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Autore: Moses Soon
L'utopia del signor Wu
Pulp Fantasy
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L'utopia del signor Wu
Non poteva credere che qualcuno avesse organizzato tutto questo per quel progetto. Ci aveva lavorato sopra senza troppa convinzione, o almeno, questo sino a quando non ricevette quella strana telefonata. L'interlocutore dopo essersi presentato fissò con lui un appuntamento. L'uomo durante quella breve telefonata gli anticipò che nemmeno lui sapeva come questo fosse possibile, ma in un certo qual modo stavano lavorando tutti e due attorno allo stesso programma.
“Impossibile!” Fu il suo primo pensiero, ma poi, ascoltando alcuni particolari che l'uomo gli rivelò, comprese che non potevano trattarsi delle fantasie di un mitomane o di qualche squilibrato in cerca di gloria. Quell'uomo diceva la verità. L'appuntamento fu fissato quella sera stessa all'ingresso della stazione degli autobus, accanto ai grandi magazzini generali, un vasto edificio adibito a emporio della moda e delle futili esigenze umane. Il luogo era molto frequentato, quindi le intenzioni del tizio della telefonata dovevano essere schiette. Non sembrava certo assomigliare a un intrigo internazionale, una trama succulenta per scrittori di noir e sceneggiatori di film polizieschi; tuttavia, un luogo così affollato non avrebbe riservato brutte sorprese e in un certo qual modo questo lo rassicurava, lo faceva sentire a suo agio.
Parcheggiò l'auto nel ventre della balena, salì rinchiuso in un cilindro di cristallo al tredicesimo piano, quello, dove stavano i bistrò e i ristoranti più esclusivi e si sedette a un tavolo, uno qualsiasi, ordinò uno Shemale, il nome del primo drink che gli venne in mente e nell'attesa dette una scorsa alle ultime notizie di cronaca cittadina su un quotidiano che aveva trovato appoggiato da qualche parte entrando.
L'uomo della telefonata però non si presentò all'appuntamento. Rimase ancora lì un'altra buona mezz'ora, poi si ricordò che aveva un altro impegno. Si alzò e pagò il conto, lasciando qualche spiccio di mancia per la cameriera sul tavolo. Mentre usciva provò una strana sensazione, come se qualcuno lo stesse osservando. Si guardò attorno, “nulla”, scrollò la testa e s'infilò in ascensore. L'auto non era dove l'aveva lasciata. Eppure, era sicuro di averla parcheggiata esattamente lì. Guardò il talloncino che teneva tra le mani, il numero riportato sopra era il 374C, lo stesso che compariva marcato sulla parete di fronte a lui. "Non era possibile. Tutto questo era pazzesco. Gli avevano fregato la macchina." Uscì dall'edificio, avrebbe voluto recarsi a denunciarne il furto, ma sentiva che c'era qualcosa che non andava. Improvvisamente si ricordò della valigetta. L'aveva lasciata sul sedile posteriore. Dentro c'erano i documenti sui quali stava lavorando. La città in quel momento gli apparve come a una grande girandola di luci, un immenso luna-park, dove la gente ubriaca di noia brancolava in cerca di una giostra per distrarsi, di un istante per riempire il vuoto esistenziale dentro il quale si dimenava con qualcosa che non fosse solamente apparenza ma che fosse anche essenza.
“Non aveva una copia del file, non l'aveva fatta.” Maledì il suo stramaledetto modo di operare secondo schemi che a giudizio di M. il suo superiore allo studio di progettazione erano alquanto arretrati. Non sapeva cosa fare. L'aria sapeva di benzene e pioggia. Il cielo appariva distante e tra i tralicci delle luminarie e le fronde di qualche albero che ancora sopravviveva ai margini del boulevard, riusciva a distinguere la luce di una stella o forse quello era il bagliore di un piccolo pianeta solitario disperso nell'immensità di un vuoto che sapeva di rabbia. Improvvisamente qualcuno lo strattonò per la giacca. Si voltò, ma non vide nessuno.
“Ehi signore. Quaggiù!”
Il ragazzino, un tipo dall'aria scaltra, con una ciurma di capelli che gli cadeva sulla fronte, lo osservava dal basso del suo metro d'altezza con un sorriso di supponenza stampata sul ghigno. Indossava chiodo, jeans e T-shirt e sull'avambraccio si poteva scorgere un piccolo tatuaggio di un cuore trafitto da un pugnale. Avrà avuto sì e no tredici anni. Pensò che lui a quell'età a quell'ora stavo a letto da un pezzo. Certo che il mondo in brevissimo tempo era cambiato drasticamente, precipitando verso un abisso di puro delirante degrado. Non vi era più nulla in cui valesse la pena credere. Sembrava che per tutti la cosa più importante fosse apparire, e apparire alla grande. E per far sì che così fosse, serviva la chiave, una delle cinque su cui reggeva il mondo: il denaro. E per avere quella chiave gli uomini erano disposti a tutto, persino a uccidere, arrivando addirittura a sterminare la propria famiglia. Del resto, questo era quello che riportavano le cronache dei giornali. Ogni giorno le loro pagine grondavano sangue, attirando la morbosa curiosità dell'opinione pubblica che oramai, anche se apatica e assuefatta a tutto, era costantemente affamata per questo genere di cose. Aveva appena letto, seduto al tavolino del bistrò, una notizia che lo aveva fatto inorridire. Una coppia di ragazzini, osteggiati dal padre di lei, dopo l'ennesima discussione avevano richiuso le rispettive famiglie nelle loro auto e dopo averle cosparse di benzina le avevano dato fuoco, arrostendo vivi tutti e dodici passeggieri al loro interno. Questo era delirio, era delirio allo stato puro. E da quanto dichiararono candidamente i due mocciosetti agli sbirri, quella di arrostire le rispettive famiglie fu l'unica scelta possibile che avevano per difendere da quei senza cuore il loro amore.
“Il loro amore?! Amore una sega! Avranno avuto al massimo trent'anni in due. Cosa cazzo ne sapevano loro dell'amore?!
Forse intendevano lo stesso amore che aveva cancellato in un istante tutto quello che con amore li aveva messi al mondo e teneramente coccolati, viziati e cresciuti? E ancora una volta anche in questo caso era stato il denaro l'interruttore capace di scatenare la loro follia; infatti, senza altri eredi fra i piedi sarebbero stati loro gli unici ad avere il diritto di metter mano ai cospicui patrimoni di famiglia.
Per avere ricchezza e potere bisognava uccidere, sempre e comunque, non si poteva avere denaro non senza prima ammazzare qualcuno. Alla ricchezza dell'uno si contrapponeva la miseria di un altro. Al benessere di una città replicava il degrado della sua periferia. Alla prosperità di una nazione, altre dieci respiravano vivendo tra stenti e miseria. Il denaro era capace di indurre anche il più avveduto degli uomini a compiere nefandezze incredibili. La lotta della sopravvivenza non escludeva nessun colpo basso, per sopravvivere bisognava uccidere e per denaro in ogni istante sul pianeta, tra le strade, nelle città, quanto nei luoghi più isolati e sperduti della terra, la strage non si fermava mai.
Il teppistello gli agitò davanti al naso facendole ninnare tra le dita un mazzo di chiavi tenute insieme da una codina di pelo sintetico in simil scoiattolo. Guardò il riso sarcastico del ragazzino estendersi come un incendio boschivo nel mese d'agosto sul suo grugno. Non lo trovò per nulla simpatico e quel suo modo di fare arrogante e altezzoso lo irritava e parecchio. Lanciò nuovamente un'altra occhiata al mazzo delle chiavi.
“Ma quelle...?!”
“Esatto! Queste sono le chiavi della tua auto.” Disse, mentre allungava l'altra mano in un eloquente gesto che lasciava bene intendere che cosa volesse. WU gli allungò due bigliettoni da cento. Il ghigno del bullo si spense, trasformandosi in una smorfia di disgusto e solo quando WU aggiunse altri dieci bigliettoni il sorriso tornò ad avvampare su quella faccia di merda. Il ragazzino gli lanciò le chiavi e lui con un gesto repentino della mano le intercettò a mezz'aria agguantandole. “La macchina è tornata al posto dove l'avevi lasciata.” Non terminò la frase, che il ragazzino esplose letteralmente in aria colpito alle spalle da un poderoso calcio nel posteriore. Il moccioso, culo a terra, si voltò. “Nonnooo!” Esclamò. La vecchia cariatide in completo da jogging griffato stava in piedi davanti a lui con le mani sui fianchi e fascia tergi sudore attorno alla fronte, osservandolo con sguardo torvo e minaccioso. Cazzo! Il vegliardo mostrava un fisico asciutto che nulla aveva da invidiare a un giovanotto di vent'anni, uno di quelli che si vedevano cazzeggiare dalla mattina alla sera dentro i pub cittadini, i più a tentare la fortuna alle slot machine, e altri a pensare sul come fare per rimorchiare qualche fighetta da portare in qualche postaccio lontano da sguardi morbosi per potersi infilare mani e piedi nelle loro mutandine. Coglioncelli, nulla facenti, votati per la maggior parte di loro a un destino di precariato come centralinisti presso qualche compagnia telefonica.
Nell'aspetto il vecchio aveva ben poco del pensionato rincoglionito e decrepito. Evidenziando la mandibola volitiva, pancia in dentro e petto in fuori, ordinò al cucciolo di alzare le chiappe e...: “Rauss, Filaribus! A casa e a letto senza cena e questi...” Concluse, sfilandogli i dieci bigliettoni di mano “... li sequestro io!” Poi, voltandosi verso WU, rivolgendogli uno sguardo pacato e vuoto disse: “Come prove del reato ovviamente.” Li infilò in tasca e afferrando il pargolo per un orecchio strattonandolo si allontanò. Mister WU rimase in silenzio guardandoli andar via. Si grattò la testa, rigirò le chiavi tra le mani pensando che adesso l'importante a cui prestare attenzione era altro. Ritrovò l'auto dove l'aveva lasciata. Forse era sempre stata lì e tutto era stato frutto di una allucinazione o di un brutto sogno. “Possibile?!” Mister WU spalancò la portiera. La valigetta contenente il file e i documenti del progetto erano sul sedile posteriore, dove li aveva lasciati. Sì, pareva che fosse tutto in ordine. Che non mancasse nulla. Eppure, sentiva come se qualcosa, un particolare, magari piccolo, forse insignificante, sfuggisse alla sua attenzione. Percepiva che qualcosa fuori posto c'era, ma non riusciva a comprendere di che cosa si trattasse. Avviò il motore e questo iniziò a girare, silenzioso, sincrono e rassicurante.
“Ma certo!” Esclamò improvvisamente. “Il profumo.” Come aveva fatto a non avvertirlo subito. Percepiva una sottile scia dolciastra, come di zucchero caramellato, diffondersi per l'abitacolo. Se quello era profumo e il suo naso non lo ingannava qualcuno aveva rovistato dentro la sua auto. Quando finalmente Mister WU arrivò a casa davanti al cancello trovò ad attenderlo la signora Greeneverbud, un'amabile novantenne dall'aspetto bizzarro e dal modo di fare effervescente. A volte, è vero, era piuttosto indiscreta, ma quando non si faceva vedere, mancava. Pareva una teen-ager, infilata dentro un paio di pantaloni a zampa di elefante e quel cappello da guerrigliero sudamericano calcato in testa. Per il resto la signora Greeneverbud era sicuramente una donna d'altri tempi, gentile e premurosa e in modo particolare con lui decisamente affettuosa e materna. Era stata certamente una giornata non priva di emozioni, ma energia per stare ad ascoltare la deliziosa vecchina per qualche minuto ne aveva ancora. Conosceva a memoria la tiritera che gli avrebbe rifilato, la stessa di sempre, e quindi si munì di un bel sorriso e della giusta dose di pazienza prima di infilarsi in casa e dedicarsi almeno per le prossime ore a capire cosa fosse accaduto realmente e soprattutto come mai ogniqualvolta capitava qualcosa, il progetto, il suo lavoro ne era la causa.
“Come fa un bel giovanottone come lei a starsene sempre da solo?! Quando si deciderà a metter su famiglia? I figli sono una benedizione del cielo non lo sa? Non lo venga a dire a me che ne ho già messi sottoterra quattro!”
“Buonasera signora Greeneverbud, qualche novità?”
“Sa, l'ultimo aveva sessantotto anni. Un cancro alla prostata! Eh, i ragazzi d'oggi non han più la tempra di noi di una volta.”
Quella storia la conosceva a memoria oramai. Ora arrivava il turno dei gemelli, morti in un incidente stradale a soli diciassette anni e di Frida l'unica figlia fuggita con un artista di strada e finita a sua volta su un marciapiedi e non certamente per fare l'artista.
“Ah, sì!” Esclamò quando ebbe finito di raccontare. “Un'ultima cosa. Oggi è venuto un uomo a trovarla. L'ha aspettata ma poi visto che tardava ad arrivare se ne è andato, aveva un appuntamento credo di aver capito, ma ha lasciato questo.” È detto fatto consegnò un plico nelle mani di WU.
“A proposito, dimenticavo di dirle.”
Mister WU si voltò sforzandosi di apparire premuroso e affettuoso come sempre.
“Siii?!”
“La spesa è sul tavolo del tinello assieme ai giornali.”
Il profumo, lo stesso che aveva percepito in auto, ora aleggiava leggero tra le pareti di casa. Chi aveva rovistato nella sua macchina sembrava essere lo stesso uomo che lo aveva cercato, lo stesso che aveva dato la busta alla signora Greeneverbud.
“Già, la busta.” Rigirò il plico tra le mani, un grosso pacco di carta oleata gialla. Dal peso non sembrava contenere granché. Quindi per vedere cosa contenesse non rimaneva che aprirla.
Non poté credere ai suoi occhi, quello che stava leggendo su quel foglio era assurdo. Com'era stato possibile? Anzi, no. Com'era possibile?!Appoggiò il foglio con tutto quello che ci stava scritto sopra sulla scrivania. La cosa lo inquietava, come del resto ogni altro evento in cui era incappato nel corso delle ultime dodici ore: avvenimenti, circostanze illogiche, completamente lontane dalla sua primordiale razionale quotidianità. Mister WU, come del resto di gran parte dell'umanità, aveva un disperato bisogno di certezze, di avere tutto sotto controllo, di sapere che ogni cosa gli ruotasse attorno fosse dannatamente normale, che i treni arrivassero in ritardo, che i voli aerei venissero puntualmente cancellati, che non si guarisse mai di cancro, che l'aria avesse un'alta percentuale di gas venefici presenti al suo interno, che le foreste venissero sistematicamente distrutte e che gli scarichi di tutti i cessi cittadini finissero in quella comoda pattumiera chiamata mare, insomma che tutto procedesse in maniera del tutto usuale era per lui rassicurante come per il resto dei suoi consimili, una specie di ansiolitico per evitare turbamenti e inquietudini. Rovistò per bene dentro la busta, la scrollò e qualcosa d'altro scivolò sulla moquette del pavimento.

Moses Soon

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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