La congregazione dei 7 cunicoli
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Poi arrivò la DEMOKRATHIA. Questa chiuse le scuole, i musei, i cinema e i teatri. Inoltre, vietò un'altra mezza dozzina di cose. Molti di noi furono portati via, strappati alle loro famiglie. Altri furono condotti in centri di rieducazione e da quel momento più nessuno sentì parlare di loro. Molti altri riuscirono a sfuggire al trasferimento nascondendosi nei sotterranei, io, J.K e Ferdinandigno fummo tra quelli. Rimanemmo rinchiusi là sotto, tra le condotte sotterranee della città, per molto tempo prima di poter tornare nuovamente in superficie. A volte durante quel lungo periodo d'isolamento di notte ce ne uscivamo per vedere le stelle e lanciare un saluto a chi non c'era più. E ogni volta il pensiero correva a AX, pensandola felice e libera lassù, lassù tra milioni di altre stelle. Eravamo oramai degli adulti quando decidemmo tornare in superficie. Non fu un bello spettacolo quello che si presentò ai nostri occhi. Trovammo le vie vuote, le nostre case spoglie e senza più colore. Spettri decadenti e inermi senza luce né anima. Niente era più come lo avevano lasciato. Il mondo il nostro mondo era cambiato ed era cambiato in peggio. Se non fosse stato per l'aiuto inaspettato che ci diede quel gruppo di amici che stava guidando Bamba fuori dai condotti probabilmente nessuno di noi sarebbe sopravvissuto in quell'ambiente così ostile. Sorcate si volta. Osserva il Tranx immobile sul varco che porta alla discarica. -A cosa stai pensando? - -Ripensavo ai miei amici, a quanto tempo è passato da quando tu ci trovasti ridotti allo stremo, impauriti e affamati intenti a vagare tra quel labirinto di gallerie e cunicoli. Senza il tuo aiuto e quello del tuo clan non avremmo avuto nessuna possibilità di sopravvivere là sotto. - -Sai sei molto cambiato dall'ultima volta che ci siamo visti. - -Dici?! Solo qualche ritocchino qua e là, sai tanto per stare al passo con i tempi. - -I tempi? - Fa Sorcate alzandosi sulle zampe posteriori e mettendosi ad annusare nell'aria come avesse fiutato una traccia sospetta. -Tu invece non sei cambiato per niente. - -Anch'io sono stato al passo con i tempi. - Risponde sornione il vecchio sorcio. Finalmente fuori. Bamba si guarda alle spalle. Osserva il passaggio nella parete da dove è appena uscita. Da lì e in altri punti mantenuti segreti dai membri della congregazione i cunicoli convergono sotto il centro di Bona Ria, il luogo dove loro, gli umani, strinsero un patto con i topi, lo stesso luogo dove la congregazione dei sette cunicoli prese vita. -Ricordi? - Sospira il vecchio Sorcate. Bamba annuisce. -Ora in virtù di quel patto chiediamo il vostro aiuto. Siamo noi oggi ad avere bisogno di voi. - Tra i due cala il silenzio e il silenzio diventa eternità e l'eternità è un vuoto difficilmente colmabile. -Siamo noi ad avere bisogno di voi. - Quella frase le sembra dilatarsi nell'aria, infilandosi rimbombando nei budelli dei sotterranei. Rimbalza lungo le pareti scrostate e lerce. Rimbalza come una di quelle palline di gomma impazzite sbattendo contro le grate di metallo e le tubature di cemento e d'amianto frantumandosi, per finire, contro le spesse mura di feldspato e diorite, tracce e reminiscenze di arcaiche civiltà aliene lì sepolte. -Ora siamo noi ad avere bisogno di voi- Quelle parole risuonano attraversando i mille metri lineari di condotti neurologici e terminazione nervose del sistema encefalico del Tranx Evoluto. -Che dici, qual è la tua risposta? - -Dovrei sentire gli altri, ma per me è un sì. - -Bene, ero sicuro di poter contare su di te, mi farai sapere cosa decideranno gli altri. Ma ora vieni, seguimi, torniamo dentro, voglio mostrarti una cosa. - Al centro del sistema fognario, dove convergono le condotte, si può scorgere un grosso involucro ricoperto da una pesante tela gommata. Si ferma a osservarlo chiedendosi cosa ci sia nascosto lì sotto di tanto importante. Sente una strana sensazione aleggiare nell'aria che nulla ha a che vedere con i miasmi e le esalazioni nocive che impregnano con i loro effluvi il sotterraneo. Accanto all'involucro, nascosti dietro un barattolo arrugginito di latta, due dei tremilasettecentotredici figli di Sorcate li stanno aspettando. Se ne stanno lì con il capo reclinato sul petto. Salutano con un fil di voce senza nemmeno alzare il capo. Sorcate li osserva severo e senza tante cerimonie strappa il telo di dosso dall'oggetto che ci sta nascosto sotto. Una vampa abbagliante dalla variegata luminescenza bluastra rischiara l'antro. -Ricordi? - Bamba osserva ammaliata. -È accaduto di nuovo. - Sussurra con un filo di voce. Stavolta è Sorcate ad annuire. -Si, ora credo tu abbia capito il perché oggi più che mai abbiamo bisogno del vostro aiuto? Se la sfera dovesse cadere nelle mani sbagliate e le venisse impedito di svelare il suo contenuto e diffondere il messaggio che porta con sé sarebbe una catastrofe. Ogni forma di vita si estinguerebbe. Chi ha creato il nostro mondo in ere remote, esseri che qualcuno crede fossero divinità, vorrebbero rassettare tutto. Dobbiamo impedirlo. Dobbiamo darci un'altra opportunità. -
*** Il ticchettio dei tasti della macchina per scrivere riempie il silenzio della notte. Le dita dell'uomo scorrono agili sulla tastiera. Senza incertezze, senza interruzioni. Hendrè si ferma a riflettere. Srotola il foglio togliendolo dalle ganasce metalliche che lo trattengono ancorato ai rulli della sua Lettera 22, un vecchio modello degli anni 50 della Olivetti, un vero pezzo da museo, ma che sa fare ancora egregiamente il suo dovere. Afferra le pagine e rilegge l'ultimo paragrafo. Sistema alla meglio sulla punta del naso gli occhiali dal colore un tantino vistoso, un vezzo griffato pagato un sacco di verdoni. -Puttana! - Esclama colto da un impeto irrefrenabile di rabbia. Il pensiero corre a Bamba. -Brutta troia! - Aggiunge. Non riesce a non pensare che a lei. La stanza pare immersa in una quiete irreale. La luce azzurrata del monitor del pc appoggiato in un angolo del ripiano della scrivania colora ogni cosa. Un'atmosfera scarna, quasi patetica, che trasuda una eccitazione volgare e sacrilega. È estremamente su di giri. La bottiglia di Napoleon oramai completamente vuota è rovesciata a terra, sulla moquette. Il climatizzatore diffonde attraverso le griglie di alluminio poste sul soffitto un soffio piacevole mantenendo all'interno dell'attico una temperatura costante di ventuno gradi celsius. Fuori, nonostante sia notte, l'aria è densa e contaminata, calda e insopportabile. Butta uno sguardo al di là del cristallo della grande finestra, la città ai suoi piedi pare un'immensa mappa stellare illuminata com'è dalle mille luci al neon degli addobbi natalizi, un cosmo in perfetta e costante mutazione. La lampada sulla scrivania allo xeno in confronto pare una stella morente. Una stella morente che illumina appena la tastiera della sua macchina per scrivere.
Hendrè se ne sta in piedi, tiene il foglio tra le mani. Si volta, alza lo sguardo. La sua immagine è lì che lo fissa riflessa nella grande vetrata dell'attico dove vive, arrampicato sopra a un gigantesco Baobab di cristallo e acciaio al centoventisettesimo piano del B.Eys, uno degli edifici più imponenti e lussuosi di tutta BonaRià. Camicia bianca, maniche arrotolate fin sopra al bicipite, un viso affilato, scomposto e sottile. Ecco cosa è, un riflesso, null'altro che un riflesso appiccicato sul nulla, sopra a una fredda lastra trasparente di cristallo, uguale a ogni altra immagine riflessa che vive e respira tra le strade di questa stramaledetta città, anche lui causa, conseguenza ed effetto della distorsione di un minuscolo fascio di energia. E basta un nulla per scomparire, è sufficiente lo spostamento di un atomo di luce, di un microscopico corpuscolo di polvere, per svanire, evaporare per sempre da questo mondo. Hendrè si passa la mano nei capelli, sfila gli occhiali e li ripone sul ripiano di tek della scrivania. -Per stanotte credo possa bastare. - Preme con l'indice e il pollice gli occhi strizzandoli energicamente. Guarda verso l'orologio dal quadrante in inox con i numeri esageratamente grandi. -Merda, sono già le quattro! - Esclama. Non è certamente una novità. Tutte le notti è la stessa storia. Scrive e ricorda. Ricorda e scrive. Rivede il vicolo dove è nato. L'isola incantata dove andava a far volare la sua irrazionale e fertile immaginazione. Calpesta con la fantasia nuovamente i cumoli di rifiuti, le grandi praterie infestate dalla gramigna e da sterpi secchi dove si incontrava ogni giorno con gli amici. I suoi amici, i membri di quel fantastico equipaggio con cui navigava attraverso mari di plastica e oceani di vetri frantumati. Natale, ne ricordava uno in particolare, quando la piccola AX morì. La Principessa delle Stelle, come lui la chiamava, diventò anche il titolo del suo primo romanzo, il primo di un lungo elenco di successi. Le prime pulsioni, i primi palpiti. Poi arrivò la DEMOKRATHIA e molti tra loro furono costretti a fuggire. I più piccoli furono portati in luoghi ritenuti sicuri dagli adulti. Per molto tempo lui, i suoi amici e molti altri come loro rimasero nascosti come anime dannate nelle cavità della città. Lì tra gli oscuri recessi dei cunicoli fognari scoprì l'amore. Le premurose attenzioni di Ferdinandigno, scambiate all'inizio per gesti cortesi e disinteressati da parte dell'amico, divennero nel tempo per lui motivo di profondo e intenso turbamento. Il morboso legame nei suoi confronti, le frequenti frasi di apprezzamento ogni volta che se ne presentava l'occasione, lo colmavano di un'appagante quanto curiosa sensazione di benessere. La notte dormivano uno accanto all'altro. Ferdinandigno nel sonno si stringeva a lui con insistenza, aveva freddo e a lui non dispiaceva tenere stretto tra le braccia quel caro amico. Poi furono abbracci dolci e affettuosi, dapprima innocenti poi sempre più intimi e passionali. Quella notte Ferdinandigno tremava, aveva paura e a lui, a lui Ferdinandigno, il suo sguardo immenso e spaventato, fece tenerezza. E quella notte non gli dispiacque affatto stringere a sé quel corpo morbido e tremante che si affidava con tanta dolcezza alle sue carezze. Tornati in superficie ognuno di quel piccolo gruppo di amici prese una strada diversa perdendosi in breve tempo di vista. Lui e Ferdinandigno si rividero solamente molti anni dopo. Era stato l'amico a cercarlo, era nei guai e aveva un disperato bisogno d'aiuto, e quando Hendrè lo incontrò rimase sbalordito, certo non si aspettava di trovarsi di fronte a una trasformazione tanto straordinaria. Fu in quell'occasione che conobbe Bamba Cher la nuova versione Tranx evolutiva di Ferdinandigno Pignau. Aveva saputo del suo successo come scrittore e lei aveva un assoluto bisogno del prodotto che il successo di solito aveva la consuetudine di produrre: il vile denaro. Hendrè non si tirò indietro, la aiutò e lei in cambio seppe essere con lui riconoscente, molto riconoscente. Il tempo pareva come se per loro non fosse mai trascorso. Si accorsero immediatamente che le carezze e le tenerezze di allora non erano mai state dimenticate e senza troppi preamboli diventarono amanti. Del resto, ognuno aveva da offrire qualcosa di sé che all'altro mancava: Hendrè aveva il denaro e lei, Bamba, una sensualità unica e senza limiti. Ma il tempo oltre che la giovinezza si era portato via molte altre cose di quel periodo. L'innocenza di allora era stata sostituita dal cinismo e dallo scetticismo. Egoismo e indifferenza erano diventate per molti la parola d'ordine per rimanere a galla, per sopravvivere a quel mondo di merda e ben presto il rapporto tra Bamba e Hendrè s'incrinò, diventando quotidiana banalità, litigi e incomprensioni. Una storia finita male e presto, come tante altre, una storia già vista. -Puttana. - Torna a gridare. Guarda il suo riflesso sospeso sulla città, appeso sulla lucida trasparenza del cristallo, un immenso occhio che scruta dall'alto i miseri ammassi di rifiuti umani accalcati tra le strade, carcasse adagiate sopra gli autobus, sospiri sospesi su nuvole di gas tossico, di idrocarburi incombusti, accalcati dentro i bar, seduti a un tavolo di ristorante mangiando merda servita a caro prezzo, nei teatri e nei cinematografi, oppure occultati nei templi del divin sperare a scommettere alle corse dei cavalli a sognare, a pregare e infine a bestemmiare. S'infila nuovamente gli occhiali. Riguarda quello che ha scritto. Strappa il foglio con rabbia emettendo una smorfia di insofferenza. Lo getta nel cestino della carta oramai colmo e manda a fare in culo il mondo. -Le quattro, le quattro anche stanotte. Quella brutta troia starà ancora scopando oppure avrà già finito? Certamente avrà già finito. E ora, ora con l'organo sfondato e grondante bava e felicità dormirà quieta e appagata con la testa appoggiata nell'incavo maleodorante dell'ascella del suo ultimo amante. -Puttana! - Hendrè si dirige verso il mobile bar, bianco ed essenziale. Lo apre, il Cognac è finito, ma ci sono ancora un paio di bottiglie di Rum, di quello buono. Prende una delle due e la stappa, si attacca al collo e butta giù una sorsata ingorda. La sua immagine è ancora là, specchiata sulla grande lastra di silicio. Osserva la porzione di cielo che sta adagiata sopra la città, una notte perfetta per osservare le stelle. Mille piccole scintillanti lucciole che vagano all'interno di una grande sfera scura, ruotando senza sosta, perfette nel loro immobile movimento. La luna sopra al cielo di BonaRià è immensa. La luna qui è più grande che in qualsiasi altra parte del mondo. Quando è piena sembra di avere una grossa plafoniera appesa sopra la testa, una grande lampada che rischiara ogni residuo di vita che brancola sulla superficie schiumosa della città con l'intensità di un sorriso. Hendrè arranca barcollando verso il telefono. Lo sa che non deve mescolare il Cognac con il Rum. Sente il bisogno di vomitare. Guarda l'apparecchio telefonico appoggiato sul tavolo, lo osserva ondeggiare quasi fosse una barchetta di carta lasciata in balia della tempesta dentro una tinozza da bagno. Lo afferra e compone il numero. -Fan culo se stai dormendo. Magari con Push o con Rockerfull, con il direttore del Monte dei pegni o con chissà chi. Mi aveva giurato che non avrebbe fatto più una sola marchetta. Non gli bastava il denaro che gli davo a quella zoccola?! - -Hendrè, sei tu? - Domanda una voce roca e assonnata dall'altro capo dell'apparecchio. Lui non risponde. -Hendrè. - Torna a ripetere la voce stavolta più squillante e decisa. -Brutta stronza. Frocio del cazzo. - E riattacca, ritraendosi con uno scatto nevrile a un metro buono dal telefono. Sente il respiro farsi veloce. -Oddio mio sto per avere un attacco di panico. - Raccata la bottiglia del Rum e torna a sbocchinare. Il telefono squilla. Alza il ricevitore. Non è un tipo indeciso Hendrè né tanto meno un vile. Porta l'auricolare all'orecchio, ma evita di sbiascicare anche un solo sussurro. -Senti stronzo. - Gli fa la voce dall'altro capo del filo. -Mi manchi. Come devo dirti che sono solamente delle chiacchiere quelle che ti sono state riferite, ingigantite dalla tua morbosa gelosia. Come mi scopi tu, non mi ha mai scopata nessuno, ma ... - -Ma? - -Ma preferisco starmene tranquilla per un po', preferisco la tranquilla banalità di un uomo mediocre che l'irruenta passionalità di uno psicopatico, folle, geniale, perverso, originale come te. Ti amo Hendrè. Addio Amore. - -Addio puttana. - -Click. Tutu Tu Tutu. - Hendrè si lascia scivolare sulla poltrona. La sensazione che prova e come di precipitare e dopo un volo infinito, spinto da una forza magnetica, cadere verso il centro gravitazionale di tutta la sua esistenza. E Hendrè vi sprofonda dentro inerme e molle come un cadavere, un enorme e flaccido cadavere, un cristo inchiodato mani e piedi a quella carlinga di metallo rivestita di pelle quasi fosse quella la sua croce. Il cadavere è davanti a lui, percorso da mille scie luminose. Mille cavi che si srotolano per centinaia di chilometri urlando e sibilando. BonaRià ansima ai suoi piedi. Gli appare a un enorme entità pleistocenica, una carcassa fossile svuotata e privata di ogni anelito di vita; un cadavere immenso e informe adagiato sul freddo tavolo di un obitorio chiamato Terra. Un cadavere martoriato, smembrato, percorso da mille punti di luce in perenne movimento, milioni di cellule morenti intente a non lasciare dietro di sé nessuna altra traccia della loro esistenza se non il nulla. Un corpo in perenne putrefazione del quale lui ne conosce il tanfo. Lo consola solamente quella porzione di cielo che intravede attraverso le pareti di cristallo dell'attico dove una luna immensa sta fumando marijuana, mentre le stelle sono impegnate a regalare sogni agli innamorati. Sente un dolore lancinante alla base della nuca, la testa sembra stia lì per esplodergli. La luce del monitor si stende soffice sul suo viso rendendolo simile a un'entità aliena, al volto di una divinità dipinta sopra una tela. Pare una maschera Maya, levigata e scolpita dentro un metallo o un minerale sconosciuto. Un lampo improvviso squarcia la notte. È solamente una frazione di tempo veloce e repentina, quasi impercettibile. Hendrè spalanca gli occhi. Rimane in silenzio a osservare quel bagliore fugace dipingere per un istante di blu il cielo. Si alza e raggiunge la finestra. Sotto di lui un abisso profondo centoventi piani lo inghiotte. Prova un senso di vertigine, appoggia le mani sulla superficie fredda e liscia del vetro. Un una piccola sfera luminosa proveniente dallo spazio sta precipitando a velocità subsonica al suolo. Irradia una vampa azzurra fredda e luminescente seguita da una scia di vapore denso e sfolgorante, pare un frutto maturo che staccatosi improvvisamente dal ramo di un albero cade attratto da una forza incontrovertibile a terra. Segue con attenzione la traiettoria della sfera. L'oggetto sparisce dietro il profilo tecnologico e aggressivo dei grattacieli del centro dirigenziale di BonaRià, all' estrema periferia della città. -Ancora. - Sospira. La zona è quella del quartiere di El Paraise dietro alle discariche che sorgono a est, la stessa dei vicoli dove lui, Hendrè Sasào, scrittore di successo, era nato e cresciuto. Il telefono squilla nuovamente. -Cazzo. - Esclama, girandosi di scatto e andando a cercare con lo sguardo il telefono che sta appoggiato disperso tra mille altri oggetti sull'immenso ripiano di tek del tavolo. La sfera è scomparsa, il tutto è durato meno di una manciata di secondi. Esita prima di alzare il ricevitore. Si volta nuovamente a guardare all'esterno, nulla è cambiato, pare come se non fosse accaduto nulla; il solito cadavere steso ai suoi piedi e una fetta di luna in cielo strafatta, intenta a farsi i cazzi suoi. Alza il ricevitore. -Ti amo, ti ho sempre amato Hendrè. - -Click. - Riaggancia senza rispondere. Hendrè si allontana e consulta l'elenco telefonico. Lo apre e scorre con l'indice un interminabile sfilza di nominativi, indirizzi e codici, alla ricerca di un nome. -Ci sono, Agenzia Investigativa BONAVISTA. -
***
Un sussulto è il vicolo piomba nell'oscurità. Un brusio collettivo seguito da alcuni tonfi, poi il silenzio torna a circolare tra le case, passeggiando anonimo sui marciapiedi della strada. La vita media di una lampada al neon è di quattro anni, lì in periferia dura meno della metà. Ma non è l'unica cosa a resistere così poco, cioè meno della metà del tempo che una cosa, una qualsiasi, avrebbe il diritto di esistere. Lì tra l caserme fatiscenti di cemento precompresso, tra casette di mattoni rossi sgretolati dall'umidità, tra i piccoli empori e commerci in liquidazione, la vita non dura mai tutta per intero, al massimo se ti va bene e con qualche botta di culo a fine corsa ci puoi pure arrivare, ma è pur sempre la metà del tempo che ti spettava di diritto. Una luce rossa filtra attraverso le vetrate di una locanda, l'unica che ancora serve qualcosa di decente da bere nel vicolo, dal quartiere di El Paraise giù sino alla Madrigliera, la piazza dove il martedì si tiene il mercato. Il Tanfo della Chachacha a volte sale fin sopra, invadendo con quel suo odore acre e pungente le case del primo piano. Allora i bambini smettono di piangere e si addormentano e per tutti è come farsi una bevuta gratis. Oggi è giorno di picanha e il profumo della carne arrostita riempie la pancia a molti. Nel silenzio se tendi l'orecchio puoi sentire il mormorio della gente che se ne sta chiusa là dentro, l'unico luogo dove per pochi spicci ci si può dimenticare almeno per un po' l'amaro in bocca che ti lascia tutta quella merda che la vita qui in periferia ti costringe a ingoiare ogni giorno. Note di vetro s' infrangono sui marciapiedi. A quel suono Jorgetignò mollava per un attimo gli arnesi e smetteva di piallare legno e incollare legno e verniciare legno e se ne usciva a sbirciare dalla finestra. Mille schegge di cristallo ridono isteriche per strada, sono il suono di un Tango malinconico e passionale. Jorgetignò ascolta estasiato. Quante di quelle note in fondo sono come se fossero state create da lui?! Già, quante? Tira un sospiro rientra in casa, chiude le imposte e torna a costruire violini e fisarmoniche. L'ubriaco sta sempre là. Avrà forse visto qualcosa? No, è impossibile, troppo impegnato a stringersi e a strusciarsi abbarbicato come un'edera sopra a un muro a quella grassa troia dai capelli color portulaca e dalle cosce infilate come un insaccato dentro a un'intricata rete di desuete autoreggenti fucsia stinto. -Ora puoi riaccendere la luce. - Pigio l'interruttore e 40 watt di gas argon riportano l'ufficio al massimo del suo splendore. -Se ti va possiamo parlarne? - Gli chiedo sapendo che con lui è meglio essere diretti e non girare troppo attorno alle questioni. J.K mi guarda, i suoi occhi sono due sottili fessure incorniciate da un intricato reticolo di rughe. Si muove con l'indolenza di un panda, barcollando viene verso di me. Spegne la sigaretta strizzandola dentro un posacenere stracolmo fino all'orlo. Afferra una sedia e la pianta di fronte alla mia scrivania con la chiara intenzione di parcheggiarci il culo. Ed è quello che fa. Io, intanto, mi alzo e dirigo verso il cucinino per vedere se nel frigidaire sono rimaste un paio di bottiglie di cerveza. Sono curioso di sapere cos'è che lo preoccupa. Fuori la via è ritornata alla solita insignificante e vuota inconsistenza. La musica è svanita rinchiusa dietro la porta della taverna e ora dalla strada esala solo rassegnazione e un forte odore di piscio e vomito. La notte ingoia ogni cosa, compresa la disperazione umana, mandando tutti a nanna. Buoni e cattivi non fa distinzione. Nick inizia a parlare. La sua voce ha lo stesso ritmo sincopato di un vecchio disco che gira monotono su se stesso ripetendo in continuazione la medesima nenia. Mi fermo davanti al frigorifero. Lo apro. Dietro a una scatola di fagioli aperta da chissà quanti giorni un cartone da sei di San Miguel mi osserva. Sento la voce di Nick distante, lontana, come se provenisse da un punto imprecisato della galassia. Mi parla di quando eravamo bambini. Di quando tutti assieme noi del vicolo si andava a cercare tesori nascosti tra i cumoli di rifiuti della discarica, la nostra isola incantata. Le parole gli fluiscono appiccicate ai ricordi, trasportandomi lentamente a quei giorni, risvegliando nella mia mente immagini e memorie, souvenir che con discrezione mi avevano seguito in silenzio senza mai farsi sentire, ma che io sapevo bene non aver mai dimenticato. Non avevo fatto come molti altri che una volta posati sopra a uno scaffale o chiusi dentro a un cassetto lasciavano che la polvere dell'oblio li ricoprisse cancellandoli per sempre. Racconta di quel vicolo quasi fosse un padre amorevole con commosso affetto e sincera gratitudine e mentre parla osservo le sue labbra stirarsi in un sorriso delicato sopra quella faccia ruvida e spigolosa. Ricordava i colori delle vetrine, le luci vivaci delle luminarie e i tacchi vertiginosi di donne alte ed eleganti. Parlava di soffici stole di piume che ricoprivano spalle diritte e levigate nell'ebano più scuro o di gambe perfette tornite nel marmo più candido. La schiuma soffice e spumosa della birra. Ricordavo anch'io quel particolare di quando appesi alle vetrine del bistrò stavamo con il naso appiccicato ai vetri a vedere spillare dentro enormi brocche pinte su pinte di sbuffante e spumeggiante cerveza. Ora il vicolo è deserto, gli edifici languiscono, ansimano, riposano nell'indigenza che il tempo impietoso gli regala giorno dopo giorno. I marciapiedi risplendono ricoperti da una sottile patina, una bava perversa che pare starsene lì aggrappata da sempre. La notte la cosa che più ti colpisce camminando per le strade di El Paraise è la violenza del silenzio, un silenzio che penetra fino alle ossa come un urlo, l'urlo di agonia di un popolo ferito a morte.
Moses Soon
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