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Autore: Giancarlo Messina
Il Viaggiatore - Oltre il velo del tempo
Storico Fantasy
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Il Viaggiatore - Oltre il velo del tempo
Il mattino seguente fui svegliato da dei rumori. Non aprii gli occhi e non mi mossi. Volevo che accadesse come tutte le tante altre volte: facevo un sogno orrendo, poi prendevo coscienza del fatto di aver sognato e, pur conservando una forte sensazione di disagio, un respiro di sollievo mi alleggeriva il cuore. Ero convinto che sarebbe accaduto ancora. Invece aprii gli occhi, restando immobile, e vidi Mondo che stava togliendo la sbarra dalla porta di ingresso. Dio mio! Non era un sogno. Li richiusi. Un chiarore fioco aveva invaso la stanza, una luce tenue e umida. Sentii dei passi pesanti scendere la scala. Era Maddalena: — Ancora dorme — disse più o meno sottovoce. — Si sveglierà — rispose il marito. Io rimanevo immobile, volevo che sparissero, che potessi avere di fronte la mia cabina armadio con le luci a LED comandate a infrarossi. Niente da fare: sentii la donna passare vicino al mio letto e dirigersi verso la cucina, spezzare dei ramoscelli e “tic tic tic” accendere il fuoco che iniziò a sfrigolare ed emanare, checché ne dica Hume, l'inevitabile fumo. Intanto Mondo apriva le altre finestre.
Mi misi a sedere sul letto e salutai:
— Buongiorno — dissi con gli occhi ancora stretti.
— Buongiorno, avete riposato bene? — chiese Maddalena. Poi arrivò anche il buongiorno di Mondo e di Ignazio che era appena sceso.
— Devo essere svenuto dalla stanchezza — risposi. Volevo accennare a pulci e topi, ma pensai che non sarebbe stato troppo carino onorare così i miei ospiti.
— Qui si dorme bene! — affermò compiaciuto Mondo — Niente rumore, giusto qualche topo che gira fra le canne.
Presi la palla al balzo: — Ma non avete paura che vi mordano nel sonno? — Si misero a ridere.
— Sono solo topolini, non demoni. Al massimo vanno a rosicchiare qualcosa e cercano di entrare nelle cassepanche o nello stipo!
— Ma qualche gatto? Non sarebbe meglio tenerlo in casa?
Mondo si rabbuiò e scambiò uno sguardo complice con Maddalena. Che mai avevo detto? Era vietato da qualche precetto religioso a me sconosciuto tenere gatti in casa? Non che io sapessi... forse quelli neri... E poi, a ben pensarci, non avevo visto nemmeno cani, che in quella situazione mi sarebbe sembrata la cosa più normale del mondo.
— Avevamo due gatti e due cani — disse Mondo con voce carica di odio e sguardo truce — fino a qualche giorno fa. Ma qualche figlio di buona donna ce li ha fatti trovare morti.
Maddalena spezzò un ramo con violenza e stizza, come se fosse l'osso del collo del responsabile, e lo mise sul fuoco.
— Mio Dio! — dissi sinceramente colpito — E perché mai?
— C'è qualcuno che ci vuole male, che ha invidia della nostra famiglia, che vorrebbe la nostra casa e la nostra terra — rispose Mondo — ma non ha capito con chi ha a che fare! I miei avi hanno combattuto in Terrasanta, questa terra ce la siamo guadagnata e sudata e nessuno ci caccerà mai da qui.
— Ma chi è che vuole cacciarvi? — domandai.
— È una storia lunga e adesso non c'è tempo. Abbiamo da lavorare. Ve la racconterò un'altra volta. Adesso voglio che facciate una cosa — mi disse infilando le mani in un paniere — prendete queste uova e portatele a Delfo e Pietro, sono già lì. Chiedete scusa e date loro anche questo fiasco di vino. Poi potete tornare qui a fare colazione e a riposare, ché mi sembrate più stanco di ieri.
Mi lavai il viso in un catino in rame con l'acqua fredda appena attinta dal pozzo e, imitando Mondo, la gettai su delle margherite piantate accanto alla casa. Presi le uova e il piccolo fiasco in terracotta, con i manici larghi come due grandi orecchie e il tappo in sughero, e uscii. Fatti una ventina di metri mi fermai per fare pipì: il sole stava sorgendo proprio dietro la rocca lontana del paese. C'era ancora odore di notte, l'aria fresca e umida si colorava di meravigliosi riflessi rosati, mentre il rumore dell'acqua che scorreva luccicante fra le pietre del torrente faceva da sottofondo al canto dei galli e ai muggiti lontani degli armenti. Per un attimo dimenticai le mie disgrazie e pensai che quello fosse davvero un posto splendido e incantato.
Poi l'odore acre degli asparagi nell'urina mi penetrò il naso. Proseguii verso il posto di guardia dove scorsi i due gabellieri che stavano impalati a guardare non so cosa. Appena mi videro si agitarono subito: Delfo sguainò la spada arrugginita mentre Pietro raccolse dei ciottoli dal greto del fiume soppesandoli in mano e pronto a farne uso.
— Pietro, Delfo! — urlai ancora abbastanza lontano — Tranquilli! Vengo per scusarmi! — I due si guardarono e bofonchiarono qualcosa che non sentii.
Continuai ad avvicinarmi facendo ben vedere il fiasco e il panierino contenente le uova e un tozzo di pane nero.
— Cosa volete? — disse Delfo quando fui abbastanza vicino — Non ne avete avuto abbastanza?
— Buongiorno — risposi con tono pacato — sono venuto a scusarmi per ieri e vi ho portato qualcosa per fare colazione. Lo sguardo di entrambi cadde sul fiasco e sul paniere.
— Mmm... — disse Pietro — e che avete lì?
— Un po' di vino... qualche uovo e del pane.
Vidi lo sguardo dei due cambiare di colpo espressione. Un gran sorriso si stampò sui loro volti, Delfo mi sembrò addirittura commosso. Poi cercò di recuperare un po' di aspetto truce:
— Ieri ci avete fatto arrabbiare... eh?
— Sì, vengo per scusarmi, ero stanco, è stata una giornata terribile, scusatemi ancora.
— Certo... certo... — disse Pietro facendo cadere le pietre dalle mani e prendendo il cestino — capita di avere giornate brutte. State sereno, amici come prima, anzi, se dovete passare... poi potete passare.
— Vi ringrazio, siete molto gentili. Buon appetito, eh!
— Grazie, grazie, buona giornata a voi.
— Scusate — aggiunsi — poi potete riportare il cesto e il fiasco a Mondo, per favore?
— Certo, certo, ci mancherebbe — disse Delfo — grazie ancora... e mi raccomando... se dovete passare... non fate complimenti.
Li lasciai indaffarati a decidere se bollire le uova o se berle direttamente dal guscio, ma ebbi la conferma che a quei due il cibo non avanzasse.
Quando tornai alla casa il sole si era già alzato e la stessa cosa avevano fatto Luigia e Venera, mentre gli uomini erano già andati al lavoro. Le salutai ed entrambe mi accolsero con un sorriso. Anche Luigia, che chiamavano Luigina, aveva occhi verdi, carnagione chiara e bei lineamenti, meno perfettamente armonici rispetto alla sorella, ma non per questo meno gradevoli. Aveva fra i venti e i trent'anni e una bella persona, abbastanza alta e florida, per quello che fosse possibile cogliere dalla veste molto ampia. I bambini ancora dormivano e lei stava preparando la colazione. Venera mi si avvicinò sorridente: — Che prendete per colazione? — mi chiese — Noi beviamo il latte e mangiamo un po' di ricotta, ne volete?
— Sì, certo — risposi ricambiando il sorriso e sedendomi a un tavolo di pietra esterno proprio vicino alla porta. Adesso che avevo il tempo e la tranquillità per osservarla bene, alla luce del giorno, Venera mi sembrò di una bellezza davvero stupefacente. Aveva un viso talmente perfetto da risultare impossibile. Nemmeno descrivendola e facendola dipingere al più bravo degli artisti sarei riuscito a ricostruire una bellezza simile; era un prodigio della natura ed era probabile che nemmeno lei se ne rendesse conto. Nel XXI secolo avrebbe potuto essere ricca e famosa solo pubblicando le foto del suo viso su qualche social. I capelli biondo scuro, ancora non legati e lasciati sciolti, le ricadevano sulle spalle e sul petto, fino a coprire i seni; il volto era un ovale perfetto, con zigomi appena pronunciati sopra le guance praticamente piatte; ma la cosa più impressionante erano i grandi occhi, di un emozionante verde profondo, anche questi perfettamente ovali e inclinati verso l'alto, come quelli di una gatta, ma meno distanti, sovrastati da lunghe ciglia più scure. Il naso proporzionato, dritto ma morbido, la bocca seducente come non avevo mai visto prima, almeno senza l'intervento di botulini e siliconi vari di cui, ero certo, la signorina in questione non avesse mai fatto uso: le labbra, con quello superiore perfettamente disegnato, che ricordava le ali di un gabbiano in volo, erano carnose e pronunciate, ma delicate e non volgari. Il labbro superiore, quando sorrideva, le si arricciava graziosamente verso l'alto. Venera si accorse che la stavo scrutando, ma questa volta non ritrasse lo sguardo e mi sorrise ancora mentre versava il latte caldo nella mia tazza, la stessa in cui la sera avevamo bevuto il vino. Poi riempì anche la sua e ci buttò dentro del pane, facendo una specie di zuppa che iniziò a mangiare col cucchiaio in legno.
— Davvero siete un medico, Nicola? — mi disse — o siete solo un cerusico? — rimasi sorpreso dalla domanda e non ne conoscevo la risposta.
— Che differenza c'è?
— Come che differenza c'è? Il cerusico taglia la pancia, toglie i denti, lo possono fare quasi tutti, barbieri, macellai; invece il medico è un uomo che ha una grande scienza e dà le medicine.
— Ah! Allora sono un medico, ma quando serve a salvare una vita anche un cerusico.
— Non ho mai conosciuto un medico fin adesso. Che curate?
— Quello che si può curare.
— A Nicosia c'è solo un medico, ma vuole un sacco di soldi e ci si va solo se serve proprio, oppure ci vanno i nobili. I poveri invece vanno da un saraceno o da un ebreo, oppure vanno da Frate Emanuele, al convento, che dà le erbe. O dalle magàre che tolgono le fatture.
Mentre parlava, Luigina le si accostò con un pettine in osso: — Appena hai finito vieni che ci passiamo il pettine stretto, questi pidocchi mi tormentano! — le disse.
— Ah... queste bestiacce — dissi subito toccandomi i capelli — stanotte non riuscivo a dormire, mi sentivo pungere ovunque! — Le ragazze risero.
— Certo che voi dovete essere abituato a dormire nel palazzo delle fate se vi fanno impressione i pizzichi: — disse Luigina — “Pulci, cimici e pidocchi, pure ai re arrossano gli occhi” lo dice anche il proverbio!
Un pensiero immediato mi balenò in mente. Avrei potuto produrre un insetticida! Pensai a tutto quello che avrebbe potuto significare: migliaia di vite salvate, un fastidio immenso evitato a milioni di uomini per secoli e secoli e, soprattutto, in quel momento, anche una fonte di reddito per il mio sostentamento. Sì, perché ci avevo riflettuto a lungo, io il medico senza medicine, fatte da altri, non lo sapevo fare. Potevo fare una visita ginecologica senza ecografo? Sempre ammesso che fosse ipotizzabile per una donna dell'epoca una visita del genere! Sì, sarei stato in grado di diagnosticare qualche malattia... ma poi? Mica avrei potuto prescrivere un antibiotico sul mio ricettario o prenotare una tac o, peggio ancora, operare! Insomma la mia scienza medica era del tutto inutile. Conoscevo alla perfezione l'anatomia e centinaia di principi attivi e i loro usi, ma dove potevo mai trovarli? Forse però... studiandoci bene... un insetticida sarei riuscito a farlo in qualche modo.
— Oh! Vi siete incantato? — mi disse Venera scuotendomi la manica. Mi resi conto che ero rimasto con un sorriso ebete stampato in viso, del tutto immerso nei miei pensieri.
— No, scusatemi... stavo pensando a delle cose...
— Ci vogliamo spicciare? — gridò da lontano la madre delle ragazze — c'è da pulire la casa, da preparare i bambini, da andare a lavare al fiume, da filare ancora un subisso di lana, da badare alle galline e alle oche... forza, forza, che la chiacchiera è bella ma non riempie la scarsella!
Le due sorelle sbuffarono un po' guardandosi con complicità, poi sorrisero, si misero a sparecchiare e se ne andarono verso casa augurandomi una buona giornata.
Rimasi solo. Cosa avevo da fare? Il mio pensiero corse alla borsa che avevo nascosto, per così dire, il giorno prima. Sapevo dove si trovava e in poco tempo sarei riuscito a ritrovarla. Ma prima avevo un'altra inderogabile urgenza: cicerchie, asparagi e il recente latte avevano giovato alla mia peristalsi e dovevo con urgenza andare di corpo. Ma dove? E soprattutto: con cosa pulirmi? E non era un dettaglio. Non potevo certo andare da quell'angelo in terra di Venera e sussurrarle dolcemente “Venera... come vi pulite il culo nel medioevo?”. Ma qualcosa dovevo escogitare. E alla svelta. Nel dubbio decisi di dirigermi verso il fiume, almeno l'acqua sarebbe stata assicurata. Passando dietro la casa, vidi della paglia che sporgeva dalla stalla, ne presi una manciata, era qualcosa. Giunsi sulla riva del fiume e ne risalii un breve tratto per togliermi dalla strada, poi individuai un'insenatura in mezzo all'erba piuttosto appartata. Mi abbassai le brache, una specie di improbabile calzamaglia che mi ritrovavo addosso, alzai la camicia e mi misi in posizione da discesa libera, ma senza sci e racchette. Sperai che il prodotto interno lordo fosse secco e compatto... era invece piuttosto morbidino, cosa che in altre situazioni sarebbe stata perfetta, ma in quell'occasione ero certo che avrebbe creato ulteriori problemi. Infatti terminata la fase di espulsione passai alla fase di pulitura tramite paglia: un trauma. Sia perché la paglia pungeva, sia perché era tutt'altro che compatta e in parte sfuggiva alla presa rimanendo attaccata alla fangosa peluria perianale. Disperato iniziai ad avanzare, sempre in posizione da discesa libera e con le brache alle caviglie, verso un finocchio selvatico bello frondoso, che mi sembrava più compatto della paglia e più utile ai miei nobili scopi. Lo raggiunsi con non poco sforzo e ne staccai un grosso pezzo: molto meglio della paglia... in un primo momento. Quando stavo quasi congratulandomi con me stesso per l'ideona iniziai a sentire un certo bruciore: quella pianta doveva essere urticante a contatto con la mucosa e l'effetto non aveva tardato ad arrivare. Non avevo altra scelta che andarmi a lavare subito in acqua. Sempre con l'agilità data dalla pastoia delle brache, avanzai fino all'acqua, poi volsi le spalle al fiume e cercai di accovacciarmi in modo da poter lavare le terga senza bagnarmi tutto. L'acqua fredda fu un vero sollievo, l'unico problema era che mi stavo bagnando le gambe e gli indumenti. Quando ebbi finito di lavare e strusciare e mi sentii abbastanza libero e pulito, scorsi in mezzo al fiume un grosso masso soleggiato, alto più di un metro, sul quale avrei potuto posizionarmi per far asciugare non solo il fondoschiena ma soprattutto le brache. Così alzai la calzamaglia alla Superpippo, sentendo sulla pelle la sgradevole sensazione di bagnato, saltai su qualche pietra in mezzo all'acqua e raggiunsi il masso. Qui, pur restando in piedi, mi piegai in avanti, mi abbassai nuovamente le brache e, culo in aria, mi addossai con tutto il corpo alla roccia, il cui tepore mi dava anche conforto. Rimasi almeno una quindicina di minuti in quella posizione a dir poco insolita, finché ebbi la sgradevole sensazione di essere osservato. Mi voltai e in controluce vidi poco distanti Delfo e Pietro. Ci guardammo per una manciata di lunghi secondi, nei loro volti lessi un vuoto pneumatico. Poi li vidi guardarsi fra loro ammutoliti: Delfo si picchiettò la tempia con l'indice, scuotendo la testa, come a dire “questo è pazzo completo”, e andarono oltre.
Mi sentivo umiliato ma mi veniva anche da ridere al pensiero della vista delle mie terga sulla roccia.
Una volta ricomposto tornai verso la casa. Doveva essere passata una buona mezz'ora, se non più. Non avere un orologio fa perdere davvero il senso del tempo, anche se pian piano ci si abitua a guardare il sole e si acquisisce la percezione di quanto manchi al mezzogiorno o al tramonto. Trovai i bambini già in piedi che ruzzavano nell'aia: erano due creature adorabili, perché svelti come la polvere e selvaggi come due volpi, ma anche molto rispettosi. Si arrampicavano sugli alberi o inseguivano le galline, oppure combattevano con le oche, molto più aggressive delle colleghe. Non vedevo più Maddalena e le sue figlie. Così mi sedetti al sole cercando di scaldarmi e raccogliere un po' le idee: mi sentivo ancora dentro un frullatore e non mi capacitavo di quello che mi era capitato. Pensavo in maniera ossessiva a Waitz e ancora mi sembrava irreale trovarmi lì. Ma una vena pratica e realistica mi diceva che compiangermi e adirarmi non mi sarebbe stato di alcun giovamento. Dovevo organizzarmi, cercare di cavarmela, trovare un modo per sostentarmi, perché l'ospitalità di Mondo non sarebbe certo durata in eterno, anche se ero stato davvero fortunato a incontrare lui e la sua famiglia. Ero in potenza l'uomo più colto del medioevo, ma utilizzare e applicare nella pratica le mie conoscenze era tutt'altra cosa. Quella dell'insetticida era un'idea fantastica, ma... come diavolo si faceva un insetticida? Certo mi venne in mente per primo il DDT che, per quanto cancerogeno, aveva avuto un enorme impatto su molte malattie dovute agli insetti. Sapevo benissimo che l'acronimo stava per “Dicloro-Difenil-Tricloroetano”, ma non avevo alcuna possibilità di produrlo nel 1200! Avrei fatto fatica anche in un laboratorio chimico del XX secolo, figuriamo in una masseria medievale! Sì, bisognava lasciar perdere ogni velleitaria idea di produrre sostanze chimiche complesse, almeno nel senso moderno del termine, l'unica speranza era usare qualcosa di disponibile. Cercavo di scavare nella memoria per ricordare qualche principio attivo efficace e reperibile da qualche parte.
Mi ero immerso lungamente nei miei pensieri: il sole del mattino primaverile era un vero godimento e per di più mi finiva di asciugare le brache. Fui però scosso dalle urla di Damiano che correva nell'aia come un pazzo gridando “mamà, mamà!”. Avevo perso di vista i bambini da un po', erano spariti, e non capivo cosa potesse essere successo. Il bambino correva a perdifiato verso la casa da cui subito accorse Luigina trafelata e in allarme. — Talè... talè che trovae! — diceva Damiano. Capivo che “talè” significava “guarda”, riferendosi a qualcosa che aveva in mano, ma dalla mia distanza non riuscivo a capire cosa avesse trovato. Pensai qualche lucertola o qualche cucciolo di volpe o chissà cos'altro. Erano a una ventina di metri da me e non riuscivo a decifrare la scena. Luigina guardava l'oggetto in mano a suo figlio e allungò il viso facendo intendere che non sapeva di cosa si trattasse, ma non sembrava preoccupata. Così, incuriosito, mi avvicinai per capire cosa avesse trovato il bambino e appena fui a una distanza sufficiente mi si fermò il cuore: Damiano aveva in mano il mio revolver! Se lo rigirava fra le mani e guardava dentro il buco della canna, puntandoselo in faccia! Poteva partire un colpo da un momento all'altro! Percorsi gli ultimi metri di corsa e glielo strappai dalle mani stando ben attento a non puntare l'arma verso le persone: — È mio Damiano, è una cosa mia.
Il bambino ci rimase molto male, anche perché ero stato brusco e quasi si mise a piangere.
— Ma sei stato bravissimo a trovarlo — gli dissi accarezzandogli la testa — ti devo davvero ringraziare, sei stato eccezionale, ma dove l'hai trovato?
Damiano, rinfrancato e sentendosi importante per la scoperta, rispose ancora meravigliato: — Qui vicino, sopra un albero, c'era un tascapane con dentro questa cosa e una tavoletta. Ma che è?
Anche Venera era intanto arrivata: — Sì, davvero... che è? — chiese pure lei. Panico: non sapevo cosa rispondere, improvvisai: — È uno strumento per il mio lavoro di medico — dissi assumendo un tono serioso — molto prezioso e importante.
— E a cosa serve? — chiese Luigina
— Eeemmh... serve per guardare nell'orecchio, si chiama otoscopio, ma si può guardare anche dentro la gola o dentro altre parti del corpo.
— E da dove si guarda? — chiese Damiano.
— Si usa così, ti faccio vedere — risposi.
— Aprii il revolver, estrassi il tamburo che era pieno di pallottole, e gli feci vedere che la canna aveva due aperture, da cui si poteva guardare chiudendo un occhio.
— Ecco, vedi, se si mette vicino a un orecchio puoi guardarci dentro — gli dissi appoggiandolo al suo.
— Ma è grosso! — rispose Damiano non del tutto convinto.
— Sì, ma questo non è per bambini — spiegai — è per adulti.
— E a cosa servono quelli? — mi disse indicandomi i proiettili nel tamburo.
— Emh... servono per pulire l'orecchio se è troppo sporco, si infilano dentro e si rigirano un po' — dissi estraendo un proiettile e facendogli vedere la forma appuntita.
— Aaah! — rispose più convinto.
— Vedi, è uno strumento molto prezioso, appena potrò ti darò un grande premio per questa scoperta. Adesso però devi darmi anche quella tavoletta e il tascapane.
— Sì, sì... — rispose Alfio, il fratellino, che aveva seguito tutto con occhi vivissimi e intelligenti — sono sotto l'albero. Vi porto io!
Vidi che anche le donne si erano tranquillizzate e mi sembravano piuttosto divertite e forse un po' compiaciute da quella stranezza. Così insieme ai bambini andai all'albero e qui trovai il tablet e il tascapane. Presi tutto e tornammo in casa.
L'episodio del ritrovamento sembrava ormai archiviato: Damiano e Alfio si erano già rimessi a giocare ai cavalieri e le donne erano tornate alle loro faccende.
Avevo bisogno di un posto in cui analizzare bene il revolver e soprattutto il tablet, ma volevo anche assicurarmi che nel tascapane non ci fossero altri oggetti più piccoli, visto che non lo avevo rovistato a fondo. Così mi allontanai una cinquantina di metri in direzione del bosco, attraversando un orto ben coltivato in cui due uomini stavano zappando. Nemmeno mi videro, così mi inoltrai nella fitta vegetazione finché non raggiunsi una grossa pietra in un luogo del tutto appartato. Mi sedetti sul muschio umido e aprii la borsa. Estrassi per primo il revolver, cercando di focalizzare perché mi fosse sembrato avere qualcosa di strano. Quando lo ebbi in mano con la calma necessaria, mi accorsi che si trattava di un modello cosiddetto “hammerless” cioè con il cane inglobato nel corpo della pistola. Un mio vecchio zio mi aveva mostrato una volta un'arma simile che gli era stata regalata ai primi del '900. Si ricorreva a quell'espediente in modo che la pistola si potesse usare da dentro una tasca, senza correre il rischio che il cane si impigliasse nella stoffa. Era una calibro 38 con tamburo a sei colpi. Tolsi le munizioni e provai il meccanismo, che era perfettamente oliato e funzionante. Quella pistola non sarebbe mai dovuta cadere nelle mani sbagliate, ma soprattutto nessuno avrebbe mai dovuto capire cosa fosse. Io stesso avrei dovuto usarla solo in casi estremi.
Rimisi il revolver nella borsa ed estrassi il tablet: era un modello mai visto, aveva un display non troppo ampio ma non era affatto sottile. Schiacciai l'unico tasto presente e si accese: apparve un testo, lasciato lì proprio per essere visualizzato come prima schermata. Lo lessi così velocemente che dovetti rileggerlo altre due volte prima di capirne per intero il significato. Eccolo qui, lo copio-incollo dall'originale:
“Gentile dottor Montesano, se sta leggendo questo testo vuol dire che è stato abbastanza fortunato e vedrà che le cose da adesso andranno sempre meglio. Voglio scusarmi per averla ingannata, ma avevo capito il suo scetticismo verso di me e sapevo che non avrebbe mai accettato la mia proposta. Come capirà presto, se non lo ha già fatto, ho trasformato anche lei in un “viaggiatore”. Purtroppo la tecnologia portatile da me utilizzata è rudimentale e non mi consente di essere molto preciso su tempo e luogo, quindi non so proprio bene dove lei sia finito, dovrebbe comunque trovarsi intorno alla metà del 1200 e parecchio più a sud rispetto alla Liguria da cui è partito, con una deviazione di 4 o 5 gradi verso est a causa della rotazione terrestre. Potrebbe quindi essere in Sicilia o in Nord Africa, oppure affogato in mare. Ma in quest'ultimo caso lei non starebbe leggendo il mio messaggio.
“Come vede le ho dato il corredo base di ogni viaggiatore, composto da una pistola e questo tablet. La prima è la sua arma di difesa e la sua assicurazione sulla vita. Siamo stati costretti a inserirla nei kit di viaggio poiché quasi la metà dei nostri uomini in Occidente veniva uccisa entro il primo mese. La usi con parsimonia e buon senso, anche perché ha solo sei colpi. Se poi sarà bravo potrà sempre trovare il modo di ricaricarla. Ma veniamo al tablet. Il modello che lei ha in mano è stato sviluppato intorno al 2200; la sua carica, se usata con oculatezza, durerà parecchio, anche un anno, due al massimo. Poi dipenderà da lei, se sarà in grado di trovare il modo di ricaricarlo o meno; a tal fine ho messo nella borsa anche il relativo alimentatore. È il suo bene più prezioso, perché nell'harddrive troverà migliaia e migliaia di pubblicazioni in tutti i campi della conoscenza umana. È una notevole raccolta di tutto il sapere raggiunto dall'uomo fino al XXI secolo. Per la precisione si tratta di 987.000 volumi, un'esagerazione, capisco, ma potrà consultarli secondo le sue necessità. Come ricorderà le dissi durante la nostra chiacchierata, è il sapere che conta. E lei adesso ne è fornito. Questo, unito ai suoi studi, le dà un potere immenso che dovrà solo saper usare.
“Lei si chiederà lo scopo di tutto ciò. È molto semplice: noi viaggiatori siamo spinti da spirito umanitario e crediamo che ogni viaggiatore porti nel passato un miglioramento della società e della vita degli altri uomini, consentendo l'evolversi della tecnologia e quindi mettendo in grado i viaggiatori futuri di realizzare progetti sempre più complessi. Lei nel medioevo non potrà certo costruire un'astronave per la Luna, ma le assicuro che cose da fare ne ha tantissime. E poi lei è un medico... si renderà presto conto di quanto ci sia da fare per l'umanità sotto quel punto di vista.
“Non le rubo altro tempo. Le consiglio però di non esagerare: purtroppo lei non ha fatto il corso propedeutico al viaggio, quindi non ha ricevuto la necessaria formazione. Riassumo il concetto basilare: occorre presentarsi come un uomo geniale del tempo in cui si trova e non come un matto, perché rischierebbe di non avere credibilità e di non poter quindi incidere con le sue invenzioni, oppure di venire ucciso o internato, esperienze non proprio piacevoli. Ah... altra cosa: lei ha a disposizione anche tanti libri di storia, quindi saprà esattamente cosa succederà, chi vincerà una battaglia o quando morirà un personaggio importante. Usi questo a suo favore, ma stia attento a modificare le cose, perché un solo cambiamento le farà perdere questo vantaggio. Se, ad esempio, salverà un personaggio dalla morte, non saprà più cosa gli succederà negli anni a venire e, poiché tutti gli eventi sono concatenati, tutti i libri di storia di cui lei dispone potrebbero essere sbagliati e non sarà più in grado di conoscere gli eventi futuri. Ci sarebbero tante altre cose da sapere ma ormai... Mi dispiace che sia stato mandato un po' allo sbaraglio, ma confido molto in lei, sono certo che farà benissimo. Magari un giorno ci potremo rivedere, chissà... e chissà in che mondo. In bocca al lupo, dottor Montesano. Buena suerte!”.

Giancarlo Messina

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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