Gennaio 2000.
Secondo la teoria dell'eterno ritorno di Nietzsche ogni scelta che compiamo continuerà a vivere oltre le nostre vite, lasciando un segno indelebile nell'universo e nelle esistenze degli altri. Così era stato per quella operata dalla Signora, che viveva nella villa vicino al mare. La sua scelta aveva lasciato una traccia profonda e atroce nella vita della ragazza che, adesso, era seduta di fronte a lei. La stanza era così buia che nessuna delle due riusciva a vedere il volto dell'altra. Nessun tratto, nessuna espressione, nessuno sguardo. Si respirava solo l'odio che dalla ragazza si riversava sulla Signora, senza interruzione né ostacoli, un flusso di corrente elettrica che, attraverso i fili, non portava luce, ma oscurità. L'atteggiamento della ragazza era duro e la Signora, benché non la vedesse chiaramente, ne sentiva addosso tutto il peso. Un macigno opprimente in cui si mescolavano odio e orrore, mentre lei provava ribrezzo per se stessa. A fare da colonna sonora alla scena c'era il ticchettio dell'orologio a pendolo. Tutto sembrava essersi fermato in uno spazio temporale irreale, in cui i minuti trascorrevano lenti come ore. Di colpo, questo teatro immobile si era animato e le due protagoniste avevano preso vita. Con uno scatto veloce, la ragazza si era alzata e, puntando l'indice contro la Signora, l'aveva travolta con la sua rabbia. Dalla bocca, oltre alle parole, uscivano piccolissimi schizzi di saliva, che si posavano sulla gonna nera dell'altra. La Signora tremava e non riusciva a guardarla in volto. Più la ragazza urlava furibonda e disperata e più lei si rattrappiva sulla sua sedia. Non sollevava la testa china, sperava che così scomparisse dalla sua vista per tornarsene, per sempre, da dove era arrivata. “Ecco perché è morto. È solo colpa tua, del tuo egoismo. Dovevi morire tu.” La Signora si era rivista giovane, splendida e ambiziosa. Non era più là e non c'era più quella piccola furia che le vomitava addosso tutto il suo disprezzo. Si trovava nella sua vecchia casa, tanti anni prima, capricciosa e volubile. L'immagine poi si era dissolta e, prepotentemente, si era rimaterializzata quella dell'ospite indesiderata. La dimostrazione in carne e ossa che erano rimaste solo le macerie di quegli anni in cui si era sentita invincibile e padrona del suo e dell'altrui destino. Sempre più ripiegata su se stessa e in balia della ferocia della ragazza, la Signora balbettava, tentava di assolversi. Come se il suo corpo comprendesse l'impossibilità di dare una giustificazione a ciò che aveva fatto, le parole le restavano ferme dentro, intrappolate in fondo alla gola. Come se fossero accartocciate, proprio com'era lei su quella sedia. “Mio padre mi ha detto tutto, mi ha dovuto dire tutto. Come hai potuto farlo?”, la ragazza urlava ancora. Non smetteva e lei si sentiva inerme. Fuggire non era servito a niente, perché adesso tutto era tornato. “Mi fai schifo, mi fate schifo tutti e spero brucerete all'inferno per quello che ci avete fatto.” Queste erano state le ultime parole che la Signora aveva sentito, quando aveva avuto il coraggio di sollevare il capo. Il portoncino bianco e lucido era spalancato e la ragazza era sparita tra i pini maestosi e le bouganville viola. Entrava un vento freddo e tagliente, ma lei non lo pativa, sentiva solo la quiete che tornava. La brezza violenta del mare aveva spazzato via l'incubo e nessuno sarebbe più tornato a chiederle il conto.
Martedì 16 ottobre 2018
“Ma non avevi detto che qua non succedeva niente?” Bianca aveva ascoltato le ultime parole di Adriano, mentre usciva da casa. Il sole l'aveva investita, riscaldandole il viso e le mani. Il sole delle isole era sempre caldissimo, anche in autunno inoltrato. “Bianca, da noi non sentirai mai freddo”, suo padre glielo ripeteva ogni volta che lei cercava di fargli indossare un maglione che lui, prima di uscire, lasciava regolarmente ben ripiegato sulla sedia dell'ingresso. Come sempre, aveva ragione, perché Bianca non aveva mai sentito freddo a San Vittorio Siculo.
C'erano poche centinaia di metri dalla sua casetta di fronte alla spiaggia alla caserma. Da quando era tornata, quattro mesi prima, aveva preso l'abitudine di andarci a piedi. Camminare le piaceva, soprattutto là, nel suo paese, che le era mancato da morire e se n'era resa conto solo ora. Percorrere quelle stradine la riportava a quando era bambina e suo padre l'accompagnava a scuola. Poi proseguiva anche lui per la caserma, dove era stato in servizio fino al giorno in cui un infarto non l'aveva ucciso. Adesso, a distanza di tanti anni, era lei che percorreva lo stesso tragitto, ma senza suo padre e senza la sosta a scuola. Lei e Adriano erano perfetti così, da soli, e non volevano altro. Erano l'una il completamento dell'altro, come erano stati lei e suo padre per più di vent'anni. Arrivata in caserma, Bianca aveva capito che era accaduto qualcosa di grave. Se la telefonata brevissima del Maresciallo Zito l'aveva resa inquieta, non trovare nessuno davanti alla porta le aveva dato la certezza che non sarebbe stata una giornata come le altre. A quell'ora, infatti, c'era sempre l'Appuntato Vassallo che fumava la sigaretta delle 10. Non sgarrava mai sulla sua tabella di marcia: una Marlboro ogni ora, con buona pace dei suoi polmoni. Varcando la soglia, aveva notato subito un silenzio irreale, nonostante gli uffici fossero pieni e ognuno fosse al suo posto. Anche Vassallo era nel suo gabbiotto, ma non l'aveva accolta con il solito sorriso, aperto e buono. Il Carabiniere era seduto là, immobile e pallido. Appena si era accorto di lei, le era corso incontro. Era agitato e si asciugava il sudore dalla fronte con un fazzoletto di carta, ormai ridotto a brandelli: “Buongiorno Capitano, il Maresciallo Zito l'aspetta nel suo ufficio. Sono successe cose brutte, Dottoressa. Brutte veramente”.
Nicola Zito era siciliano da quattro generazioni, ma sembrava un milanese finito per sbaglio in Trinacria. L'aspetto era meridionale, addirittura con qualche tratto arabo: capelli ricci, occhi scuri, barba curatissima e carnagione olivastra. Il suo atteggiamento e modo di lavorare, invece, non lo erano affatto, secondo i soliti luoghi comuni, almeno. Era attento a ogni dettaglio, preciso, rasentava l'ossessione, leggeva e rileggeva indizi, testimonianze, carte, appunti. Questo faceva imbestialire Bianca, che si affidava più all'istinto che al ragionamento metodico. Si compensavano e, per questo motivo, tra loro era nato subito quel feeling che non sempre due persone riescono a creare. Era entrata nel suo ufficio e anche Zito, come Vassallo, era molto turbato. Non era pettinato con la solita cura, i ricci neri erano fuori posto e la finestra dietro la sua scrivania era spalancata. Sembrava che avesse bisogno di respirare, come se si sentisse soffocare e avesse l'urgenza impellente di ingoiare l'aria fresca che veniva dall'esterno. Bianca si chiedeva cosa poteva essere accaduto di così terribile da sconvolgere l'imperturbabile Zito. Non era mai successo niente di grave a San Vittorio, neanche quando il Maresciallo era suo padre. C'era più da fare in estate, quando il paese veniva invaso da migliaia di turisti, soprattutto da vent'anni a questa da parte, da quando tutto il mondo aveva scoperto le incantevoli bellezze del posto. Il Capitano lo guardava disorientata e l'unica domanda che le era venuta in mente in quel momento era stata “Stai bene?”. Lui, però, l'aveva ignorata e le aveva fatto cenno di sedersi. Aveva obbedito, senza dire altro. Prima di aprire bocca, Zito le aveva messo davanti due fotografie. I soggetti erano gli stessi e, in entrambi gli scatti, erano vicini. In uno erano seduti in un giardino, sorridenti. Nell'altro erano in un letto, accanto, morti. “Chi sono?”, aveva chiesto Bianca, senza sollevare lo sguardo dalle foto. “La donna era Emma Lattanzi Finetti e la ragazza si chiamava Alina, era la sua dama di compagnia. Non sappiamo altro di lei.” Finalmente aveva sentito la voce di , dopo interminabili minuti in cui sembrava perso chissà dove. Temeva, però, che ritornasse in quello stato di strano smarrimento, che non riconosceva in lui, sempre presente e attento. Così aveva ripreso con le domande. Voleva sapere ogni dettaglio e subito. “La vedova del costruttore?”, l'attenzione del Capitano era ritornata sulla Signora, che non era una donna qualunque. “Sì”, aveva risposto Nicola con voce funerea.
Edoardo Lattanzi Finetti, ricco imprenditore romano trapiantato a Firenze, un po' meno di vent'anni prima si era trasferito in paese con la moglie, dopo la morte del loro unico figlio, avvenuta nel 1998. I coniugi erano molto riservati e quel dolore, che si erano portati dietro, li aveva tenuti lontani da tutti. Avevano acquistato una splendida villa vicino al faro, immersa in un rigoglioso giardino, che la teneva celata ai locali e ai turisti. Nel giro di pochi anni, Edoardo aveva costruito un impero fatto di appartamenti, ristoranti e alberghi. Aveva capito subito le potenzialità turistiche di quel meraviglioso borgo marinaro, che negli anni era diventato una delle località più amate dai turisti di tutto il mondo. A quel tempo, però, Bianca era già scappata a Roma e ricordava poco della coppia e di come lui avesse contribuito al cambiamento del paese e dei suoi abitanti. Da pescatori si erano trasformati in albergatori e ristoratori, pronti a soddisfare tutti i desideri dei turisti che arrivavano sempre più numerosi ed esigenti. Con il passare del tempo i paesani avevano scoperto qualcosa di più sulla morte del giovane Lattanzi Finetti. I particolari erano pochi, ma si bisbigliava che fosse morto suicida e non di morte naturale, come avevano creduto tutti quando Edoardo aveva fatto costruire la maestosa cappella di famiglia per conservare le spoglie del figlio. Lui ed Emma si erano illusi di aver superato quella tragedia ma, in realtà, la loro vita era già finita quando erano arrivati in Sicilia. Dopo pochi anni, poi, Edoardo era morto, lasciando la moglie ricchissima e ancora più sola di quanto già non fosse. “E sei mesi fa è spuntata questa Alina, a fargliela trovare è stato Don Luigi.” La voce profonda di Zito aveva aggiunto l'ultimo pezzo alla storia che il Capitano conosceva, ma solo fino all'arrivo di questa ragazza. Bianca aveva capito che non poteva trattarsi di un semplice furto finito male e che Alina doveva avere un ruolo determinante in tutta la vicenda. Da qualche secondo, infatti, il Maresciallo teneva l'indice, affusolato e abbronzato, sul viso lentigginoso della ragazza. “La dolce Alina, così appariva a tutti, anche a me, nelle poche occasioni in cui l'ho vista in giro, l'ha avvelenata e si è sparata un colpo alla tempia. E ha avuto anche la gentilezza di lasciarci un biglietto”. Zito, con un sorrisetto sarcastico ma preoccupatissimo, le aveva messo davanti un'altra foto, mentre cercava di ravvivarsi i capelli scompigliati. Un foglio bianco con la scritta “L'inizio e la fine dell'orrore”.
(“Ma che significa? Aveva ragione Vassallo a essere così angosciato. Bianca, stai calma!”)
Nicola e Bianca erano arrivati alla villa di Emma. Immersa nel verde dei pini e nel viola delle bouganville, sembrava nascosta in una sorta di giardino segreto, da cui era impossibile uscire una volta entrati. Si scorgeva solo dopo aver percorso qualche decina di metri dal cancello d'ingresso. C'erano carabinieri, agenti della scientifica e Teresa Spanò, il medico legale che, quella mattina, avrebbe preferito essere a casa sua, piuttosto che davanti a due cadaveri. Tutti erano visibilmente agitati e ansiosi di capire al più presto cos'era accaduto la notte prima. L'umore tetro del medico legale, se possibile, traspariva ancora di più del consueto. “La camera da letto è là in fondo”, il Maresciallo aveva quasi spinto Bianca, che continuava a guardarsi intorno, tentando di fissare nella memoria più dettagli possibili. Lui, che aveva già fatto un primo sopralluogo, era rimasto sulla porta, mentre il Capitano, schivando gli agenti che raccoglievano reperti, era entrata nella stanza e si era avvicinata al letto. La testiera era di legno scurissimo e intarsiata con figure di foglie e fiori, doveva essere un pezzo molto antico e costoso, come lo erano tutti gli altri mobili della villa. I due cadaveri appoggiati sulle lenzuola immacolate sembravano già pronti per la veglia funebre. Non era così, però, perché sarebbero passati alcuni giorni prima che i corpi fossero restituiti alle loro famiglie per celebrare i funerali. Bianca aveva dato un'occhiata rapida al comodino, dove c'era ancora il vassoio con la tazza vuota e la ciotola del miele con un cucchiaino dentro, e subito dopo aveva guardato Alina che, a differenza di Emma, non era distesa, ma seduta, con le gambe sul letto e la testa reclinata verso la donna. Il venticello, proveniente dal terrazzino, le muoveva un po' i capelli biondi che le ricadevano sul viso. Lo sguardo del Capitano, poi, era passato sulla pistola, caduta sul letto, e sul biglietto attaccato alla camicia da notte di Emma, proprio quando un tecnico della scientifica lo stava prendendo per conservarlo in una piccola busta di plastica. Nel frattempo si era avvicinato il Maresciallo che, in piedi nel corridoio, aveva seguito tutti i movimenti del suo capo. “Le ha trovate il giardiniere, è fuori. Vieni.” Mentre percorrevano il grande salone che portava fuori sul portico, Bianca si era accorta di una foto, che ritraeva la famiglia Lattanzi Finetti al completo: Edoardo, Emma e il figlio al centro. Probabilmente era una delle ultime immagini del ragazzo prima che si togliesse la vita. “Come si chiamava il figlio e si sa perché si è suicidato?”, aveva chiesto a Zito mentre uscivano dalla casa. “Si chiamava Federico, aveva un ristorante alla moda a Londra. Le voci di paese raccontano che ci sarebbe stata una litigata tremenda con i genitori e che lo abbiano trovato impiccato nel suo appartamento. Nessuna spiegazione, nessun biglietto.” “Dobbiamo capire qualcosa di più anche su questo suicidio. È lui il giardiniere?”, Bianca aveva indicato un signore anziano con il viso bruciato dal sole e, senza aspettare la conferma, si era avvicinata. Era seduto su una sedia nel portico, che era invaso da foglie e fiori trascinati dal forte vento della notte precedente. Accanto a lui c'era un carabiniere che, chiamandolo affettuosamente zio Nino, gli stava mettendo un cerotto sulla mano destra per coprire un taglietto. Il giardiniere era sotto shock, singhiozzava e batteva i pugni sui pantaloni di velluto. Apriva e chiudeva le mani ripetutamente, come se stesse giocando a uno di quei giochi che i bambini fanno con le dita. In realtà, però, cercava solo di trovare pace o, forse, di punirsi per non essere riuscito a impedire tutto quello che era accaduto. “Buongiorno, sono il Capitano Giusti. Mi dice cos'ha visto, per favore?” e si era abbassata sulle ginocchia, per far sentire l'uomo a suo agio e meno spaventato di quanto già non fosse. Lui la fissava con gli occhi sbarrati e, farfugliando, aveva raccontato cos'aveva scoperto. Come tutte le mattine era arrivato alle 6 per sistemare il giardino che, da quando la Signora aveva problemi di vista, era curato da lui. “Il cancello era aperto, sono arrivato fino a qua e pure u purtuneddu era aperto, ma a Signura non c'era fora. Non ci vedeva bene, ma ci piacia taliare chiddu chi facia io”. Zio Nino sembrava un po' più tranquillo. Dopo essersi guardato la mano incerottata, aveva ripreso il racconto. Aveva iniziato a togliere i rami spezzati dal vento quando, a un tratto, aveva sentito il telefono squillare a vuoto per un po' finché non aveva smesso. Nessuno aveva risposto. “Capivu subito che c'era qualcosa di strano e, anche si era scantatu morto, mi avvicinai a casa e vitti chi u telefono era supra u dondolo, fora”. Come un bambino, aveva ripreso a piangere. Bianca era sempre in ginocchio davanti a lui. Lo aveva imparato da suo padre, che le diceva sempre: “Quando devi interrogare una persona anziana, anche se è il peggior criminale, devi portare rispetto. Mettiti sempre alla sua altezza, questo non sminuisce il tuo ruolo, anzi lo rafforza.” Lo zio Nino aveva raccontato che aveva avuto un brutto presentimento e si era diretto subito nella camera da letto di Emma. Aveva capito immediatamente che Alina era morta, perché aveva visto il sangue sul lenzuolo e la pistola sul letto. Si era avvicinato, sperando che almeno la donna fosse viva ma, appena l'aveva toccata, la sua speranza si era spenta. Era gelida. “E poi appiccicato alla sottana da Signura c'era quel foglio... u biglietto. Ma che significa?” Bianca aveva evitato di rispondere e si era alzata. Dopo aver ringraziato il vecchio giardiniere, gli aveva fatto un'altra domanda “Ha notato qualcosa di diverso?” “A buttigghia vicino u dondolo, qua”, indicando il punto dove l'aveva vista, ma là non c'era più. Bianca aveva guardato Zito con aria interrogativa e lui le aveva fatto un cenno che significava “poi ti spiego”. “Va bene, sa dirmi se era una bottiglia che era in casa?” “Se, se... una di chidde du saluni.” Lei l'aveva salutato e stava per rientrare in casa, quando aveva notato, di nuovo, la mano con il cerotto. “Cos'ha fatto alla mano?” “Un truvavu u guanto e mi tagghiavu. Sicuro u ventu di stanotte su purtò.” “Grazie zio Nino, stia tranquillo e torni a casa.” Lui era rimasto là, senza rendersi conto di come poteva essere successo tutto questo proprio a lui.
Bianca era tornata in camera da letto, dove c'era Spanò, che scriveva qualcosa mentre osservava le vittime. Sentendola alle sue spalle si era girata e, senza neanche salutarla, le aveva comunicato cos'aveva potuto capire dai primi rilievi. Il medico legale, infatti, non parlava ma si limitava a comunicare, era l'atteggiamento che riservava a chiunque, non solo a lei. Per Teresa Spanò era tutto abbastanza chiaro: verso le 10 di sera Alina aveva avvelenato la Signora, versando l'intero flacone del sonnifero che prendeva con il suo latte caldo ogni sera. Le aveva posato il messaggio sulla camicia da notte, si era seduta accanto a lei e, dopo due o tre ore, ancora non poteva stabilirlo con precisione, si era sparata un colpo in testa con l'unico proiettile che c'era nella pistola. Aveva ventilato l'ipotesi che la ragazza fosse ambidestra, perché si era sparata con la destra e sembrava avesse aperto il sonnifero con la sinistra. Infine, aveva comunicato che avrebbe riferito maggiori dettagli solo dopo le autopsie ed era andata via. Ancora una volta, senza salutarla e con lo sguardo torvo.
(“Come si fa a essere così stronze? Questa idiota non si smentisce mai, neanche davanti a due cadaveri”)
Intanto Zito l'aveva raggiunta per dirle che nella villa, secondo il giardiniere e la cameriera di Emma, prelevata da casa sua per dare un'occhiata in giro, era tutto in ordine. Mancavano solo la bottiglia del salone e il cordless, entrambi erano fuori. “Adesso andiamo, ho convocato Don Luigi, ci sta aspettando in caserma.”, e senza attendere la risposta di Bianca era uscito dal portoncino bianco spalancato.
Patrizia Gariffo
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