Tra vivere e morire ho scelto me
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[Flashback] Ho sempre odiato il mio corpo, sin dalle scuole medie. In particolar modo il sedere. Una compagna mi prendeva in giro dicendo che lo avessi “a papera”. Provavo molta vergogna e cercavo sempre di indossare abiti poco aderenti e maglioni informi, in modo da riuscire a coprire le forme. Non solo a scuola però, anche alcuni parenti a volte facevano riferimenti a questa parte del corpo secondo loro pronunciata. Ci ridevo sopra, ma dentro stavo male anche se i primi evidenti problemi hanno iniziato a manifestarsi diversi anni dopo. Avevo deciso di perdere qualche chilo in seguito a qualche commento del tipo: «Ti trovo un po' ingrassata». Ho iniziato così a guardarmi allo specchio con occhio più critico. Certo autocritica lo sono sempre stata, però stava iniziando ad insidiarsi nella mia mente qualcosa di diverso, di più oscuro. Iniziando a perdere i primi chili, ero entusiasta e soddisfatta. «Sono stata proprio brava» mi dicevo. Tornavo a casa dal lavoro e la prima cosa che facevo ogni giorno era fiondarmi sulla bilancia. Più il peso scendeva, più questo mi dava gratificazione nel continuare. I miei genitori dopo un po' hanno cercato di farmi notare, insistendo parecchio, che forse stavo esagerando e che non avrei dovuto dimagrire ulteriormente. «Tranquilli, è tutto sotto controllo, non dovete Preoccuparvi». Ma in realtà quello che non sapevo è che quel controllo che tanto sostenevo e pensavo di tenere in pugno, lo avevo già perduto da un pezzo. Nel giro di tre mesi ero dimagrita ben dieci chili. Quello che contava era riuscire ad avere potere sul cibo, essere cioè più forte di qualsiasi tentazione. Provavo un senso di onnipotenza nonostante ci stessi male. Il fatto di dover controllare le calorie di qualsiasi cosa, il pensare in continuazione a come programmare i pasti oppure gestire l'arrivo dei sensi di colpa qualora avessi mangiato qualcosa che non avrei dovuto, erano tutte fonti di enorme stress e aggiungevano ansia a quella che già avevo: schiava della bilancia e con l'umore correlato ai numeri. Avevo scaricato un'app per tenere il conto delle calorie assunte nell'arco della giornata. Al massimo arrivavo a 500, le volte che andava bene, 600 al massimo. Non so nemmeno come riuscissi a stare in piedi. Avevo il viso scavato, il colorito della pelle cadaverico e i vestiti erano ormai diventati enormi. Quando prima entravo nei camerini ne uscivo piangendo, ora invece guardavo lo specchio stentando a credere che quella fossi io. Ciò che vedevo, per la prima volta, mi piaceva. Mamma non riusciva a vedermi così, era molto preoccupata. Dopo aver parlato con una sua cara amica, propose di contattare una struttura molto ben valutata. Inizialmente non volevo assolutamente andare, ma mamma insistette talmente tanto che alla fine, per non sentire più le sue lagne, ho telefonato per fissare un appuntamento. [Torno al presente] Non sto facendo miglioramenti significativi, se non qualche oscillazione in cui il peso sembra salire ma la volta successiva torna a scendere di nuovo. Così ad un certo punto la nutrizionista parla chiaro: aggiungerà alla dieta degli integratori calorici come ultimo tentativo, dopodiché se non ci sarà un aumento di peso, verrà proposto il ricovero. Sono terrorizzata all'idea di dover ingurgitare altre calorie e scoppio a piangere di fronte a lei, che però rimane impassibile e continua a scrivere. Quando usciamo, io e mamma andiamo in farmacia a prendere questi maledetti integratori. Ci sono diversi gusti: fragola, banana, cioccolato, cappuccino... ma poco importa; sinceramente vorrei solo essere libera di mangiare ciò che decido io. La prima settimana mi sforzo di assumere ciò che devo, ma poi non riesco a continuare oltre. L'idea di ingrassare è un tormento continuo. Litigo anche con mamma perché voglio che mi dia la bilancia. Non ce la faccio, sono disperata. Ho chiesto al medico se può prescrivermi un paio di settimane di malattia, almeno per non aumentare lo stress, oltre al fatto che ho iniziato ad avere alcuni effetti collaterali di un farmaco che sto assumendo: nausea, mal di testa, vertigini, fotosensibilità. A fine anno a molte di noi scade il contratto, ma la responsabile mi ha assicurato di stare tranquilla e di prendermi tutto il tempo che occorre per stare meglio. «Non preoccuparti, Greta, pensa a guarire. Quando te la senti, il tuo posto è qui». Una menzogna bella e buona. Niente rinnovo del contratto, sono stata tradita e presa in giro. Continuo il percorso presso il centro con addosso la pressione di dover cercare qualcos'altro: ora non ho più un lavoro. Tutto sta andando a rotoli. Eppure la maggior parte delle persone pensa che basti volerlo. Volere cosa, esattamente? Ingrassare, oppure smettere di pensare ossessivamente al cibo e alle calorie? Oppure credere di meritare una vita degna di amore, oppure accorgersi all'improvviso che tutti ti lasciano libera di essere come sei? C o s a
I n t e n d e t e
Q u a n d o
D i t e
C h e
B a s t a
V o l e r l o? È il 1998, siamo in Gran Bretagna e Arthur Crispr, un professore di psichiatria, assieme al suo gruppo di studiosi, coinvolge più di millecinquecento persone con una selezione casuale, a cui sottopone un questionario per approfondire la percezione sociale su varie malattie mentali. Neanche a dirlo, il risultato dello studio evidenzia che più di un terzo degli intervistati colpevolizza le persone con un DCA (Disturbo del Comportamento Alimentare) per la condizione in cui si trovano, in quanto sarebbero in grado di guarire in qualunque momento, se solo lo volessero. Trascorrono molti anni. Siamo nel 2015: è la volta di un gruppo di ricercatori italiani: partecipano al sondaggio oltre duemila studenti di un'università milanese compilando dei questionari online. I livelli più alti di stigma sono presenti nei giovani di età compresa tra i diciotto e i venticinque anni che vivono in famiglia. Queste le considerazioni più frequenti: «I disturbi alimentari sono un modo per attirare l'attenzione». Veramente, per quanto mi riguarda, vorrei scomparire. «Le persone con un disturbo alimentare dovrebbero smetterla di ossessionarsi per il loro aspetto e il loro peso». Pensa te, e io che credevo fosse un pregio sentirmi ossessionata! «Dovrebbero lavorare di più sull'autocontrollo per guarire dal disturbo». Wow, questa me la segno. Alla fine, sia pure a distanza di quindici anni, è singolare come le considerazioni sui DCA siano così simili tra loro. Il terreno comune, infatti, è credere che i DCA siano una scelta e che chi ne è affetto sia responsabile della propria condizione. Naturalmente, un disturbo alimentare non è mai una scelta. È una malattia. Una persona con anoressia nervosa, bulimia nervosa, binge eating disorder (o qualsiasi altro DCA) non ha alcun controllo sulla propria condizione, esattamente come non ce l'ha un individuo affetto da malattie tipo il Parkinson o l'Alzheimer. Non è finita così. Infatti ancora più recentemente, tra il 2018 e il 2019, un secondo gruppo di studiosi italiani conduce un'indagine simile. Questa volta però, i partecipanti sono studenti iscritti al corso di laurea in Infermieristica, quindi ci si aspetta che siano liberi da qualunque forma di pregiudizio, dato il ruolo che andranno a ricoprire. Ciò che emerge, secondo i laureandi, è che la causa principale dell'insorgenza dei DCA sia da ricondurre all'influenza dei social media. Spesso, è vero, le influenze socioculturali rappresentano fattori di rischio, ma in questo caso è una semplificazione, oltretutto, estrema e sbagliata. I DCA sono disturbi mentali co-causati da più fattori: o meglio, sono l'interazione tra essi. Raramente è una sola causa a determinarne l'insorgenza. Prendo come esempio l'anoressia nervosa perché ne ho sofferto: è una malattia che ha basi genetiche, psicologiche, sociali e relazionali, eppure nessuno di questi fattori è sufficiente, da solo, a provocarla. Le persone affette da disturbi alimentari sono consapevoli della macchia sociale che pesa su di loro e di come si adducano cause superficiali per spiegarne i disturbi. Tutto questo ha effetti negativi sul piano psicologico, sociale e relazionale. La principale conseguenza è l'autostigma: si prova vergogna, senso di colpa, fino ad arrivare a credere di essere davvero responsabili della propria condizione. Ciò può portare a nascondere il disturbo, invece di comunicarlo e affidarsi a professionisti così da poter ricevere le giuste cure. Non ultimo, tutte le credenze intrise nel tessuto sociale rischiano di ostacolare le diagnosi e i trattamenti precoci, che sono invece cruciali per gestire questo genere di malattie.
Angela Gattuso
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