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Autore: Cristina Bosco
Distinguere un sorriso da un velo
Narrativa
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Distinguere un sorriso da un velo
Fisso con occhi vacui la porta grigia di fronte a me da ormai dieci minuti.
Non ho il coraggio di entrare. Non sono pronta. Ho paura di quello che vedrò, di quello che sarà. Nessuno ti offre il libretto delle istruzioni, né tantomeno il foglietto illustrativo con gli effetti collaterali degli avvenimenti. Di fronte a certe situazioni ci sei tu e, se sei fortunato, qualcuno con cui affrontarle.
Il momento tanto atteso è arrivato. Cerco il numero in rubrica. Mezzo minuto dopo la fredda porta grigia si apre con uno scatto. Un vortice di nuove responsabilità sta per inghiottirmi e io non so se ne uscirò sconfitta o vittoriosa.

Capitolo 1

Un puntino minuscolo, quasi impercettibile alla vista umana, è quello che si vedrebbe dall'alto, se qualcuno sorvolasse a bordo di un qualunque mezzo volante l'area dell'Italia dove sono nata. Si tratta di una piccola frazione del comune di Carmagnola, al confine tra la provincia di Cuneo e quella di Torino. Tutto attorno a quel puntino campi, campi e ancora campi interrotti qua e là da qualche abitazione. Sono cresciuta a strettissimo contatto con la natura e quella che io chiamo casa è più precisamente una cascina, una struttura agricola tipica della Pianura Padana. Non è, come si potrebbe pensare, una casa di campagna ricevuta in eredità da chissà quale lontano prozio o bisnonno, ma una vera cascina, cuore pulsante di un'azienda agricola capitanata da mio papà Alessandro. La mia famiglia paterna è composta esclusivamente da generazioni di agricoltori e allevatori. Appena compiuti i diciotto anni papà ha deciso di seguire le orme di mio nonno e grazie al suo fiuto per gli affari, a un'indecifrabile voglia di lavorare e al grande desiderio di ingrandire e modernizzare l'azienda, in pochissimi anni si ritrovò con un allevamento di duecentotrenta bovini da latte di razza frisona. Di pari passo si aggiunsero circa duecento giornate coltivate a mais e grano.
Le prime cose che i miei occhi hanno visto da quando sono venuta al mondo sono immensi campi di mais, prati verdissimi e strade sterrate; i primi suoni uditi dalle mie orecchie sono il rumore di un trattore in moto, il muggito dei bovini, il suono ritmico e assordante del processo di trasferimento del latte dall'enorme tank della stalla alla cisterna refrigerata del camion dedicato al suo trasporto, due volte al giorno. I primi profumi che il mio naso ha percepito sono l'odore della terra riscaldata dal sole o bagnata dalla pioggia, dell'erba appena tagliata, del fieno, dell'insilato di mais e quello pungente del letame. Le prime parole che ho pronunciato, oltre a mamma e papà, sono state in dialetto piemontese, praticamente il mio unico mezzo di comunicazione fino ai sei anni.
Mio papà non è mai stato l'unico a condurre l'azienda, e non lo è tutt'ora. Tutta questa mole di lavoro è impossibile da gestire da una sola persona e infatti ha potuto contare fin dall'inizio sul prezioso aiuto di un suo cugino, oltre a quello di nonno Domenico, e più recentemente anche di Skaily, un giovane indiano. Questo ha consentito a mio papà di staccare un po' la spina da un lavoro durissimo fisicamente e mentalmente, che ti assorbe sette giorni su sette ed è pieno di imprevisti a cui devi saper rapidamente porre rimedio, primo fra tutti il fattore meteo, il quale in mezza giornata può rendere un intero raccolto di bassa qualità o addirittura inutilizzabile, di coltivare le sue passioni, di trascorrere del tempo con i suoi figli e anche di fare una vita piuttosto agiata, organizzando vacanze con la famiglia e gite fuori porta a bordo della sua Honda NX 650 Dominator.
I miei genitori sono nati nella stessa frazione e si conoscono dai tempi dell'asilo, ma crescendo tutto cambiò e durante l'adolescenza intrapresero strade molto diverse. Infatti mamma Paola dopo il liceo classico si iscrisse alla Facoltà di Architettura, e tra le lezioni e la preparazione degli esami aveva ben poco tempo per uscire con gli amici e anzi decise anche di lavorare come barista in un locale della zona nel fine settimana, per mantenersi almeno in parte gli studi. Quando non studiava, lavorava e perciò, per anni i miei genitori ebbero pochissime occasioni di incontrarsi. Il destino però ci mise lo zampino e fece sì che le loro strade così parallele tra loro si incontrassero nuovamente. Nel gennaio del 1983 papà pensò di ristrutturare parte dell'azienda costruendo una stalla nuova e un capannone per mettere al riparo dalle intemperie i suoi raccolti e decise di affidare la gestione dei lavori proprio alla mamma, all'epoca appena laureata. Lei accettò e questo comportò interi pomeriggi a discutere e confrontarsi con papà su come realizzare nel dettaglio i vari progetti, quali modifiche apportare e come contenere i costi della costruzione delle nuove strutture. Dai pomeriggi si passò alle cene, a telefonate sempre più frequenti fino a quando lui, un freddo giorno di marzo, fissò mamma dritto nei suoi occhi color grigio-azzurro, le prese le mani
tra le sue e le dichiarò il suo amore ufficializzando il loro rapporto. Adoro ascoltare com'è nata la loro storia d'amore ed è meraviglioso percepire l'emozione nelle loro voci mentre raccontano il vero e proprio colpo di fulmine
che è scattato tra di loro appena si sono rivisti, e rendersi conto che un sentimento forte e vero, prima o poi, trova il modo di impossessarsi delle vite
che ha prescelto e di farsi spazio con qualunque mezzo. Il 24 settembre 1984 i miei genitori si giurarono amore eterno davanti a Dio e a circa duecento persone tra amici e parenti più o meno felici di festeggiare la loro unione. Sì, perché molti degli invitati avevano scommesso che non sarebbe durata tra di loro: “Troppo diversi”, “Non hanno nulla in comune”, “Si sono sposati dopo neanche un anno di fidanzamento”. E invece hanno superato i trent'anni di vita insieme, sicuramente non senza difficoltà, soprattutto con l'arrivo di tre figli. I miei genitori si stabilirono nella frazione dove sono nati e si fecero costruire un'enorme casa su due piani con un immenso giardino, il cui progetto fu ideato e realizzato totalmente da mamma, la quale poté esprimere tutta la sua creatività.
L'unica nota dolente di tutto questo è l'amarezza di mio papà nell'apprendere, una volta cresciuti, che nessuno dei suoi figli avrebbe preso in mano, anche solo parzialmente, le redini della sua adorata azienda. Avevamo tutti e tre altri progetti ed era giusto che ognuno di noi provasse a realizzarli. A parte questo, entrambi i nostri genitori sono soddisfatti del nostro percorso di crescita. Durante gli anni più complicati per lo sviluppo psicologico di un figlio non abbiamo dato loro motivo di preoccupazione grave, fatta eccezione per qualche sbronza e piccoli danni alle auto durante la nostra guida non sempre responsabile.
La Lavinia adolescente è stata una che al giorno d'oggi sarebbe definita dai compagni di classe, in una parola, una “sfigata”. Ho sempre trovato più interessante leggere un libro piuttosto che passeggiare con le amiche con il solo scopo di farsi notare da qualche ragazzo. A tal proposito mia sorella non perde occasione di prendermi in giro perché ho passato l'intera estate tra la terza media e la prima superiore a leggere Via col vento, mentre per me è stato uno dei periodi più emozionanti. Ancora oggi, come all'epoca, non seguo con particolare interesse la moda, vedo un parrucchiere tre volte all'anno per dare una sistemata ai miei capelli mossi che porto rigorosamente lunghi, e non ho mai pensato di cambiare il loro colore castano chiaro naturale. Ho iniziato a truccarmi a diciannove anni, ho scoperto l'esistenza dell'estetista a venticinque e non ho mai fatto il semipermanente alle unghie. Ovunque mi trovi, passo del tutto inosservata, non sono di certo una di quelle che la gente si gira a guardare mentre cammino per strada, ma tutto questo non è e non è mai stato un problema per il mio stato di salute mentale. In piena fase adolescenziale non ho sofferto un giorno perché non avevo la fila di ragazzi che smaniavano per uscire con me. Ritengo che ciascuno di noi abbia qualità ben più importanti dell'aspetto fisico e di conseguenza, ho sempre avuto la ferma convinzione che il ragazzo giusto avrebbe notato e apprezzato proprio gli aspetti più profondi della mia persona, quelli che a prima vista non si vedono, quelli che bisogna fare un po' più di fatica per scovare e soprattutto serve molta pazienza per far sì che la persona in questione decida di mostrarteli. Una sera, durante uno di quegli incontri di formazione con ragazzi della tua stessa età, al quale se vivi in un paesino sei praticamente obbligato a partecipare dalla cresima fino ai sedici anni, gli animatori ci chiesero di dire quale fosse, secondo ciascuno di noi, la migliore qualità di uno dei ragazzi presenti nella stanza, dopo averne estratto a sorte il nome. Il caso volle che toccò ad un mio compagno delle medie esprimere quel giudizio su di me. Era un ragazzo molto singolare, eccellente nel disegno artistico e molto intelligente, ma che non riusciva a concentrarsi per più di dieci minuti consecutivi sulla stessa cosa. Non so per quale motivo i professori avessero deciso di affibbiarmelo come compagno di banco, quello che so è che era diventato il mio vicino fisso per almeno metà dell'anno scolastico. Ebbene, quella sera quel ragazzo perennemente sulle nuvole, disse che secondo lui la mia migliore qualità è saper ascoltare gli altri. Aveva ragione. Ascoltare è quello che faccio quando mi ritrovo davanti a situazioni complicate, sono come una valvola di sfogo per gli altri e ammetto che mi piace anche esserlo. Preferisco ascoltare, osservare, stare in disparte piuttosto che parlare e mettermi in mostra. Forse, entrare in contatto con persone particolari mi ha aiutato a sviluppare ancora di più questo aspetto della mia personalità e ha accentuato la mia sensibilità. Quelle parole su di me non fecero altro che potenziare la mia convinzione che le migliori qualità di ciascuno sono dentro di noi ed emergono esclusivamente con il nostro comportamento, e che l'aspetto esteriore ha il solo scopo di fare da involucro alla
vera sostanza. Un nuovo anno è iniziato. Non è un anno qualunque. È il 2015, in cui spengo trenta candeline e per me è una vera tragedia. Divento grande, matura e responsabile, in teoria, in pratica non è cambiato nulla rispetto a sei anni fa quando mi sono laureata. Credevo che con l'inizio del lavoro avrei affrontato moltissimi nuovi entusiasmanti cambiamenti e invece, la mia vita è rimasta pressoché uguale. Da tempo, a Capodanno esprimo desideri che stentano a realizzarsi nel corso dell'anno, nemmeno in piccola parte. Forse dovrei smettere di pensare troppo a come dovrebbe essere la mia vita e accettarla invece così com'è. Anche quest'anno, appena diciassette giorni fa, sotto il cielo stellato di uno dei luoghi che amo di più illuminato dai fuochi d'artificio, mano nella mano con il mio fidanzato, ho espresso un desiderio, ma stavolta solamente uno. È il più importante per me e magari questo è l'anno buono. O forse no...

Cristina Bosco

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