Un nuovo volto – Punto congiunto n. 1 15 Dicembre 2017 – h. 11:11
Le luci fredde dei neon, sul soffitto, sfrecciano ad alta velo-cità come in una buia galleria autostradale. Trasportato da una barella perdo il senso di marcia, l'orientamento della mia vita, sballottato avanti e indietro nei corridoi, su e giù per i monta-carichi. Un corpo alla deriva di un fiume, verso una meta sco-nosciuta. Devo solo lasciarmi andare, trasformarmi in una bu-sta di plastica e seguire la corrente. A un tratto mi fermano di fronte a una porta. Il destino sospende per un attimo la sua corsa. Vengo parcheggiato fuori dalla sala operatoria, nell'attesa che tutto abbia inizio. Arriva l'infermiere e mi mette un ago d'ac-cesso sull'avambraccio, una sorta di porta usb con il mondo delle sostanze, quelle che altereranno il mio stato di coscienza, la percezione del dolore in quegli attimi insostenibili. L'ane-stesista si avvicina, mi fa un sorriso, con il dorso della mano mi accarezza delicata la fronte, mentre l'assistente del chirur-go mi comunica che il Prof. è in leggero ritardo, ma che sta per arrivare. Mi auguro che abbia un piccolo contrattempo, giusto per rimandare. Ma poi, a cosa servirebbe? Non posso fuggire, devo solo affrontare e sperare che tutto vada bene. Intorno, un andirivieni di infermiere che ridono, scherzano, sembrano pre-pararsi a una festa: la mia. Ed ecco il Prof., alto e sorridente, gioviale, rassicurante. Studia il mio volto, lo manipola, tira la pelle elastica. Estrae un pennarello rosso dal taschino della ca-sacca verde e inizia a disegnare sulla mia guancia un tracciato che sembra non avere mai fine, delineando i confini di un con-tinente al quale dichiarare guerra. E poi, prosegue ancora, giù per il sottomento, compiacendosi di aver scoperto della “cic-cetta” da utilizzare. Per un attimo benedico tutte le schifezze mangiate. L'assistente studia con attenzione quell'intermina-bile nota sul mio viso, in silenzio. La guardo fissa, nei grandi occhi sgranati che lasciano trapelare qualcosa che sembra dire: “Dio Santo!”. Il cuore inizia a correre. Un maratoneta che teme di non arrivare mai più al traguardo. – Adesso le faccio una bella foto, – dice il Prof. Spero che non debba mai servire per la mia lapide, penso io, considerando che, con tutto quel pennarello rosso, bistra-to in quel modo, potrei suscitare nei benpensanti ambiguità e pensieri del tipo: Chi lo avrebbe mai detto... non sembrava una drag queen. Dopo lo scatto si riparte. Sbloccano le ruote e via, verso la stanza della luce. Mi acchiappano in due, uno da sopra e l'altro da sotto, e mi sbattono su di un tavolino operatorio, talmente stretto che la prima cosa che mi chiedo è se dovrò restare lì, per tutto il tempo, in un equilibrio rigido, precario, aggrappato nel tentativo di non scivolare via dalle mani del chirurgo, pro-prio nel bel mezzo dell'intervento. Poi, mi collegano al tubi-cino delle sostanze, agli elettrodi cardiaci, e allo sfigmometro che in quel momento, più che la pressione arteriosa, dovrebbe misurare il livello di sfiga che mi ha portato lì, in quella con-dizione. Concluse tutte quelle procedure, vengo trasformato in una sorta di baco da seta avvolto da teli verdi, probabilmente perché non vogliono che me ne vada. Mi circoscrivono anche il volto, che spennellano con del disinfettante ambrato, dall'o-dore pungente, e mi vengono in mente le fasi preparatorie del-le mummie dell'antico Egitto. Tutto si riferma. Mi accendono a massima potenza la luce in faccia, e quel piccolo spicchio di mondo che riesco ancora a percepire si sovraespone in dissol-venza, perdendo dettaglio, varcando le porte dell'irreale, mentre vengo lasciato lì, a decantare le mie paure. Ricompare il Prof. che dopo un paio di battute, che non riesco ad afferrare bene, dà il via all'anestesista dicendogli però di lasciarmi cosciente, perché dovrò collaborare. Mi domando: A fare cosa, che ca-volo dovrò mai fare dall'interno di questo bozzolo? Avverto il bip del monitoraggio cardiaco diventare quello di un cicli-sta al traguardo, mentre io, invece, sono ancora alla partenza. A sorpresa l'anestesista mi spara una raffica di punture sulla guancia, che, in una decina di minuti, me la fanno percepire come un pezzo di carne congelato, comprato al supermercato sotto casa. Ogni tanto si affaccia una voce femminile che mi chiede come sto, e per un attimo ho la sensazione di ascoltare una hostess prima del decollo: – In bocca al lupo caro! – mi augura. – Si salvi pure lui, cara, – rispondo sillabando, sconnesso. E poi ritorna il Prof., e capisco che tutto sta per avere inizio, per la settima volta. Eh sì, perché sono al settimo intervento, alla settima recidiva non risolta, ma ora, grazie a Veronica e Andrea, sto in buone mani. – Sorrida! – dice lui. Penso che sia una battuta, e faccio un sorrisino per compiacerlo, come per dire: “Ma in tutto questo, che minchia ci sarà da ridere?”. – No, sorrida bene... mi serve per poter procedere con maggiore precisione, per non ledere i muscoli facciali. Allora mi trasformo in una stupida emoticon felice, disposto a collaborare a oltranza, mentre avverto una sensazione strana, lacerante, sanguinolenta. La percezione di ciò che sta accadendo è nitida: ho la consapevolezza di un branzino che sta per essere sfilettato vivo da uno chef giapponese. Il bisturi sta asportando mezza guancia dal mio viso. Il Prof. vedendo che continuo a sorridere come un imbecille mi dice: – Bene, ora può bastare! – e poi fa un cenno all'anestesista. In qualche secondo sento salire la sostanza, magnifica, liberatoria, alla quale mi aggrappo con tutto me stesso per farmi portare via da quella situazione, da quel trapianto di volto, magari lontano nel tempo, prima che tutto avesse inizio.
– La madre basca – Punto congiunto n. 2
Ho avuto due mamme. Una mi ha messo al mondo, e l'altra me lo ha regalato. Francisca mi partorì il 10 agosto, la notte di San Lorenzo, mentre fuggiva dai suoi fantasmi, dalle sue ossessioni, dai suoi conflitti irrisolti. Le acque le si ruppero mentre cercava di recuperare, con ostinata caparbietà, il bagaglio a mano incastrato all'interno di una cappelliera di un DC9 proveniente da Zurigo, atterrato all'Aeroporto Città di Torino. Decise che il mio nome sarebbe stato Javier, non curante del fatto che avrei trascorso gran parte della vita a spiegare al mondo che si scrive Javier, ma si pronuncia Havier, con un'acca aspirata a cartavetro sulla faringe. Era nata il 9 settembre del 1930 a San Sebastián, nei Paesi Ba-schi, nell'anno della scoperta di Plutone, classificato dagli astrofi-sici del tempo come il nono pianeta. Da bambina tutti la chiama-vano Paquita, in ricordo del piccolo fratellino affogato in mare in una giornata di festa, vestito da marinaretto, all'età di nove anni. Il padre, Imanol Aramburu, si definiva un pescatore di lusso. Pescava solo per i ricchi villeggianti che adoravano trascorrere le vacanze sulla spiaggia de La Concha, una delle più ambite nel-la Belle Époque. A volte, quelli che pagavano meglio, li portava con sé su Libertad, la sua preziosa barca da pesca, la sua vera di-mora. Amava quel fasciame e quei listoni in teak color cannella più della sua famiglia. Uno smack yacht di nove metri dalle vele rosso ocra, vinto a carte a un nobile inglese rifugiato in Spagna, inseguito dai debiti di gioco. Finita la pesca, prima di rientrare, sul ponte preparava per i suoi ospiti una paella alla basca, la mi-gliore, diceva lui. Una follia di sapori che sotto a una tempesta di riso unisce terra e mare. Guadagnava bene nonno, ma non si preoccupava minima-mente di sua moglie e dei suoi quattordici figli, sette femmine e sette maschi. Li faceva vivere in un surrogato di casa ricavato da una rimessa di barche abbandonata, con i letti a castello in legno corroso dal mare, vecchie reti a mo' di amaca, e per mobilia nicchie scavate nella roccia calcarea. – Un anarchico non può avere legami, deve lottare in solitudine per conquistare la propria libertà, cosa se ne fa di una famiglia? – diceva nonno Imanol fra ideologia e alibi. L'altro suo grande amore era il Mosin-Nagant, un fucile russo che un anarchico fuggito da Mosca, dopo la presa di potere dei bolscevichi, gli aveva regalato in segno d'amicizia. Oltre ad andare per mare organizzava battute di caccia sui Pirenei per i soliti signori facoltosi, riponendo via per qualche attimo i suoi ideali, perché era il denaro il servo della sua libertà. Sparavano a tutto ciò che si muoveva fra le montagne: lepri, cervi, caprioli, volpi, e se pagavano bene li portava anche nelle zone degli orsi per un trofeo dei Paesi Baschi, un feticcio da appendere nelle loro lussuose residenze. Finite le sue attività andava, con la puntualità del suo Eberhard, a giocarsi tutto al Gran Kursaal, magari insieme a qualche lucciola assetata di soldi e Pacharán di Navarra, un liquore basco, rosso come il sangue e la passione, dal dolce sapore di anice e prugne. Nel 1923 Primo de Rivera proclamò il gioco fuorilegge, ma Imanol continuò ugualmente, nelle bische o attraversando le montagne per raggiungere la Francia dove il gioco era legale. Malgrado il suo egoismo, e le sue contraddizioni, era un uomo dal grande fascino e dai grandi sogni anarchici. Fiero di essere libero, come un animale allo stato brado. Diceva che la vita andava catturata come una preda, non subìta, ed essendo sopravvissuto alla pandemia della Spagnola se ne strafregava di tutto il resto, anche del martedì nero. La recessione del '29 dall'America rimbalzò in Europa, frantumando di colpo quell'atmosfera spensierata, facendo crescere una condizione di malessere, di odio sociale, mentre lo scontro politico si faceva sempre più violento. Gli anni della seconda Repubblica spagnola culminarono in un colpo di Stato che aprì le porte a un conflitto fratricida: la feroce guerra civile del 1936. Mio nonno prese parte alla rivoluzione anarchica, nella fase iniziale del conflitto, prima contro i franchisti e poi dovendosi difendere dall'intero Fronte popolare, che, per volere di Stalin, voltò le spalle agli anarchici. Con la presa di potere dei nazionalisti fu costretto a rifugiarsi nei Pirenei, a vivere nelle grotte come un Neanderthal, unendosi poi, nel '40, alla resistenza francese, entrando a far parte di un gruppo di Maquis per tutta la durata della Seconda guerra mondiale. Il marchio dell'anarchico gli venne impresso indelebilmente fino al 20 novembre del 1975, giorno della morte di Francisco Franco. Quando il “Caudillo” andava a trascorrere le vacanze a San Sebastián, nonno Imanol, ogni santo anno, veniva arre-stato e messo all'interno di un cubo di ferro, poco più di un metro per lato, e lasciato lì, a cantare con un filo di fiato rauco Eusko Gudariak, l'inno dei combattenti del suo popolo, con mezza forma di pane e una ciotola d'acqua, fino alla partenza del dittatore, fino a quell'ultima estate del '75. La vittoria dei nazionalisti del '39 portò a una diaspora di baschi. Una massa di persone in fuga per essersi schierate con-tro il golpe franchista, costrette a espatriare per evitare ritorsio-ni e violenze, per mettere in salvo le famiglie. All'inizio della Guerra Civil, Paquita aveva sei fratelli e sei sorelle. Alla fine del conflitto erano rimaste solo in quattro, quattro femmine. Gli altri, tutti morti. Di alcuni neanche i cor-pi furono mai ritrovati. I più grandi presero le armi e vennero risucchiati da quella feroce violenza, mentre i piccoli andaro-no incontro al loro tragico destino rifugiandosi a casa della zia Hirune, che abitava a Guernica. Tutti morti, figli della Niobe sterminati non dal volere degli dei, ma dalla follia e dalla cru-deltà dell'uomo. Paquita all'età di otto anni era rimasta sola, le tre sorelle e la madre disperse nel caos della Guerra Civil. Capì che se voleva sopravvivere doveva fuggire al più presto da San Sebastián. Il coraggio incosciente dell'età non le mancava, ma tanta era la paura di essere catturata, aveva già avuto modo di vedere l'o-dio negli occhi dell'uomo. Una sera l'atrocità illuminò il cielo. A pochi metri dal di-stributore di benzina, che stava sulla strada per Pamplona, due suore e un prete vennero prima fucilati e poi incendiati, ancora in vita. Dopo aver assistito a quella scena, dopo aver respirato quella morte, Paquita prese le quattro cose che aveva e si pre-cipitò al porto vecchio. Lì trovò Felipe, un pescatore amico di nonno Imanol, che per qualche pesetas traghettava i profughi verso Saint-Jean-de-Luz. La barca, nella nebbia, traboccava di anime in fuga. Troppe, per aggiungere anche i venti chili di una bambina. Lei, piangendo, riuscì a convincerlo a portarla con sé, ma non a bordo, visto che non aveva neanche i soldi per pagare. Se voleva poteva aggrapparsi ai parabordi fuori dallo scafo, legata, con l'acqua gelida dell'Atlantico fino alla gola, tanto la crociera era breve e pericolosa per tutti. Bastava essere avvistati da una motovedetta dei nazionalisti per finire in fondo al mare. Arrivata a Saint-Jean-de-Luz l'accompagnarono, insieme a una cinquantina di altri esuli, in Boulevard Victor Hugo, all'interno di un grande cinema messo a disposizione per ospitare i profughi spagnoli in attesa di una destinazione. Centinaia di persone con le loro poche cose, pochi effetti personali, qualche ricordo, aspettavano di essere chiamate per raggiungere un luogo sconosciuto, una nuova possibilità di vita lontano dalla violenza franchista. Paquita si lasciò cadere sfinita su di una delle poltroncine in legno della sala. Era stanca e bagnata di mare e nafta. Durante la traversata l'oceano le aveva rubato il vecchio zaino in tela, in cui c'era un tozzo di pane di segale, un maglione rattoppato, qualche fotografia, e un paio di pantaloni di uno dei suoi fratelli divorato dalla crudeltà di un bombardamento sperimentale. Stava per abbandonarsi a un sonno anestetico quando, dalla confusione che la circondava, le sembrò di sentire una voce familiare in lontananza. – Paquii, Paquita! Si alzò di scatto e iniziò a guardarsi intorno, cercando fra quella folla di volti. In fondo alla sala una figura agitava le braccia facendosi largo fra tutta quella gente. Era la più grande delle sue sorelle, Vicenta, quella di sedici anni. Paquita corse verso di lei e l'abbracciò come si fa con gli alberi. Temeva di averla persa per sempre. La sorella era arrivata a Saint-Jean- de-Luz attraverso le montagne aiutata da Juanito, un giovane frontaliere che conosceva i Pirenei come il suo respiro, e che riforniva mio nonno di cognac e sigarette francesi.
Guido Fabrizi
Biblioteca
|
Acquista
|
Preferenze
|
Contatto
|
|