Tutto cominciò in una bruna e immobile sera di novembre, quando le giornate tendono ad accorciarsi e il mare ha un'espressione stanca e le sue acque di un insipido color muffo sembrano melassa densa e collosa. Quando la schiuma della risacca si adagia svogliata sulla riva e gli uomini chiusi in casa, confortati dal calore della legna che arde nelle stufe, stanno davanti alla finestra a spiare le nubi che addensandosi all'orizzonte annunciano che ad attenderli domani sarà un giorno identico a quello che sta per terminare. Ecco, fu esattamente in una sera come quella che la storia, questa, ebbe inizio. Dalla finestra della casa di Schivo, un grazioso capanno addossato alla baia, occultato da un tortuoso leccio millenario, si riusciva a scorgere il molo che quasi fosse un vecchio stanco e incurvato dal peso degli anni si protendeva malfermo sulle gambe verso un mare dalle acque giallastre e dense tanto da sembrare gelatina. Le rocce umide di sale parevano tremare dal freddo e la grande barca del Niño dondolava pigra in porto, intristita dalla catena la tratteneva all'ormeggio. Pinta era una grossa barca di ferro rugginoso e un giorno, dopo una mareggiata più intensa del solito, affogò. Pure il Niño che in quel momento stava dormendo chiuso nella sua cabina a smaltire la sbornia della sera precedente affondò assieme a lei e da quel momento più nessuno sull'isola parlò di loro. Schivo sapeva bene come il battello si era inabissato, dalla sua finestra aveva visto ogni cosa, ma preferì non svelare mai a nessuno quello che realmente accadde quel dì.
Zauar Per le genti a sud del mondo quel nome stava a indicare il colore del cielo e i suoi occhi di quel cielo erano lo specchio. Era come se due minuscoli frammenti di paradiso celeste fossero precipitati da lassù per andare a posarsi su quel volto incantevole e capriccioso. Quello fu il motivo per il quale fu chiamata in quel modo. Zauar aveva un carattere ribelle, insofferente a qualsiasi regola. Viveva sull'isola da sempre, dal giorno che neonata fu ritrovata abbandonata sulla spiaggia. Nessuno sapeva però indicare con precisione da dove fosse arrivata e dove fosse la sua tana. Alcuni affermavano che era una dea, che parlasse alle piante e che dormisse sulla nuda terra. Altri ancóra affermavano che il suo corpo conteneva l'anima di un leggendario lupo vissuto in ere remote tra le aspre rocce dell'isola. In realtà Zauar era una donna come molte altre, un po' introversa è vero, ma nulla di più; viveva in una casa arroccata sul versante della collina a sud dell'isola, immersa tra macchie di ulivi, alberi di mandorli e di fichi, era difficile, se non impossibile, scorgerla dal sentiero di terra battuta che scorreva poco sotto il podere. Quando spirava vento di Maestro e il cielo era straordinariamente limpido, dall'ampia terrazza all'ombra di un grande pergolato si poteva scorgere un vasto braccio di mare, blu e profondo. Chiamare casa quella spelonca era un modo come un altro per non essere sgarbati. In verità la casa a detta dei soliti bene informati era poco più che un capanno di legno con il tetto ricoperto di canne e di paglia. Accanto a questo, nascosta tra i rovi, vi era una grande gabbia di metallo. Chi l'aveva vista diceva che Zauar al suo interno vi tenesse rinchiuse decine di ali dai colori sgargianti e dai poteri magici, pronte a un suo preciso comando a scagliare sortilegi su chiunque. Si diceva pure che ogni notte ne afferrasse un paio e allacciate per bene sulla groppa se ne andasse in giro a spaventare i cristiani. Naturalmente tutto questo per chi volesse credere a certe stupidaggini, anche se in realtà per quel suo carattere ruvido e scontroso e ascoltando le voci che circolavano su di lei prendere quelle chiacchiere in considerazione non era per niente difficile. Schivo, che non credeva nelle sciocche superstizioni della gente, un giorno volle salire sulla collina alla ricerca della tana di Zauar, per vedere con i suoi occhi se tutte quelle maldicenze che aveva sentito dire sul conto della donna avessero un fondo di verità. Quando, dopo aver cercato la casa per tutta la mattinata, inaspettatamente se la trovò dinanzi, quello che vide non gli sembrò nient'affatto l'antro tenebroso che tutti gli avevano descritto. La gabbia al lato della casa c'era, ma non erano ali magiche quelle che cinguettando svolazzavano al suo interno bensì decine di uccellini colorati trovati da Zauar feriti nei boschi e che lei prendendosene amorevolmente cura aveva salvato da una fine impietosa. Schivo arrivò nei pressi della tana nel momento stesso in cui il cielo percorso da nuvole scure e malvagie pareva promettere pioggia. Arricciò il naso e inspirò profondamente: "Pioggia." Bisbigliò tra sé. Sì, ne percepiva l'odore, presto avrebbe piovuto. Le chiome degli ulivi scosse dal vento parevano "crape" dai capelli argentei e arruffati, chine sopra a banchi di scuola intente a interrogarsi sul lento trascorrere del tempo. L'oscurità piombò su di lui senza preavviso. Per nulla intimorito rimase immobile a guardare l'oscurità inghiottire la casa poi, dopo aver tirato un profondo respiro, con grande cautela iniziò a girarle attorno. I muri erano impregnati di sale e da una breccia accanto al tetto un'interminabile colonna di formiche nere, isteriche e dal ventre gonfio e lustro, usciva ed entrava inarrestabile. Un geco, dalla pelle rugosa color cappuccino, osservava, roteando i suoi grandi occhi vitrei con aria apparentemente disinteressata e indifferente quel gran via vai. Schivo attraversò con un balzo un sentiero di pietre e fango, raggiungendo una piazzola dal pavimento di mattoni rossi. Da quel punto, guardando verso sud, poteva scorgere in lontananza il riflesso plumbeo del mare; lo intravedeva appena, ma ancor di più ne avvertiva la presenza. La brezza portava in grembo la sua voce e il suo respiro profondo. Sentiva il suono cristallino dell'onda salire con forza verso la collina portando con sé il pungente aroma di sale. Si guardò attorno. Pareva che in casa non ci fosse nessuno. Accanto alla balaustra notò una scodella ricolma di latte. Si fece delle domande, ma gli sembrarono troppo stupide e lasciò correre: sapeva bene che le risposte sarebbero state altrettanto sciocche. Non fece che pochi passi quando un fruscio proveniente alle sue spalle lo fece trasalire. Si voltò e alzando lentamente lo sguardo verso il cielo lo vide. Il vecchio lupo bianco lo osservava dall'alto dello sperone roccioso fissandolo con attenzione. Schivo penetrò quello sguardo profondo e oscuro come l'abisso e azzurro come il mare. Incrociò quegli occhi soltanto per un istante e nonostante la loro espressione dura e inaccessibile non provò nulla, nulla che anche lontanamente potesse assomigliare alla paura. Poi, prima che lui potesse fare un solo passo, con uno scatto improvviso la belva svanì nell'oscurità della boscaglia. Schivo si arrampicò nel punto esatto dove l'animale stava accovacciato, si abbassò, annusò la roccia, ma non percepì alcun odore, almeno nulla di quello che si sarebbe aspettato di trovare; riconobbe solamente l'aroma asciutto e ruvido della pietra. Provò una sensazione di disagio. Avvertiva una presenza, come se ci fosse qualcuno lì attorno. Sgranò gli occhi, ma non riuscì a scorgere nulla, l'oscurità era impenetrabile. Fu spontaneo tornare sui propri passi, ma quando si voltò lei era lì, immobile, a pochi metri da lui, che lo fissava in silenzio. Aveva occhi grandi e luminosi e a Schivo dovettero sembrare quelli di una bimba tanto era dolce la loro espressione. Teneva un sorriso curioso stampato sulle labbra e un'espressione come di chi non si aspettasse altro che una risposta. Pareva voler chiedere: - Chi sei tu, che ci fai qui?! - Poi strizzando gli occhi, riducendoli a due sottilissime fessure, strinse i pugni, incurvò la schiena ed esalando un brontolio intimidatorio iniziò ad avanzare ondeggiando minacciosamente verso di lui. Arrivata ad un passo dal suo naso, Zauar si scagliò su Schivo. Dapprima iniziò ad annusarlo, poi a toccarlo, tastandolo a palmo a palmo, come a voler capire di quale strano miscuglio di carne e stoffa fosse fatto quello stravagante animale che senza troppi complimenti, senza nessun invito, aveva invaso il suo territorio. Schivo lasciò che lei si calmasse e istintivamente, senza comprendere il motivo del suo gesto, la strinse tra le braccia e trascinandola verso di sé la baciò. Lei non lo respinse, al contrario, ricambiò quel bacio con inaspettato trasporto. Fu un bacio casto e innocente, sorprendentemente delicato. Le ali rinchiuse nella gabbia, vedendo quello che stava accadendo, iniziarono a svolazzare e a cinguettare come impazzite e i cani, aizzati da quel frastuono, cominciarono a rincorrersi abbaiando, mentre dal bosco il lugubre ululato di un lupo si levò alto nella notte. Zauar con estrema dolcezza si staccò da quel bacio, afferrò Schivo per mano e trascinandolo verso il sentiero che conduceva al mare lo invitò ad andarsene. Prima di avviarsi Schivo le accarezzò il viso, le sfiorò i capelli e si allontanò senza voltarsi. Mentre scendeva di buon passo verso il mare sorrideva. Il suo cuore era gonfio di gioia. Sapeva che sarebbe tornato da lei molto presto. E lei sarebbe stata là ad aspettarlo, ne era sicuro, lo sentiva.
Scirocco. Una massa scura e fluttuante si materializzò improvvisa sotto la superficie del mare increspata dalla brezza di ponente. La guardò ondeggiare distrattamente, senza darle troppa importanza. Scirocco aveva camminato per diversi giorni tra i sentieri nascosti del bosco e ora stava lì, con i piedi a mollo, seduto sul muricciolo del porto. Aveva girovagato a lungo tra le intricate macchie di leccio e di sparuti lentischi dai tronchi contorti ricoperti di licheni rugginosi e muffe multicolore, tra essenze segrete e i tiepidi umori della terra e delle foglie marce, tra profumi che lui conosceva bene. Durante il suo cammino aveva incontrato cinghiali, lupi, cervi e capre selvatiche. Dopo aver mangiato il pezzo di pane raffermo che teneva avvolto in una pezza di lino all'interno di una piccola bisaccia, decise di scendere sino al porticciolo, al riparo della grande falesia di roccia rossa sul versante opposto dell'isola. Passando tra le strade del paese Scirocco incrociò tre donne alquanto vecchie. Camminavano tenendosi sottobraccio. Le conosceva e sapeva bene chi fossero quelle megere. Le tre cariatidi trascorrevano la maggior parte del loro tempo girovagando per il paese e impicciandosi degli affari altrui. Non facevano altro, passando ogni giorno dalla farmacia e da questa all'ufficio postale, ma non prima di aver fatto una capatina dall'edicolante per curiosare se vi fossero pettegolezzi freschi di stampa da propagandare. Erano informatissime. Qualsiasi cosa accadesse sull'isola, ogni maldicenza, ogni news, loro ne erano al corrente prima di chiunque altro. E questo nonostante l'una fosse cieca, l'altra orba e l'altra non ci sentisse un granché bene da ambedue le orecchie. Il ragazzo dopo averle salutate con un lieve cenno del capo si allontanò velocemente, imboccando il carruggio che conduceva sino alla baia. Passando di fronte alla casa di Schivo intravide l'amico acquattato dietro alla finestra intento a sbirciare. - Che strano tipo. - Pensò. - Sempre seduto accanto alla finestra a osservare chi viene e chi va. - Dopodiché, abbozzando con un'alzata di braccio un saluto, abbassò lo sguardo e proseguì per la sua strada. Poco dopo Schivo intravide sopraggiungere in lontananza tre losche figure. Nonostante la distanza le riconobbe immediatamente. Era impossibile il contrario: erano talmente uniche ed eccentriche nel modo di vestire da essere inconfondibili. Le Prefiche gli sfilarono da sotto il naso vacillando. Da come procedevano speditamente parevano avere piuttosto fretta. Ogni volta che le incrociava, avvolte nelle loro nere palandrane di organza e lana cotta, Schivo provava un brivido di paura corrergli lungo la schiena. Per la gente del luogo era opinione comune credere che il solo attraversare loro la strada potesse attirare sul malcapitato iatture di qualsiasi genere. Schivo nonostante non prestasse fede a certe credenze popolari e ritenesse di non essere per niente superstizioso, quando questo accadeva, non mancava di concedersi una generosa grattatina tra le gambe. Rimase alla finestra a osservare il mare in lontananza. Scorgeva Scirocco seduto sul muricciolo del porto con i piedi ciondoloni immersi nella delicata carezza delle onde. Queste gli solleticavano le dita e lui sghignazzando le scalciava, sollevando alti spruzzi di schiuma che il riverbero del sole colorava quasi fossero piccoli arcobaleni. Scirocco era infinitamente alto, tanto da sembrare un gigante in confronto agli altri ragazzi della sua età. Quando all'improvviso te lo trovavi di fronte metteva paura tanto era grande. Le braccia gli cadevano lungo i fianchi oziando nel vuoto e le gambe, trattenute insieme con dello spago e da qualche chiodo arrugginito, erano talmente smilze da lasciare intravedere sotto la pelle le ossa. Nonostante ciò, era un ragazzino forte. La pelle del viso era cotta dal sole e la testa, rintanata sotto una ciurma di capelli neri e crespi, pareva vagare sospesa nell'aria immersa dentro cento sogni e mille pensieri tanto da sembrare uno di quei palloncini colorati comperati al Luna Park e che lui, come fosse un bambino, se la trascinava appresso tenendola per mano, trattenuta solamente da un sottilissimo filo d'argento. Scirocco era immenso come quel mare che lui amava. Immenso e infinito come i suoi pensieri, incredibile come il mondo che scorgevi nei suoi occhi, dentro quello sguardo euforico e distratto quanto quello di un folle. Come Schivo e come molti altri anche Scirocco non era nato sull'isola. Era arrivato a Nisba in un giorno di settembre assieme alla grande onda, dopo che la pioggia caduta ininterrottamente per nove lunghi mesi aveva deciso di concedere una tregua. Nessuno però pareva ricordarsi di cosa accadde esattamente quel giorno. L'unica cosa che alcuni rammentavano era che il ragazzino fu trovato sulla spiaggia al tramonto, tremante e intirizzito dal freddo, mentre biascicava parole incomprensibili, discorsi illogici e privi di significato ai quali allora nessuno seppe dare un senso; racconti deliranti quanto quelli di un pazzo e fantasiosi quanto quelli di un bambino. E Scirocco probabilmente incarnava l'essenza di entrambi. Sì, lui era esattamente così, un giovane bizzarro dai grandi occhi scuri dentro i quali si poteva scorgere un volo di farfalle frivolo e inconsistente quanto un sogno. Schivo ricordava ancóra il giorno in cui Scirocco gli confidò di aver trovato durante il suo vagabondare tra i boschi un luogo misterioso e sconosciuto dove strani animali vivevano imprigionati nella roccia. Esseri inanimati dei quali non rimanevano altro che deboli ricordi e qualche rara impronta nella pietra. Era un luogo inaccessibile a chiunque, un segreto custodito da sempre da una fitta macchia di rovi e da spetrali alberi secolari e che solo lui era stato in grado di scovare; una radura isolata, la stessa dove si era imbattuto per la prima volta nel grande cinghiale, la leggendaria creatura che viveva dalla notte dei tempi sull'isola e dove lui si recava ogni qualvolta volesse incontrarlo. Allora, quando ciò avveniva, i due accendevano un fuoco, si sedevano uno accanto all'altro e masticando funghi magici rimanevano in silenzio per ore a osservare le fiamme trasformarsi lentamente in braci. Il Ninno
Fu il Niño a trovare Scirocco sulla spiaggia, com'era stato per Schivo prima di lui. Sull'isola nulla era come si mostrava: a volte la realtà superava la fantasia più accesa. I due amici erano stati fortunati che a ritrovarli fosse stato lui. Nonostante il vecchio fosse uno scorbutico che alla terraferma preferiva il Mare, al ciarlare ebete degli uomini il silenzioso frusciò dell'onda, in quell'occasione mostrò un altruismo e una umanità senza uguali. Portandoli in salvo il Niño aveva risparmiato ai due ragazzini una fine impietosa. Il Niño era uno di poche parole e quelle poche che esternava erano perlopiù dedicate all'insulto. Descriverlo era quasi impossibile. Qualsiasi aggettivo gli si potesse affibbiare gli scivolava via. Era talmente vecchio e i suoi capelli così candidi che nell'aspetto ricordava quelle bianche macchie di muffa coriacee che si scorgevano aggrappate ai tronchi morti nel folto della boscaglia. E che fosse seduto sulla tolda della sua barca o con i piedi immersi nella schiuma intento a sbrogliare un pezzo di rete che il mare aveva restituito alla terra gettandola sulla spiaggia, era quella candida e indefinita macchia di muffa poggiata sulla corteccia morta di un albero l'unica cosa che a Schivo veniva in mente ogni qualvolta lo scorgeva.
Moses Soon
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