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Autore: Francesco Merli
Lucien
Thriller Storico
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Lucien
Sud ovest della Francia, autunno del 1248.
Nel cuore di un fitto bosco...

Deve essere notte inoltrata, pensò il giovane risvegliandosi con un forte rumore di zoccoli nelle orecchie.
Provò ad aprire gli occhi con scarso successo, non ne aveva le forze e, anzi, non gli importava poi molto di riuscire a farlo.
Dove lo stessero portando, persino chi e il perché, non era più rilevante e tutte quelle domande che si affacciavano alla mente venivano ricacciate con forza, volutamente, suonavano come ormai prive di senso. La morte, solo quella, ne racchiudeva ancora, forse, uno. Già... La morte, quella il cui odore risultava chiaramente impregnare e saturare il legno inumidito di quel piccolo carro adibito al trasporto, all'esterno della città di Foix, di moribondi e cadaveri, gli stessi dei quali avvertiva il contatto in diversi punti del corpo, freddo e rigido, salme di uomini e donne passati a miglior vita da ore, forse giorni, e perduti come ormai altro non era che lui, Lucien De La Croix, Barone di Carcassonne, che non riusciva neppure più ad aprire gli occhi, che soccombeva al decorso avanzato e inesorabile di un morbo strano, che nessun medico interpellato era riuscito a riconoscere e che gli aveva risucchiato via anche l'ultima scintilla di vitalità. Lui, che era stato un vigoroso e promettente giovane, un cavaliere migliore di chiunque avesse mai incrociato il suo cammino, un abile e formidabile combattente temprato grazie ad allenamenti assidui e costanti protratti negli anni della sua formazione, un passato da sempre caratterizzato da eccellenze e vittorie in ogni campo, lui che era stato amato dal suo popolo, che aveva combattuto per far valere i propri ideali nonostante gli agi che i titoli avrebbero potuto garantire senza sforzi, lui, al quale il coraggio non era mai mancato e che ora sentiva non trovarne più, che non avvertiva più vita scorrergli in corpo ma solo amarezza unita a tanta, troppa, stanchezza.
Con rammarico e senso di totale sconfitta chiuse gli occhi sprofondando in un sonno tormentato e vaneggiante.

Lucien riacquisì nuovamente conoscenza solo quando il carro prese a rallentare, destato dal gran vociare rivolto ai cavalli di chi lo conduceva.
Il rumore degli zoccoli non era più nitido, ma risultava di molto attutito, come ovattato, da quella che avrebbe certamente potuto essere morbida erba. Anche l'odore dell'aria era diverso, ora l'avvertiva più fresca e profumata.
C'era quiete tutt'attorno, una quiete che pulsava di attività vitale e file e file di ombre si stagliavano innanzi a lui, le intravedeva dagli occhi semiaperti: erano tronchi d'alberi e fusti di alte piante. Pensò, a buona ragione, di trovarsi in un bosco e immaginò d'essere molto lontano da Carcassonne, dal castello, da casa sua, o meglio, da quella che una volta, tempo addietro, lo era stata. Un tempo perduto per sempre, ormai infinitamente lontano e tremendamente irraggiungibile.
Il carro rallentò gradualmente fino ad arrestarsi. Qualcuno scese in fretta e lui si sentì afferrare e scaraventare a terra da un paio di braccia nerborute dopo esser stato sollevato come una bambola di pezza. Era terribilmente gracile, denutrito fino all'osso, neppure l'ombra di ciò che un tempo era stato.
Atterrò sul morbido e sentì il terreno umido sotto il palmo delle mani. Era disseminato di foglie cadute da poco miste ad altre più tenere e fragili, probabilmente già in decomposizione avanzata a giudicare dall'odore e dalla consistenza al tatto.
Seguì un rumore di tonfi sordi attorno a lui unitamente a una serie di sbuffi. Poi qualcuno salì nuovamente alla guida del carro, tirò le redini gridando nuovi comandi ai cavalli che nitrirono e partirono all'istante.
Lucien ripensò, con un sorriso malinconico, al nitrito possente e inconfondibile del suo amato Naeem e sotto le mani, anziché le foglie, ritrovò il contatto con il pelo ruvido e con i crini scuri dello splendido animale, ma prima ancora amico, compagno di tante avventure, e si trovò nuovamente al galoppo fra campi di grano sul limitare del tramonto rossastro, soli, uniti nel vento ad attendere l'arrivo delle stelle che timide, a mano a mano, si affacciavano nel cielo ad annunciare l'arrivo della luna e della notte. Ma la visione durò poco e l'angoscia della realtà colpì nuovamente e con più forza di prima.
Fu lasciato lì, nel bel mezzo di un querceto e il carro si allontanò in fretta percorrendo l'abbozzo di sentiero che si apriva nella selva, ripercorrendo quello intrapreso all'andata.
Lucien ne seguì il percorso tendendo l'orecchio e non passò molto tempo prima che anche il più sommesso rumore di ruote svanisse in lontananza perdendosi nel vento che ora trascinava con sé non più flebili rumori di sottobosco, ma l'eco di minacciosi ululati lontani.
Steso a terra, immobile, respirando a fatica con emissioni di quantitativi di fiato impercettibili, non riusciva a sentire più quasi nulla in nessuna parte del proprio corpo. Era debole oltremisura e sarebbe risultato faticoso persino muovere qualche dito, figurarsi cercare di sollevarsi sui gomiti. Rimase lì, con l'aria fresca che penetrava sotto i vestiti e che era causa di una lieve pelle d'oca, con il viso premuto contro il soffice terreno profumato.
Si concentrò, allora, su ciò che gli giungeva al naso: c'era odore di foglie, di legno fresco e marcio, di muschio, di umidità e di terra, una terra buona, selvaggia e ricca di vita.
Gli parve quasi di poter riuscire a udire i piccoli, microscopici passi di centinaia di artropodi che deambulavano al di sopra e al di sotto del manto del bosco per mezzo di esili ma efficienti appendici, insieme a moltitudini di vermi e piccole creature striscianti, che sospingevano le proprie masse lentamente, seppur incessantemente, fra zolle di terra, radici di alberi, tuberi e funghi alla ricerca di nutrimento scavando in profondità: carcasse, vegetali o animali poco importava. A breve, pensava, si sarebbero cibati anche della sua. La vita non sprecava nulla, emise un profondo rantolo semisoffocato, tutto rientrava in un eterno ciclo, si trasformava in continuazione ma non cessava d'esistere mai.
Inspirò profondamente anelando più aria nei polmoni. Il terriccio sotto di lui divenne ancora più umido, bagnato di lacrime, esigue quanto incontenibili, che venivano inghiottite dalla terra e svanivano nelle profondità di essa. Singhiozzi scossero quel corpo esausto e ruppero quella veglia d'impotenza e quel silenzio che ora, col quietarsi del vento, era calato, assordante, come un velo spesso tutto attorno. Non piangeva per essere caduto vittima di quella strana malattia, non piangeva per il dolore, per i crampi avvertiti in ogni dove che lo avevano attanagliato per mesi e mesi inchiodandolo a letto, prima, e sul ciglio delle strade, lontano da casa, poi, non lo sentiva nemmeno più, e non era certo per la paura della morte, nonostante la sentisse chiaramente sopraggiungere, lenta e inesorabile, nel corpo, nella mente e nell'anima; non era neanche per la solitudine, ormai così amara ma alla quale aveva fatto l'abitudine, né per la disperazione di un amore perduto, per una vita intera distrutta e smembrata senza una logica spiegazione e neppure per l'insieme di tutte le sciagure che gli erano piovute addosso in breve tempo; no, non era per questo che una profonda e cocente sofferenza totale stringeva ora il suo cuore che rallentava i battiti sempre più. Era bensì il senso di impotenza, di ingiustizia, la mancanza di forza per poter anche solo odiare, con tutto sé stesso, coloro che erano stati causa di tutto, chi l'aveva tradito e chi l'aveva dimenticato.
Volse lo sguardo al cielo, era limpido e brulicante di fulgide stelle, lo maledisse con tutta la propria forza d'animo sperando, in cuor suo, che quelle parole raggiungessero chi sapeva con certezza, dall'inizio dei tempi, vi abitava al di sopra.
«Se è vero che esiste un paradiso», tossì, «madre, padre, fratelli miei... amore mio...» perfino mormorare era divenuta ormai un'impresa, la lingua trovava difficoltà, come le labbra, a muoversi per articolare le parole, la salivazione era esigua e l'aria era appena sufficiente a far vibrare le corde vocali, «mi auguro possiate trovare la vostra dimensione di pace e che abbiate la forza di perdonare un figlio, un fratello, un amante, che oggi spera di non farne parte.» Tossì ancora e si portò, lentamente, una mano alla cintura da cui pendeva un piccolo sacchetto in cuoio, quella cintura che stringeva in vita i resti di quella che una volta era stata una stupenda tunica di un intenso blu oltremare, quel blu che da sempre era caratteristico della sua casata, ormai sgualcita, logora, strappata e sporca. Ne estrasse con piccoli movimenti una minuta, seppur finemente lavorata, croce d'argento.
Strinse la presa sull'oggetto con tutte le forze rimanenti e più chiudeva il pugno con forza più avvertiva il cuore sprofondare, pesante, in un abisso senza luce, imboccare una strada senza ritorno, perdersi in un labirinto senza uscite. L'aria stessa che respirava parve farsi più densa e pesante, e faceva male, ad ogni respiro, come se bruciasse dall'interno una volta raggiunti i polmoni.
Scagliò la croce lontano con estrema rabbia, sorpreso di quell'ultimo gesto di vitalità che prosciugò finanche l'ultima briciola di energia che gli era rimasta in corpo e stette fermo, immobile, a osservarla baluginare un'istante prima di finire inghiottita nell'oscuro incavo fra le radici di un imponente albero poco distante. Era svanita nelle tenebre, proprio come si sentiva lui stesso: perso, distrutto e senza speranza.
Era prigioniero del buio della notte più profonda che riuscisse a rammentare, circondato dalla moltitudine di rumori del bosco accresciuti, ingigantiti oltremisura, dal panico e dalla suggestione si erano fatti più concreti, vicini, distinti... minacciosi.
Lucien rabbrividì arresosi alla cruenta forza insovrastabile della realtà, preparandosi ad accettare passivamente, suo malgrado, la propria fine.
Fu allora che lo avvertì, in un istante, fulmineo e netto come il calare della scure di un boia sul collo di un condannato a morte al centro della piazza, il sopraggiungere improvviso di un assoluto silenzio: non un filo di vento, non un movimento fra le fronde degli alberi tutt'attorno né una singola foglia caduta da un ramo.
La vita, sembrava fosse stata risucchiata tutta insieme e cristallizzata così com'era, congelata e affidata all'eternità del tempo, racchiusa in un frammento di istante. Si scoprì a spalancare gli occhi, curiosamente e stranamente lucido e attento come pensò subito la propria condizione non avrebbe permesso di essere, ma, anzi, come non lo era da tempo, forse, addirittura, come non ricordava di esserlo mai stato prima d'allora.
«Lucien...»
Nell'aria sembrava aleggiare il suo nome, o forse se lo era solo immaginato.
«Lucien...»
Un sussurro trascinato nel vento, solo che non spirava un filo d'aria, neppure il più flebile alito, non si muoveva nemmeno una foglia.
«Lucien...»
Ora ne era convinto. Qualcuno lo chiamava e la voce sembrava provenire dall'abisso nero che si apriva proprio sotto la grande quercia verso la quale aveva gettato la croce. Focalizzò come meglio possibile lo sguardo. Sì, pensò, c'era indubbiamente qualcosa che si muoveva, che ansimava per giunta, qualcosa di strano che fu causa di brividi tremendi lungo tutto il corpo dell'uomo.
Non sembrava affatto un animale, ma piuttosto un'ombra, informe e imponente, che pareva sospingere la propria massa amorfa con forza e fatica fra mugolii sommessi per farsi strada all'esterno, fra gli spazi presenti tra le imponenti radici contorte. Era buio pesto e la luna in cielo, solo un'esile falce, rischiarava poco tutt'attorno ma quel tanto che bastò per permettere a Lucien non di vedere ma, piuttosto, di intuire i contorni di quell'essere fuori dal comune.
Si era eretto lentamente su due... no, non gambe, dovette convenire con sé stesso, piuttosto zampe, zampe caprine, lunghe, pelose e arcuate, munite di zoccoli a giudicare dal rumore che producevano i passi sul terreno, attutiti come quelli dei cavalli del carro ma ancora più inconfondibili.
Quell'essere, pensò Lucien, doveva aver un peso immane e non solo risultava alto più di due metri e mezzo ma era anche dotato di una lunga coda sottile che si agitava sinuosa, la silhouette era quella di un torace maschile, spalle larghe, braccia imponenti, avvolto, in parte, da un una sorta di grande alone caliginoso che si trascinava dietro, osservandolo più attentamente avrebbe potuto giurare si trattasse di un mantello di vere e proprie ombre vive che fluttuavano tutto attorno a schiena e spalle a guisa di grandi ali e che abbracciavano una vasta porzione di spazio da ambo i lati. Non riuscì a vedere chiaramente la testa, però dai contorni della figura scura, della quale risultava impossibile focalizzare i tratti somatici così come qualsiasi altro dettaglio, gli parve di scorgere la presenza di due lunghe corna ritorte. Deglutì stupito e sconcertato, non sapendo cosa fare né come agire. Era confuso ma, più che spaventato, in un certo senso ne era attratto.
In un'altra situazione pensò che avrebbe reagito diversamente, ma quella che si ritrovò a constatare, meravigliato, non era più paura ma tutt'altro, avrebbe potuto quasi definirla un profondo senso di rassicurazione.
«È solo alla fine, che si riscopre l'inizio.» La figura misteriosa parlò con voce profonda, lontana, tonitruante. Sembrava in grado di contenere la potenza di un terremoto tenuta sotto il controllo di un animo imperturbabile e figurava molto antica, quanto il mondo, pensò, se non di più.
«Chi sei?» provò ad articolare Lucien con un filo di voce che gli morì in gola.
«Io ero... sono... colui che porta la luce. Come te, che sei insignito di un nome importante. Eppure, non è solo che un tenue bagliore quello che dimora ancora nei tuoi occhi. Spettro evanescente e nulla più di un fulgido e accecante passato. Io posso donarti nuovamente quella luce, aiutarti a ritrovarla, ma stavolta più forte, più splendente, più abbagliante di prima. Talmente superiore che non sopporteresti nemmeno più la vista della luce naturale stessa, che ti risulterebbe talmente misera, grezza e impura tanto da rivelarsi mortale per un essere d'elevazione superiore come quello che diverresti.»
Mille domande si susseguirono rapidamente nella testa eppure, fra tutte, quella che Lucien si trovò a porre con inaspettata determinazione, schiettezza e lucidità fu una sola, e ne rimase sorpreso: «Come?»
L'altro, parve quasi sorridere. «Non temi la morte. Questo lo so. E lo so da sempre. La vera domanda, però, è un'altra: ami la vita?»
«Questa non è vita. L'ho ripudiata... insieme a tutto il resto.»
«E la Salvezza? Non ti interessa?»
«No, affatto. E poi, non credo ve ne sia più una... non per me.»
«Non sai di cosa parli.»
«Io voglio solo...»
«Dillo! Avanti!» lo incalzò.
«Vendetta» concluse Lucien glaciale.
Ci fu una pausa di silenzio. «Cosa saresti disposto a dare?»
«Tutto» sentenziò senza esitazione. «Ma ho davvero poco da offrire.» Un sorriso amaro gli si dipinse in viso.
«Hai ancora tutto, invece.»
«Dimmi cosa e dimmi come.»
«Rinnega il cielo. Dimentica chi e cosa sei. Rinuncia sul serio alla salvezza offrendomi la vita e compi la tua vendetta.»
«Mi sembra fin troppo facile.»
«Lo è.»
«Il prezzo?»
«Il... prezzo?» L'altro parve inclinare la testa.
«C'è sempre un prezzo. Non mi convincerai del contrario.»
«Il prezzo...» fece una pausa «per come lo intendi tu, è una vita nell'oscurità. Pura. Oltremisura. Senza via d'uscita. Attorno e dentro di te. Abbracciala e non te ne pentirai.»
«E sia» rispose subito Lucien. Seguì nuovamente silenzio.
«E sia, dunque» concluse l'altro. Poi si mosse rapido come Lucien non aveva mai visto fare a nessun essere vivente prima d'allora e scomparve nell'oscuro passaggio dal quale era strisciato fuori.
Lucien chiuse gli occhi, nuovamente colto da stanchezza, convinto di aver immaginato tutto in preda al delirio, ma non ebbe il tempo di tentare di rassettare i propri pensieri che avvertì un movimento fra le foglie fruscianti. Qualcosa avanzò verso di lui e si arrestò accanto alla sua mano destra.
«Distruggila», sospirò la voce nell'oscurità. «Distruggila e tutto sarà compiuto.»
Come destato da un sogno, Lucien mosse la mano, l'allungò lentamente tastando il terreno fin quando non sfiorò qualcosa di freddo. Ritrasse istintivamente le dita per un momento. Tentò di nuovo, con più coraggio, senza fermarsi e si ritrovò a contatto con un piccolo oggetto gelido che afferrò e rigirò fra le dita. La riconobbe immediatamente: era la croce che aveva lanciato poco prima. La strinse nel palmo, constatò, ancora una volta, di essere solo in quella lotta infinita. Non c'era speranza... nessuna via d'uscita.
Sentì montare nuovamente la rabbia e più questa aumentava più serrava il pugno e più serrava il pugno e più avvertiva fluire nuovamente la forza nelle proprie membra, una forza nuova che lo portava a stringere ancora e ancor più, e tanto più stringeva tanto più sentiva l'oggetto divenire cocente, ustionandogli la carne, e poi lo sentì ammorbidirsi, la croce perse consistenza, cominciò a fondere per poi liquefare del tutto, colando fra le dita.
Si alzò allora in piedi con facilità estrema e inaspettata e avvertì un grande senso di leggerezza misto a meraviglia e un dolore lancinante alla mano.
«Hai rinnegato Dio. Ben fatto. Indietro non si torna.» la voce lo fece tornare alla realtà.
Lucien provava sentimenti contrastanti: si era sentito, per l'arco temporale di qualche lungo istante, quasi completamente vuoto, come se una grande parte del suo essere, subito dopo aver distrutto la croce, fosse stata espulsa e bandita dal proprio cuore ma ora attecchiva e germogliava in lui, facendosi strada prepotente e inesorabile, anche la profonda convinzione che si sarebbe potuto rivelare in grado di compiere qualsiasi prodezza. «E ora?» domandò euforico e pieno di energie, sorpreso e incredulo di ciò che stava avvenendo soprattutto perché ne era consapevole, qualcosa era profondamente cambiato, pezzi ora mancavano ma... altri si aggiungevano.
«Ora... muori.»
Lucien non riuscì neppure a rispondere, non fece in tempo. Dal terreno fuoriuscirono in pochi istanti una moltitudine di mani d'ogni genere, umane, animalesche e mostruose che lo afferrarono per i piedi, i calcagni, i polpacci, le tibie e ancor più su, fino alle ginocchia e le cosce, bloccandolo completamente.
Il sottobosco tremò sotto i suoi piedi e la terra si aprì di colpo mentre le mani lo serravano, lo graffiavano con artigli che si uncinavano alle sue carni, alte lingue di fuoco lo avvolsero completamente, incominciarono a divorarne le membra, lo inghiottirono al loro interno e lo trascinarono giù, fra urla di dolore.
Nell'istante successivo la voragine di poco prima si compattò di nuovo.
Il silenzio che seguì durò un attimo. Poi il bosco riprese a vivere come se non fosse successo nulla.
Incalzava la notte e si faceva più fredda e più buia; puerpera, ignara, del proprio nascituro.

Francesco Merli

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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