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Autore: Zorghie
Quando l'amore ritorna - Campi Elisi
Romance
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Quando l'amore ritorna - Campi Elisi
Una telefonata inaspettata.

L'estate volgeva al termine, almeno così indicava il calendario, ma i trentasette gradi e i condizionatori rotti raccontavano un'altra storia. Il cielo era limpido e il sole, implacabile, sbatteva i suoi raggi sui vetri delle finestre dell'edificio.
«Stevie, puoi venire nel mio ufficio?»
La donna annuì, fece un giro di sedia e obbedì al suo capo, Diana Walsh.
«Dovresti controllare i nuovi pacchetti di viaggio offerti da queste strutture. Non vorrei trovare delle fregature come l'altra volta. Ti ho stampato la sintesi, troverai tutto sulla tua e-mail.»
«Ok. Posso farlo domani? Oggi ti avevo chiesto il pomeriggio libero. È il compleanno di Franck.»
«Certo, domani. Come potrei mai scordare il compleanno di Franck?»
«Grazie» sorrise, sapeva che Diana adorava punzecchiarla.
«Sono pacchetti turistici per la prossima estate che proporremo ai clienti poco prima di Natale, se dovessero essere validi.»
«Va bene. C'è altro che posso fare per te?»
«No, cara, vai pure.» Stevie salutò, uscì e tornò alla sua postazione. Aveva ancora mezz'ora prima di andare via dall'ufficio. Aprì la sua casella di posta elettronica e fece il download dei file che avrebbe controllato il giorno seguente, spostandoli su una nuova cartella. «Stevie, ma come fai ad avere il monitor del computer così pulito?»
Una voce conosciuta e noiosa interruppe la sua concentrazione.
«Suddivido tutto per cartelle. Così riesco a trovare ciò che mi serve in minor tempo» rispose senza curarsi troppo del suo collega.
«Ma, non ti fa paura tutto quest'ordine? Si dice che chi è troppo ordinato in realtà sia uno psicopatico» il ragazzo si fece ancora più insistente, procurando in Stevie un certo fastidio. Lei non rispose, decidendo di ignorarlo.
«Piantala di battere la fiacca e torna al tuo lavoro.»
Era la voce di Diana che, dalle vetrate del suo ufficio, aveva visto l'accaduto. Ma tutti io li devo trovare? Pensò la donna. Il ragazzo intanto batté in ritirata, lasciando Stevie a contemplare il suo ordine perfetto. Le matite con la punta, le gomme nello stesso cassettino del portaoggetti della sua scrivania, le penne nel contenitore blu, la stampante in perfetta angolatura con il tavolo e il monitor del pc leggermente inclinato. Assorta nei suoi pensieri davanti a quello schermo, Stevie sentì il cellulare squillare e, nel display, apparve un numero sconosciuto.
«Pronto?»
«Ciao, Stevie.»
Una matita cadde a terra e la punta si frantumò all'istante. Il suo ordine era appena stato turbato.
«Stevie.»
«Kyle?» Da otto anni non pronunciava più quel nome.
«Non riattaccare, ti prego.»
«Che cosa vuoi?»
«Rivederti.»
Stevie chiuse la chiamata e portò il telefono, con entrambe le mani, sul petto. Lo sguardo si rivolse frettolosamente altrove, cercando un riparo da ricordi scomodi e indiscreti.
«Ehi, miss perfezione, ti è caduta questa.»
Quell'impertinente del suo collega raccolse la matita e la appoggiò sulla scrivania della donna. Stevie lo vide senza guardarlo. Prese la matita e la infilò nel barattolo in metallo, senza occuparsi della punta.
«Grazie.» Erano appena passate le tredici e trenta e, quel giorno speciale, tutto doveva tornare al suo posto. Ripose le sue cose nella borsa, salutò i colleghi e andò via. Nel breve tragitto fino all'auto, il telefono squillò ancora. Vedendo di nuovo quel numero sconosciuto, la sua mente precipitò nel caos, il caos era Kyle e Kyle era dall'altra parte del telefono.
«Pronto?» «Ti prego, non riattaccare.»
«Che cosa vuoi?»
«Te l'ho detto, rivederti.»
«Dopo otto anni e come se nulla fosse successo?»
«Non ti avrei cercato se non per quello che è successo.»
Il mondo intorno divenne vuoto, grigio, spento. Come se un'apocalisse di intenti fosse arrivata a infliggere il colpo finale. Il silenzio, durato otto anni, iniziava a fare rumore. La lava di quel vulcano, che aveva raso al suolo la vita della sua famiglia, iniziava a ribollire. Lo sguardo perso dentro quel vuoto inerme, privo di esistenza, cercava un appiglio per salvarsi ancora una volta.
«Stevie ti prego.»
La donna chiuse gli occhi. Per la prima volta, dopo così tanto tempo, rivide la scena del suo destino: King galoppava come un pazzo e precipitava nel dirupo. Chiuse la chiamata come unica difesa, il cuore accelerò i battiti e il respiro divenne affannoso. La vista si offuscò e sentì il bisogno di sedersi. Su una panchina proprio di fronte all'agenzia, si consumava lentamente la minaccia di ciò che era stato. Il calpestio dei passi delle persone la destò da quell'incubo irreale, ricordandole dei preparativi per il compleanno. Una luce flebile, piccola e lontana, illuminava appena un passaggio segreto, per navigare nei ricordi di un passato tanto struggente quanto invincibile. Era come una lampada coperta da uno straccio, posato lì, in attesa di un forte vento, per essere soffiato via e con esso anche il ricordo di Kyle. Il telefono squillò ancora, ma questa volta era un messaggio. Sono seduto in una panchina sulla strada per il vecchio mulino. Ti aspetto ancora un po'. Kyle. Stevie salì in macchina e dopo qualche chilometro si trovò davanti un bivio, contrassegnato da un cartello di vecchia memoria che, sulla sinistra, portava a quel vecchio mulino. A destra invece, la via della salvezza, la sua casa e la sua famiglia. Il sangue iniziò a ribollire, la rabbia le fece dimenticare ogni cosa. Il suo sguardo si assentò dalla realtà dimenticando la via di scampo: Franck e sua figlia, Skyler. Schiacciò il pedale quanto più poteva. Era fuori di sé, ogni tanto la macchina sbandava e dopo circa quattro chilometri di strada fatta di curve, arrivò a destinazione. Fermò l'auto e rimase in silenzio a osservare. Dietro le foglie di una grande quercia, un uomo se ne stava seduto su una panchina, segnata dal tempo e dalle intemperie. Aveva i capelli castani raccolti con un elastico nero e una ciocca che scendeva sulla guancia coperta da una barba non troppo curata. Sembrava portasse i jeans, come i vecchi trascorsi, le scarpe scure e una maglietta bianca. Chissà se il tempo era stato clemente con lui. Le lacrime sciolsero la riserva e scesero a cascata per ciò che era stato e per ciò che, forse, ancora sarebbe potuto essere. La portiera della macchina si chiuse dietro di lei e senza volerlo annunciò all'uomo il suo arrivo. Kyle, con le mani in tasca e a passo moderato, si diresse verso Stevie. Gli occhi, specchio di animi e tormenti, si incollarono gli uni sopra quelli dell'altra.
«Stevie.»
«Fermo! Non voglio che ti avvicini.»
«Ok.»
«Cosa vuoi? Dopo otto anni, che cosa vuoi?»
«Come stai?»
«Sto bene. Ora sto bene. Mi hai chiamato per dirmi questo? Ti ho risposto. Posso andare?»
«Aspetta! Stevie, aspetta. Ti prego.»
«Hai la più pallida idea del male che mi stai facendo?» le lacrime scesero ancora e ancora.
«Lo sto facendo anche a me» il viso di Kyle si bagnò di un dolore che iniziava a presentare il conto. Stevie si stupì. Kyle Tylor sapeva piangere? Dov'era la sua corazza di uomo tutto d'un pezzo che domava cavalli, persone, emozioni? Aveva forse domato anche sé stesso?
«Kyle dimmi cosa vuoi!» con una mano si asciugò il viso e stringendo le spalle incrociò le braccia.
«Se mi chiedi cosa voglio, la risposta è che voglio te.»
Stevie montò sulla bocca un sorriso sarcastico e fece per andarsene voltandogli le spalle.
«Aspetta!»
«Non devi avvicinarti!»
«Ok, sto dietro questi rami, ma non andare via.»
«Che cosa vuoi?» Stevie cercava una giustificazione, da sbattere contro la sua razionalità, per restare, continuando a fare la stessa domanda, in attesa di una risposta che potesse andarle bene.
«Trascorrere un po' di tempo con te.»
«Ancora? Senti, Kyle, sono sposata e ho una figlia. Non ho tempo da perdere. Ti ho cancellato dalla mia vita il giorno che ti hanno arrestato. Ti hanno dato troppo poco per quello che hai fatto. E ora è troppo tardi per tornare indietro.»
Questa volta Stevie andò via per davvero. Kyle si fermò a guardare la figura della donna, mentre rivoltava di nuovo un microcosmo di emozioni latenti e rievocate in quell'istante. Si perse, tra ragione e amore, cercando un senso a tutto questo. Stevie guidò lentamente quasi a non voler rientrare a casa. Pianse ancora, vecchi rumori riaffiorarono, apoteosi di un amore indomito finito in tragedia. Accostò la macchina e, dai finestrini lasciati aperti, un leggero vento caldo le accarezzava il viso, mentre si lasciava andare a un pianto e a una preghiera disperata.
«Dio mio, non farmi questo. Perché hai riportato il demonio nella mia vita, perché? Che cosa ho fatto per meritare tutto questo? Dio, ti prego non farmi sprofondare di nuovo. Caccialo via per sempre.»

Una famiglia perfetta

Erano le sedici e trenta di quello stesso pomeriggio, la strada di rientro fu un vortice di vecchie memorie, riesumate dal sonno eterno, di ciò che era stato e per un motivo che ancora nessuno dei due capiva. Stevie passò dalla pasticceria in fondo alla via, non troppo lontano da casa, per ritirare la torta e due vassoi di dolci alla crema di limone, i preferiti di suo marito Franck. Pagò e andò via. Il giro di chiave fece aprire la serratura del portone di casa con un rumore quasi impercettibile. All'ingresso c'era una cassapanca con appendiabiti a spalliera in ciliegio chiaro e levigato, con quattro appendini dorati. Vi posò la borsa, le chiavi dell'auto, la torta e i dolci impacchettati. Si sedette un attimo, come a riprendere fiato, mentre gli occhi iniziarono a vagare. Attaccò le sue mani al bordo della seduta e con le dita innescò un ritmo che faceva un rumore sordo nel silenzio della sua casa vuota. Anche i capelli cominciavano a darle fastidio. Si tolse le scarpe, lo smalto rosso era ancora lì a fare il suo dovere abbellente. Il pavimento era fresco e, appoggiandoci i piedi, sentì un po' di sollievo. Portò la gonna di lino bianco sopra le ginocchia, il caldo cominciava a essere noioso. Non amava il freddo, riusciva a sopportare di più l'afa. Il gelo le ricordava cose brutte e le cose brutte la riportavano a Kyle. Ancora lui, sembrava quasi che quel giorno dovesse recuperare tutti gli anni in cui era riuscita a scordarlo. Era bastato sentire la sua voce per scombinare tutte le sue funzioni vitali. Ripose i dolci nel frigorifero e andò a farsi una doccia. Il bagno stava al piano di sopra e, nonostante avesse sigillato tutti gli infissi dalla mattina presto prima di uscire, il caldo si faceva sentire. Accese il climatizzatore, fissando la temperatura a ventisei gradi. L'acqua, appena tiepida, quasi fredda, scorreva veloce sulla pelle, lasciando che le gocce ricoprissero il suo corpo. Infilò la testa sotto il getto, chiuse gli occhi per ripararli e, subito, di nuovo, ancora, quella visione. King cadeva nel buio del dirupo. Chiuse l'acqua con un gesto brusco. La realtà la inghiottì e King sparì di nuovo dai suoi pensieri. Cominciava a essere tardi e non aveva ancora preparato nulla. Skyler era dai nonni e sarebbe tornata a casa, direttamente per cena, con loro. Il catering sarebbe arrivato alle diciannove e trenta. Guardò l'orologio appeso nel muro della sua camera: erano le sette meno un quarto, si affrettò, quindi, a preparare la sala da pranzo. Il tavolo era stato allungato fino a tre metri. Pensò a come sistemare le portate, così decise che a destra avrebbe messo gli antipasti, crocchette di calamari e di gamberi, triglia in salsa di cipolla e sedano, accompagnata da un tris di verdure grigliate, peperoni, melanzane e zucchine. A seguire, come primo, scelse un'insalata di riso con acciughe, code di gambero e cozze sgusciate, condita con un pinzimonio di limone, olio, aceto di mela e pinoli e, sopra, una spolverata di prezzemolo tritato. Il secondo prevedeva una grigliata di pesce, tra orate, sgombri, spigole e anguille, accompagnato da patate al forno e verdura fresca. La frutta di stagione non poteva mancare, Franck andava matto per l'ananas. Tutto doveva essere perfetto per quell'uomo che, anni prima, le salvò la vita e l'anima. Squillò il telefono e il cuore di Stevie si agitò, ma, riconoscendo il numero di Franck, il sereno tornò all'orizzonte.
«Ciao, tesoro! Come stai?»
«Ma dove sei finito? Ti aspettavo un'ora fa. Oggi non c'è nemmeno Skyler!» rispose Stevie, con una malizia non troppo velata, mentre indossava il vestito svasato color pesca che metteva in risalto l'abbronzatura.
«Lo so, lo so, mi farò perdonare.»
«Franck, non devi portarmi un regalo il giorno del tuo compleanno!»
«Ah sì? C'è una legge che me lo impedisce?»
«No, ma il giorno del tuo compleanno io faccio il regalo a te. Il giorno del mio compleanno tu fai il regalo a me.»
«Tu sei il mio regalo più grande. Ogni giorno!» la voce di Franck lasciò trasparire un pò di quella tenerezza che ogni giorno dedicava a sua moglie.
«Sono quasi a casa.»
«Ti aspetto.»
Stevie riprese i preparativi. Sul davanzale della finestra della sala, c'era un vaso di cristallo lungo con dei fiori che ormai avevano fatto la loro storia. Li guardò impietosita, li gettò nella spazzatura e uscì in giardino a coglierne degli altri. Nonostante il caldo, vi era una pianta di rose che mostrava i suoi fiori in tutto il loro splendore, anche se di solito erano un po' sciupate. Quel giorno, invece, il loro colore rosso vellutato era morbido e liscio. Si avvicinò con le cesoie per raccoglierne un paio, ma una spina la punse.
«Ahi! Dannazione, Stevie, stai attenta!» disse a voce alta. Cercò di tamponare subito la piccola ferita, portando alla bocca il dito e involontariamente lo sfregò sul vestito, sporcandolo.
«Oh no! E adesso? Ma che ho per la testa!» continuò. Corse subito in casa a cambiarsi. Fortunatamente aveva ancora l'abito nero da indossare. Intanto Franck era appena rincasato.
«Amore, sono a casa.»
«Sono in camera» la voce della donna corse lungo le scale raggiungendo Franck all'ingresso. L'uomo entrò nella stanza e vide l'abito sporco di sangue.
«Santo Cielo, Stevie che ti è successo?»
«Nulla di grave. Mi sono punta con le rose.»
Franck guardò sua moglie, la lingerie color carne le donava. Si avvicinò a lei e la cinse in vita, abbracciandola.
«Chiamo mia madre e le dico che voglio fare l'amore con mia moglie e che sarà bene che tardino un po' a precipitarsi a casa per la cena.»
«Dai!» Stevie si divincolò dalla presa con un sorrisino ironico. 
«Immagina se tua madre ci trovasse così!»
Franck si buttò sul letto ancora in divisa da lavoro, incrociò le mani dietro la testa e continuò a spogliare Stevie con gli occhi.
«Due figli li hanno fatti anche loro, come tutti. Mi risulta che la specie umana vada avanti sempre allo stesso modo, da parecchio tempo.»
«Smetti di fare sarcasmo gratuito. Mi chiudi la zip del vestito? Non ci arrivo.»
Franck obbedì all'istante. Prima però accarezzò la sua schiena.
«Ho completamente perso la testa per mia moglie.»
«Franck! Facciamo così, se Skyler vuole dormire da tua madre le daremo il permesso. Sei contento?»
«Mi accontento, ma a questo punto perché ognuno non cena a casa propria? Tranne nostra figlia, ovviamente!»
«È il tuo compleanno!»
«Oh, ma io non mi offendo mica!»
«Ci rinuncio! Cambiati, i tuoi arriveranno da un momento all'altro.» Stevie uscì dalla stanza per andare in sala da pranzo e sistemare il vaso di fiori, lasciando tutto solo il pover'uomo. Suonarono alla porta. I nonni erano arrivati.
«È aperto!»
«Mamma! Guarda cosa mi hanno regalato?»
Stevie non guardò subito verso Skyler, salutò prima i suoceri, ma quando si voltò vide tra le sue mani un cavallo a dondolo. Un vortice la assorbì e King cadde ancora una volta nel dirupo. Si riprese quasi subito, ma nel ricomporsi fece cadere a terra un portafoto che ritraeva la bimba quando aveva sei mesi e che le era stato regalato proprio dalla suocera.
«Oh, cara, ti sei fatta male?» la mamma di Franck era una donna premurosa e considerava Stevie come una figlia da sempre .
«Scusami Hannah, non so come sia successo. Ora pulisco tutto. Voi accomodatevi intanto.»
Franck entrò in sala attirato dal rumore.
«Stevie!»
«Oggi non so dove ho la testa!» replicò la donna con un po' di disagio.
«Non so proprio dove ho la testa» ripetè ancora.
«L'importante è che tu stia bene!»
Non appena tutto fu ricomposto, finalmente si sedettero a tavola. Il pesce era davvero ottimo. Skyler chiese ai genitori il permesso di potersi alzare e giocare con il cavallo a dondolo. Stevie ebbe un flash, ma questa volta King era tenuto alla corda da Kyle.
«Mamma!» Skyler richiamò l'attenzione di Stevie.
«Scusa tesoro. Sì vai pure. Hai mangiato, no?» la cena non era ancora finita, ma la piccola non era molto avvezza ad abbuffarsi e dopo aver mangiato un po' di pane e qualche verdura, non vedeva l'ora di poter andare a giocare, lasciando gli adulti ai loro discorsi noiosi.
«Peccato che tuo fratello non sia venuto!» chiosò Erick, il padre di Franck.
«Robert è sempre in giro per lavoro, lo sai. Da un tribunale all'altro. E poi è sempre a caccia di belle donne. Figurati se perde tempo qui.»
Robert era un avvocato d'ufficio di quarantadue anni, capelli castani, occhi verdi, naso greco e bocca carnosa. Alto circa un metro e ottanta, corporatura robusta e imponente, non amava troppo la palestra, ma le donne riusciva a farle impazzire lo stesso. Era, infatti, un Don Giovanni incallito, che passava da un letto all'altro, ma con uno spiccato senso altruistico nei confronti di chi si trovasse in difficoltà. I suoi docenti del college gli consigliarono, a suo tempo, di affidarsi a un noto studio legale, al quale loro stessi avrebbero mandato una lettera di presentazione, ma lui rifiutò perché voleva aiutare gli ultimi, i dimenticati, gli abbandonati.
«Skyler, vieni, papà deve spegnere le candeline!» disse Stevie.
La bambina corse tra le braccia di Franck e tutti e tre insieme soffiarono, come tutti gli anni, da quando erano diventati una famiglia. Arrivò il momento dei regali e i nonni, prima, gli consegnarono il loro, un orologio quadrato in acciaio e poi, da parte di Robert, un portafoglio in pelle nero con cuciture rosse, con dentro una moneta e un biglietto: Buon compleanno fratello, avremo altre occasioni. Per oggi ho preferito altra compagnia.
«Che ti ha scritto?»
«Solite cose mamma, solite cose! Nulla di nuovo» rispose il figlio con un sorriso strafottente disegnato in viso.
«Questo è da parte mia e di Skyler» Stevie aveva fatto fare il calco in gesso di un piede di ciascuno di loro. Lo aveva incorniciato con una dedica: Per sempre insieme. Franck abbracciò Skyler e baciò sua moglie. «Questo è per te» Franck porse a Stevie una scatolina rossa, dove c'era una catenina in oro bianco con un ciondolo a forma di cuore, sul quale erano impresse le iniziali dei loro tre nomi. Terminati i festeggiamenti, intorno alle undici della sera, Skyler volle dormire a casa con i suoi genitori, mandando in fumo i progetti di mamma e papà. Addormentatasi in auto, appena arrivati a casa, Franck la prese in braccio senza svegliarla e andarono a dormire. Dalla finestra entrò un po' d'aria fresca che accompagnò Skyler e suo padre nel mondo dei sogni non appena appoggiarono la testa sul cuscino. Anche Stevie chiuse gli occhi, la stanchezza prese il sopravvento. Si addormentò e sentì la sensazione di cadere nel vuoto, impotente, come se qualcuno la tenesse legata, obbligandola a guardare.
Stevie, aiutami Stevie, ti prego!
«Beth!»
Spalancò gli occhi. Il soffitto bianco somigliava sempre di più alla schiuma del mare in tempesta. Il petto si muoveva senza controllo. Riuscì a sollevarsi e mettersi seduta nel letto. Toccò il lenzuolo, quasi ad assicurarsi di essere tornata nel mondo reale. Franck e Skyler dormivano. Non si accorsero di nulla. Un solo pensiero la tormentava. Kyle. Perché sei tornato?

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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