi corregge.
«Al momento,» prosegue, «per qualche seduta iniziale non serve spiegare tutto e partire a razzo. Ciò che serve è esporre e capire i motivi per cui lei è qui con me. Ci serve capire la sua motivazione e la sua consapevolezza. Ok?»
«Preferisce che la guidi io nel racconto?»
Nel porre la domanda assume improvvisamente un'aria materna ed io annuisco con il capo.
Senza accorgermene.
«Perché Lei oggi è qui? Perché crede di avere bisogno del mio supporto?»
«Io sono qui perché credo di soffrire di attacchi di panico», inizio schiarendo la voce mentre continuo a cercare una posizione como-da.
«Dico credo perché così mi è stato detto e tutti i miei sintomi che ancora oggi continuo a provare, li hanno catalogati come elementi certi di un attacco di panico.»
«Perfetto. Stiamo quindi parlando di attacchi di panico», ripete prendendo appunti.
«Oltre agli attacchi di panico ha qualche altra patologia conosciu-ta o che le hanno diagnosticato sempre relativa al mondo pani-co/ansia?»
«Ufficiosamente mi reputo anche una persona ipocondriaca e uno rafforza l'altro.»
Anche se nessuno questo me l'ha mai diagnosticato in modo uffi-ciale, per me è palese che ne soffra.
«Che cosa intende dire con uno rafforza l'altro?»
«Intendo dire che a volte è il panico che mi provoca l'ipocondria e altre volte, è l'inverso, cioè avendo paura di quello che provo, spesso, vado in panico.»
«Secondo lei è più il primo o il secondo caso? O meglio. Per Lei è più il panico che provoca l'ipocondria o il contrario?»
Non c'è alcun dubbio che sta iniziando a scavare un po' più in profondità.
«Ecco direi che un buon 80% è il panico che provoca l'ipocondria. È il percepire certi sintomi, certe sensazioni come, che ne so, un capogiro, una debolezza, stanchezza, qualche formicolio, che io interpreto come minaccioso, che mi porta in panico provando una forte paura per quello che potrebbe essere o per quello che po-trei avere.»
«Quindi non è il panico che provoca l'ipocondria come ha appena detto ma è esattamente il contrario. Cioè, è la sua paura per le ma-lattie che la porta in panico. Dico bene oppure ho inteso male?»
In effetti ho fatto un po' confusione: me ne sono accorto subito.
«No è che io sento delle sensazioni, delle manifestazioni fisiche strane che mi impauriscono e spesso assumono una portata così di-rompente che diventano difficili da fermare e mi portano in pieno panico.»
«Oggi come si sente? Può descrivermi cosa sta provando?»
«È la prima volta per me, non sono mai stato da uno psicologo e mi sento in difficoltà. Non è facile per me parlare o confidarmi su certe cose del tutto personali. Voglio dire... vorrei, anzi ne sento il bisogno certo ma...ma nello stesso tempo ho...mi sento come vulne-rabile, scoperto...come se fossi nudo in spiaggia davanti a tutti con gli occhi puntati addosso. Diciamo che provo anche vergogna e so-no certo ne proverò anche nei prossimi giorni. Non è colpa sua, ci mancherebbe, sono io che sicuramente sono sbagliato o interpreto il tutto in maniera errata.»
«Bene. Adesso però mi descriva cosa sta provando, come si sente oggi.»
Sotto i suoi occhi fissi compare un piccolo sorriso rassicurante.
«Gliel'ho appena... non sono bravo a parole e sono anche un po' nervoso... quindi sbaglio parole, lo so... ci riprovo.»
«Francesco lei mi ha appena descritto in maniera precisa ed im-peccabile quello che pensa. Ciò che la preoccupa. Come si vede lei, in questo istante, ed è riuscito non solo a predire il suo futuro, cioè come si sentirà, ma anche ad immaginarsi in una bella spiaggia.»
Prende le mie mani tra le sue.
Sono morbide e calde.
Io abbasso lo sguardo, stupito da quel gesto, lei invece prosegue.
«Tutto quello che mi ha descritto è ciò che vedono e sentono i suoi sensi ed è ciò di cui si sta preoccupando e questo è normale. Io in-vece voglio parlare con Francesco... quello reale. Quello libero. Quello che è voluto venire qua. Quello che non ha vergogna ma ha bisogno di parlare con me e con sé stesso.»
Alzo lo sguardo incrociando il suo.
«Oggi, come ogni giorno, dentro di me c'è un uomo che vuole uscire dalla gabbia in cui si trova. È una gabbia buia e fredda, fred-dissima.»
«Da quanti anni?»
«Da quando ne avevo ventitre. Vent'anni passati ad accarezzare ogni millimetro di quelle mura. Ad ascoltarne il profumo. Ad assa-porarne il silenzio. A cercare di capire perché ci fossi finito dentro, in che modo e a chiedermi per quale strano progetto del destino ogni volta all'improvviso mi ritrovo li.»
«Ricorda la prima volta?»
«Si. È impossibile da dimenticare.»
«Me la descriva passo dopo passo. Lentamente. Con più dettagli possibili. Io sono qui.»
«Era un pomeriggio tiepido e tranquillo. Ero all'università come quasi ogni giorno in quel periodo ed ero nell'area ristoro quando all'improvviso, per la prima volta nella mia vita, ho avvertito come una doccia fredda, dentro di me, come se tutto il sangue fosse de-fluito in pochi attimi verso i piedi e contemporaneamente ho visto tutto bianco. Come un lampo. Un bagliore. Come trovarsi in un bat-ter d'occhio davanti a un muro completamente bianco. Li, in quell'istante, incontrai la paura. È una sensazione di morte. È la paura di morire. Durò pochi istanti, forse pochi secondi, ma suffi-cienti a lasciarmi stordito, come in tilt. Ero vigile e presente ma non riuscivo a dare una spiegazione a quella cosa e ciò che ricordo di più è la grande debolezza fisica avvertita subito dopo. Come se avessi corso una maratona.»
«Questo, quindi, fu il primissimo episodio. A distanza di quanto tempo arrivò il secondo?» riassume prendendo appunti.
«I giorni seguenti mi sottoposi a diverse visite, tutte negative, e tramite consulto medico sentii per la prima volta parlare di DAP. Disturbo da attacchi di panico. Non avevo la più pallida idea di che cosa fossero e se mai ci fosse una cura. Da quel giorno non ci pen-sai più perché nei giorni successivi tutto era rientrato nella normali-tà.
Fino alla settimana successiva.
Sette giorni dopo ci fu un altro attacco. Più forte. Più potente. Più devastante. Non ebbi sintomi fisici evidenti come il primo, ma sen-tivo dentro di me quella strana paura. Quella fredda paura di mori-re. Una paura reale. Credevo di impazzire perché era così vera che sembrava impossibile trovare una via di scampo. Non si riesce a ra-gionare in quegli attimi. Hai solo il tempo di comprendere che stai per morire.
Le mani all'improvviso diventavano fredde, i battiti acceleravano e attimi di estremo caldo si alternavano a momenti di freddo inten-so. Non c'era nulla intorno a me che non andasse né tutto ciò che mi circondava poteva provocarmi quello che si stava impossessando di me.»
Ho il timore che raccontando quelle sensazioni possa scatenare la stessa reazione e provare le stesse sensazioni.
Invece mi sento perfettamente a mio agio. E tranquillo.
«Quella volta ero a casa a fare quello che facevo sempre, ogni giorno. A leggere, a studiare, a ripassare, concentrato nel mio dove-re da studente, distratto a volte dai pensieri semplici e frivoli di un ragazzo qualunque di vent'anni. La sera sarei dovuto andare a una festa, mi sarei dovuto divertire, avrei dovuto vivere una delle tante sere in compagnia, come molti altri giovani della mia età e quindi ho vissuto quelle ore pomeridiane nella più completa serenità e con l'entusiasmo e la smania che si prova quando il tempo sembra non passare mai mentre tu vorresti già essere altrove. La definirei la giornata tipo.
E poi in un attimo il buio.
La sensazione di un tremore, un vuoto nello stomaco, gorgoglii interni, mancanza d'aria, oppressione al petto, il freddo sulla pelle come se di colpo si fosse spalancata una finestra alle mie spalle in pieno inverno, le vertigini al minimo movimento del collo.
Cercai di controllare quelle sensazioni, cercai di dare un motivo a tutto quello che sentivo, e provai a fermare quei disagi, a fermare quei pensieri terribili, ad annientare quel male che dentro di me cre-sceva e si nascondeva.
Iniziò così la mia seconda vita o finì la prima, e forse la mia gio-ventù.
In quel momento quel male m'inchiodò al divano. Non realizzavo se scappare o restare. Non sapevo cosa fare.»
Penso di fermarmi e attendere che la Dottoressa m'inviti a conti-nuare con qualche specifica domanda e invece proseguo in automa-tico.
E lei non mi ferma.
«Il terzo episodio fu il più devastante di tutti. Di quelli che poi non augureresti nemmeno al tuo peggior nemico. Fu il peggiore di tutti perché non ero solo. Perché in quel momento, in quell'attimo, a chi ti è accanto, devi raccontare qualcosa, devi inventare una scu-sa per giustificare il tuo fuggire improvviso. Perché in quegli attimi vuoi scappare come per sentirti vivo, come a darti una speranza, come a dirti ‘qui c'è il male, scappa e sarai salvo'. Quando hai certe cose, cui non sai dare una spiegazione o non sai dare un nome, cer-chi sempre di non farti vedere. Di essere normale agli occhi degli altri. La vergogna prende il sopravvento e d'istinto non vuoi mo-strarti debole o malato. Sei convinto che nessuno possa capire quel-lo che provi o perché lo provi, forse perché capisci che non sai spie-garlo in modo corretto o forse perché sai che certe cose fanno parte di alcune tipologie di persone poco sane di mente. Che cosa avrei potuto dire ai miei amici? Che si trattava di panico? DAP? Attacchi di ansia? Nemmeno per me esistevano fino a qualche mese prima figuriamoci per altri giovani spensierati. Che cosa avrebbero potuto capire?
L'abilità appresa dopo quegli episodi mi ha insegnato ad avere sempre una scusa, una via di uscita nel caso mi fosse venuto un at-tacco. Qualunque scusa sarebbe andata bene e avrei potuto allonta-narmi da dove ero e da chi era lì con me.
La forza della disperazione in una frazione di secondo ti rende abile a trovare una scusa, una via di fuga.
Avevo però sbagliato i conti. E avevo sottovalutato il mio nemi-co.
Non avevo considerato la sua imprevedibilità. Nella mia poca esperienza non avevo preso in debito conto il fatto che, in nessun caso e in nessun modo, mi avrebbe annunciato l'arrivo. Perché spesso, anzi sempre, arrivava quando voleva, in mezzo a chiunque, a qualunque ora, ovunque io fossi e qualunque cosa io stessi facen-do.
Sarei potuto andare sulla Luna, o trovarmi in riva al mare o salpa-re con una nave verso chissà quale luogo remoto. Lui mi avrebbe comunque trovato e raggiunto.
Ricordo che all'improvviso sentii il desiderio di fuggire da quel posto, da quella sedia, da quel tavolo, da quell'istante e anche da quelle persone. La paura mi chiedeva di andare via. Ovunque io fossi. Scappare da qualcosa o da qualcuno era l'unica via di uscita. L'importante era non fermarsi.
Quando sei in mezzo ad altre persone, però, devi giustificare quel cambio di comportamento improvviso e devi sforzarti di apparire normale.
Perché non mi sentivo normale. Chiunque non si sentirebbe nor-male.
Iniziai a dire parole strane, che nessuno capiva.
Iniziai a parlare di impegni improvvisi, di appuntamenti mancati, di tragedie e cose simili. Così, di punto in bianco, senza avere nemmeno ricevuto una telefonata o qualche messaggio.
Io dovevo in qualche modo trovare una scusa per andarmene.
Ricordo ancora gli occhi attoniti e sospettosi di chi allora era con me. Non capivano o non riuscivano a dare una spiegazione a quella mia improvvisa reazione. Loro non vedevano nessun pericolo, non vedevano nulla in me di strano a livello fisico.
Era solo in me quell'ansia e agitazione che mi portava a cambiare umore e ad allontanarmi.
Lui esisteva solo per me.
Così tra una scusa e un'altra, tutte senza senso, me ne andavo.»
Faccio una breve pausa, più per riordinare le idee e i ricordi, che per prendere fiato. Mi rendo conto che sto raccontando tutto que-sto come si racconta una fiaba a un bambino. Con assoluta calma e senza sosta.
Ancora una volta lei non mi interrompe e, anzi, attende paziente che riprenda a parlare.
«Era un pomeriggio di primavera e la temperatura era davvero gradevole tant'è che si potevano lasciare già aperte le finestre du-rante il giorno. Adoravo quel periodo perché non essendo io aman-te dell'inverno, la prima brezza primaverile regala sempre quella leggerezza e felicità che fa venire voglia di programmare, di iniziare nuove avventure, di rinascere. Ma ciò che ami non basta. Il mio do-ver fuggire mi portava a camminare, a fare lunghe passeggiate sen-za una meta precisa. L'importante era andare via il più lontano pos-sibile dal posto in cui ero perché ero convinto che camminando avrei avuto meno probabilità di svenire. Mi terrorizzava l'idea che una volta svenuto non mi sarei mai più svegliato. Lo svenire, non so per quale motivo, era il mio incubo peggiore e mi ripetevo, ogni vol-ta, che non dovevo assolutamente svenire.»
Ancora una pausa. Poi, accennando un sorriso, riprendo il raccon-to.
«Oh fratello guarda un po' chi c'è?» mi disse Giulio indicando con la testa l'ingresso del caffè universitario.
«Mamma che gnocca paurosa mio Dio. Come cazzo fa ad andare con quel pirla del suo ragazzo ancora non l'ho capito. Boh. Che mondo ingiusto!»
Giulio era il fissato del gruppo. Il suo punto debole era sempre lei: la donna. Quella donna, in particolare, lo faceva andare di matto.
Bella ragazza, nulla da dire, ma ogni secondo della sua giornata universitaria non era fatto di parole o numeri o testi da leggere. No. Solo e sempre quel pensiero fisso. Lei.
Poi c'era Claudio un altro fissato ma più riservato. Per lui quello che contava era solo trovare l'intrallazzo di turno per portarsi a casa un DVD, giochi per PC o qualche altra amenità a basso prezzo. Un intrallazzone professionista.
«Giù e dai sempre a guardare il culo delle donne...tanto quella non te la dà. Tu non hai i soldi fratello! Quello ha il grano che esce anche dalle orecchie mentre tu sei un poveraccio fatto e finito. Oh, comunque parlando di cose serie, ho una proposta: stasera Milano e gnocca?»
«E sì e domani chi cazzo si alza fratello? Tra un mese ho questo cazzo di esame di merda...è la quarta volta che ci provo. No, io non ci sto dentro», mugugnò Giulio nemmeno tanto convinto.
Diceva sempre così ma alla fine...
«Si vabbè ma se non te fotte un cazzo dell'esame! Piantala di dire sempre queste cazzate. Sai chi viene? Se t'o dico ti ammazzi per venì», intervenne Claudio sicuro che con quella notizia sarebbe riu-scito a convincerlo.
«Sentiamo. A parte che me stai sur cazzo quando parli romano ma...ci sarà lei? La stangona? E come fai a saperlo zio?»
«Te non ti preoccupare.Te la vuoi fare sì o no?»
«Oh Gabri bella li. Allora? Fatto? Stasera si va in vita?» Claudio si alzò accogliendo Gabriele che era appena entrato dalla porta a vetri principale dirigendosi verso di noi.
Gabriele era il quarto del gruppo. Passava i mesi a dare sempre lo stesso esame. E anche quel giorno non ci fu nulla da fare. Per la quinta volta il risultato fu negativo.
Finito l'esame, ognuno di noi veniva al ristoro a sedersi sempre sulla stessa panca a quattro posti, nell'angolo in fondo a destra de-stinato ai fancazzisti e a chi non studiava nulla. Almeno così si cre-deva perché alla fine ci siamo laureati tutti.
Era a quel tavolo che si cercava conforto e aiuto morale nel caso fosse andato storto qualcosa o al contrario autoproclamarsi impera-tore se si arrivasse da vincitore.
Era un po' il nostro angolo di salvataggio. Come in un ring.
«Ciao raga. Giornata di merda come sempre...cazzo ci vuoi fare. Programmi per stasera?»
Gabriele si sedette nell'unico posto libero.
«Oh, io l'ho buttata là. Milano, movida e ovviamente fi...?» rias-sunse Claudio guardando a turno un po' tutti.
«Si certo e la porteresti tu la gnocca? Ho già capito che finiamo a Long Island e cuba come tutte le volte completamente scassati», lo interruppe Gabriele con un gesto come a dire ‘stiamo in una botte di ferro'.
«No raga, veramente, stasera salto. Sono serio.»
Giulio era inamovibile.
«E tu Frank? Oh, ti sei addormentato? Frank?»
Claudio mi diede un leggero colpo con il gomito.
«Frank vieni anche tu stasera? Ci spacchiamo dai», intervenne Gabriele.
«Scusate devo...devo andare. Ho un impegno a casa non posso fermarmi. Vi richiamo dopo.»
Senza rendermi conto delle mie stesse parole le mani iniziarono a tremare.
«Cazzo hai? Oh! Dove vai? Ehi?» chiese Gabriele seguito da Giu-lio e Claudio.
«Oh ma dove vai?»
«Da quando hai sto impegno?»
Mi alzai dal tavolo di scatto, con le mani oramai gelate aprendole e chiudendole continuamente. Raggruppai i miei fogli e i miei ap-punti più in fretta possibile e senza nemmeno salutare me ne andai da lì.
Il cuore batteva all'impazzata, lo sentivo ovunque. Sulle tempie, sulla punta delle dita, perfino sulla punta del naso. Il fiato era sem-pre più corto, l'aria era sempre meno e, anche se dispiaciuto per la pessima figura, iniziai la mia camminata più lunga di quella mia nuova vita che durò undici chilometri.
Camminavo senza badare al ritmo, alla velocità, senza preoccu-parmi di quale strada prendere, senza pensare a nulla se non alla paura dentro di me, alla paura di svenire, alla paura di avere qualco-sa.
Non avevo un pensiero preciso in mente solo girava e rigirava nel-la mia mente la paura di quello che mi poteva succedere perché sen-tivo le gambe instabili, avevo le mani fredde pur sentendo caldo, il fiato era come un macigno, ogni minimo movimento della testa era un capogiro e un turbinio di vertigini.
Passavo in rassegna tutti questi sintomi e mi chiedevo se potesse-ro corrispondere a qualche patologia, magari un infarto. E mi dispe-ravo perché non avrei mai voluto morire di infarto a 23 anni. Più ci pensavo e più me ne convincevo. Mi vedevo già prossimo alle con-vulsioni o a qualche altro gesto finale che mi avrebbe fermato il cuore.
Mi sentivo male, erano sensazioni reali. Io le sentivo.
Passai diversi anni così. Quelli iniziali furono anni difficili perché dovevo ancora accettare la situazione.
Poi arrivò anche la paura della paura. Vivevo i giorni studiando i luoghi da evitare convinto che quel determinato posto mi avrebbe potuto scatenare quelle sensazioni. Evitavo anche certe situazioni, con chiunque, perché sapevo che mi sarebbe venuto un attacco e quindi avrei dovuto come sempre fuggire in incognita o trovare una spiegazione se mai ne avessi avuto tempo.
Evitavo anche le situazioni in cui non avrei avuto modo di uscire e andarmene agevolmente senza che qualcuno se ne accorgesse. Evitavo ascensori, uffici, aule, discoteche.
Con chiunque non mi fermavo mai per molto tempo per non ritro-varmi al punto di abbandonarle all'improvviso e soprattutto per non fare la figura del malato di mente.»
Mi interrompo. Non ho altro da aggiungere. Mi sento come de-nudato, come se mi avessero tolto l'armatura e chiunque potesse vedermi dentro, per come sono realmente.
Sono consapevole che esiste il rischio di provare quella sensazione perché affidandosi ad un terzo, anche se professionista, resta sem-pre un ‘estraneo' alla tua vita. E per chi vuole custodire o protegge-re i propri difetti, i propri ricordi e i propri tesori, non sempre è faci-le lasciarsi andare.
È come mettere tutto te stesso su un bancone del mercato aperto a tutti e chiunque può dire la sua o comprare la sua parte.
Guardando l'orologio realizzo che dall'inizio della sessione è già passata quasi un'ora abbondante e sicuramente la seduta finirà da lì a poco, così decido di non proseguire oltre e attendo in silenzio un suo gesto o una sua parola che mi aiuti in qualche modo ad uscire da quell'impasse.
«Molto bene Francesco è andato alla grande. Tutto molto preciso e dettagliato. Quando possiamo rivederci?» propone senza togliere lo sguardo da suo blocco appunti.
«Le andrebbe bene per la settimana prossima sempre di giovedì alla stessa ora?» formula la domanda nello stesso istante in cui sto per rispondere alla precedente.
Sfoglio il calendario sul cellulare e confermo la proposta.
«Si nessunissimo problema. Anzi perfetto. Ci vediamo sempre qui alla stessa ora.»
È finito così il mio primo incontro con la Dottoressa e mentre esco non capisco se ne sono soddisfatto oppure no.
Forse sono io che mi aspettavo qualcosa di più?
Magari non in termini di durata ma piuttosto per numero di argo-menti trattati?
Certo ho raccontato molto dei primi episodi, dell'esordio del mio problema e delle mie sensazioni, però mi sembra poco il materiale su cui lavorare.
Nello stesso tempo, però, sono curioso sul come potrebbe aprire la seduta successiva o quali prime conclusioni potrebbe trarre e questo in fondo mi dà una certa serenità come se inconsciamente avessi già riposto piena fiducia il lei.
Sono desideroso di conoscere un mio primo profilo psicologico.
Come un passo nuovo verso la soluzione del mio problema.
Una volta rientrato in ufficio sbrigo le ultime pratiche a conclu-sione dell'ennesima giornata lavorativa.

Fabrizio Visca

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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