Telefona, qualche volta...
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27 giugno .
Sprofondata nella grande poltrona rossa del soggiorno fisso, da non so più quanto tempo, lo schermo buio del cellulare poggiato su un bracciolo. Registro il suono dei rintocchi della pendola nell'appartamento dei vicini ma non conto le ore che batte. Il tempo si è bloccato al suono affilato della voce cortese di una donna della Breast Unit di Prevenzione Serena, qui a Torino. Mi ha detto al telefono che necessito di un'altra indagine, un controllo per vederci chiaro. «Per adesso stia tranquilla e non si fasci la testa prima di essersela rotta. L'aspettiamo dopodomani alle dieci in punto.» Sono così tranquilla, così trans quǐes, che non sono riuscita a muovermi. Sono oltre tutto. Solo pensamenti confusi a briglia sciolta. Mi chiedo perfino, oziosa, se nei vari reparti ospedalieri dotino il personale di un prontuario dei modi dire. In ortopedia “tranquillo e stia in gamba”, in odontoiatria “e adesso la lascerò a bocca aperta”, in cardiologia, magari a un bradicardico, “bisogna avere polso.” Mi sento come se avessi preso una tranvata in faccia. Una botta in testa. Un colpo allo stomaco. Sono sola in casa. Mia figlia, con il marito e i bambini, è al mare, in Puglia. Ci starà una settimana. Mio marito è in California per lavoro. Ci starà quindici giorni. Sono tutti andati via ieri. «Goditi la solitudine e scrivi in santa pace.» Mi avevano entrambi detto così e li avevo salutati con un sorriso. La mia “amata scrittura” e io ci saremmo fatte buona compagnia, lei e io nella mia stanza tutta per me. Solo che adesso, in casa, si è imbucato un intruso. «L'uomo propone e Dio dispone», avrebbe detto mia nonna paterna citando a proverbio dalla Bibbia per giustificare gli sbandamenti dei piani, i progetti vanificati, le sconfitte, i dolori e le malattie. La morte, infine. Oppure mi avrebbe ricordato la “favola del ricamo” di Padre Pio che, da bambina, mi ripeteva ogni volta che, osservandola ricamare una tovaglia, un tovagliolo, un lenzuolo per il mio corredo, voleva spronarmi ad accettare la buona e la mala sorte senza chiedermi troppi perché. «C'è un disegno più grande di noi», diceva. «C'era una volta una mamma che stava ricamando. La sua figliola, seduta su uno sgabelletto basso, proprio come te adesso, vedeva il suo lavoro ma alla rovescia. Vedeva i nodi del ricamo, i fili confusi, e diceva: “Mamma, si può sapere che fai? È così poco chiaro il tuo lavoro!” Allora la mamma abbassava il telaio e mostrava la parte buona del lavoro. Ogni colore era al suo posto e la varietà dei fili si componeva nell'armonia del disegno. Ecco, noi vediamo il rovescio del ricamo. Siamo tutti seduti sullo sgabello basso ma se solo ci alzassimo un po' scopriremmo un mondo di meraviglie.» A fine favola, la nonna mi mostrava il suo telaio e lasciava che mi sorprendessi degli uccellini in fila su un ramo di cachi, di uno stormo di rondini in volo in un cielo di poche nuvole, di una barca rossa sull'orizzonte di un mare cobalto. Lei mi avrebbe rassicurata? Aiutata ad accettare il caos del presente come preludio a un ordine supremo armonico e proporzionato? Chissà. Intanto sono sola e forse è un bene. Non sopporterei altre esortazioni a non fasciarmi la testa prima di essermela rotta o di ritrovarmi calva, più probabilmente. Dovrò passare due giorni a sperare di non avere sans papiers nel seno ma solo stranieri con regolare permesso di soggiorno. Cisti, noduli, fibroadenomi. Negli anni mi sono fatta una cultura in tal senso. Il mio albero genealogico, infatti, non promette buoni frutti da parte di madre, quella madre che si era fatta viva dopo quattro anni di silenzio e mi aveva condannata al mutismo per espiare una colpa senza colpe. Quella madre che, forse, mi lascerà questo cancro come unica eredità.
Dopo quattro anni di silenzio
La prima volta che l'ho sentita, dopo quattro anni di silenzio, mia madre stava peggio del solito. A turno, prima uno poi l'altro, proprio come già era accaduto a sua madre, il cancro ha aggredito i suoi seni, i dolori hanno invaso il suo corpo, i ricordi la sua testa. In quelli io sono tornata in un abito di raso azzurro scuro. «Ho trovato una foto di quando ti vestimmo da principessa per una festa di carnevale in terza elementare.» Ha detto così. Come se avessimo interrotto da poco un discorso per uno scampanellio alla porta, un trillo del timer in cucina e ci fossimo lasciate con uno scusami, ti richiamo dopo. Sentire la sua voce dopo tanto tempo mi ha tolto il respiro, fatto venire l'affanno, tremare la mano che reggeva il telefono. «Lo fece la nonna coi rasi che portò dall'America. Papà ci dipinse sopra delle stelle dorate.» «Sì.» «Telefona, qualche volta...» «Sì.» È a lei che dovrei telefonare? È a una madre che si apre il cuore? Si vomita la paura, l'affronto al proprio corpo, con la speranza di sentirsi dire “vedrai non è niente” perché se lo dice tua madre è vero, le madri non dicono bugie? Rido, infine, sulla poltrona rossa fissando il cellulare muto. Non è proprio il caso, non a una madre come la mia. Quando le avevo detto che avrei subito un'operazione risolutiva che mi avrebbe privato di utero e ovaie in un colpo solo non aveva trovato di meglio che chiedermi se pensavo di poter campare “tisa tisa.” “Tisa tisa”, tesa, eretta, sana, senza prostrazioni e inchini servili al male e alla malattia. “Tisa tisa”, senza preoccupazioni. “Sans Souci”, come la birra che bevvi una volta in Austria e mi piacque molto. Ecco, ho sete ma non riesco a muovermi. Non voglio neanche navigare in Internet per cercare risposte a domande che non saprei fare. Evito spesso di fare domande a chicchessia. Ho paura di non essere compresa e sbagliare a capire le risposte. Neanche a mia madre ho chiesto perché sia andata a rovistare nelle scatole delle fotografie dove ha trovato quella con il costume da principessa cucito coi rasi del grosso baule della soffitta.
I nonni materni: America A/R
Il vestito da principessa lo cucì la nonna coi rasi portati dall'America in un baule enorme nel 1931. A New York, dov'era arrivata dalla Sicilia nel 1916 a soli sedici anni, era diventata sarta di modelle per le prime sfilate di moda newyorkesi degli anni Venti. A fine contratto ebbe una buona uscita in dollari e in bauli colmi di scampoli di stoffe preziose: sete, pizzi, rasi e velluti. In America, lei e il nonno - classe 1885 e di quasi sedici anni più vecchio di lei - abitavano a Paterson, New Jersey. A Paterson, New Jersey, andai molti anni fa e v'immaginai la nonna camminare per le vie della città e lungo il fiume Passaic. La fantasticai giovane e bella come di fatto non l'avevo mai vista se non in rare fotografie color seppia. La nonna la ricordo sempre vecchia, sempre vestita di nero e inquadrata in una sorta di bovindo che si affaccia sul cavedio che separa e unisce il nostro palazzetto - un elegante fabbricato di quattro piani dove ancora abita mia madre - alla casa di sua sorella Graziella. Su un lato il palazzetto, ultima casa di un vicolo cieco, poggia su parte delle antiche mura greche della città vecchia. Poco più in là, oltre le mura, in cima a un'erta scalinata si erge la chiesa della Madonna dell'Annunziata. Da tutti i balconi e da tutte le finestre se ne vede il campanile e a ogni rintocco del battaglio il suono possente della campana di bronzo sembra entrare in casa ed echeggiare a lungo tra le pareti. Nel suo bovindo nonna aveva inserito per corto una macchina per cucire Singer a pedali. È sempre in quella posizione da sarta che muove i piedi in pantofole di panno nero che la rivedo. Aveva un profilo breve, francese, con il nasino all'insù, la pelle bianca di porcellana, e un corpo basso e pesante. Accanto a lei, poggiato contro la macchina per cucire, un sottile bastone di legno azzurro, sbiadito e tarlato, con un pomello dorato in cima. Sbiadito e tarlato anch'esso. Non era suo, ché non ne aveva bisogno per camminare, ma lo teneva sempre vicino. Poche volte, da bambina, mi fu concesso di prenderlo in mano e, sempre, quando accadeva, gli occhi della nonna si inumidivano. Non capivo cosa avesse di particolare, tutto vecchio e bucherellato com'era, ma quando scoprii la sua storia, qualche anno dopo, compresi gli occhi umidi della nonna e quel filo sottile di rancore che sembrava unire e isolare i nonni. Capii i loro mutismi, le reciproche accuse biancicate a mezza voce e le rare occhiate di scusa, quando ormai tutto era accaduto. Nel 1929, a Paterson, New Jersey, era nato Sebastian, il fratello di mia madre ma, complice la Grande Crisi, col piccolo di due anni, lei e il nonno tornarono al paese. Misero a frutto i risparmi americani e acquistarono il palazzetto, molte vigne, un canneto che produceva le canne per tenere alte le viti delle vigne, e una grande casa di campagna. La casa del gelso bianco. Mia madre nacque nel '33, unica figlia italiana e già priva, per nascita, del “sogno americano”. Mi alzo infine dalla poltrona e vado sul balcone che si affaccia sulla “mia” piazza. Una piazza di Torino in zona semicentrale che ha il pregio di avere tutta una parte sopraelevata rispetto al manto stradale delle quattro vie che ne delimitano il perimetro. Ci sono molti alberi di catalpe e c'è un'area giochi per bambini recintata da una rete e accessibile da due cancelletti con chiavistelli alti; vicino ai giochi ci sono panchine-installazioni artistiche del danese Jeppe Hein, realizzate nel 2005, che si illuminano quando ci si siede sopra producendo un bellissimo effetto “Piet Mondrian” giacché le loro sedute rettangolari si colorano di rosso, blu e giallo come i rettangoli di certe tele del pittore olandese; oltre le panchine, infine, fa bella mostra di sé uno spazio dedicato agli “orti in piazza”, con cassette di legno coltivate a fiori ed erbe aromatiche, curati con amore dagli abitanti della zona. Proprio sotto gli orti c'è un rifugio antiaereo realizzato nel ‘43, abbandonato nel ‘45, riscoperto per caso allorché, a inizio anni Novanta, cominciarono i lavori per la costruzione di parcheggi sotterranei sotto la piazza. Nel ‘95 il rifugio venne riaperto al pubblico a memento di quello che è stato e non deve più accadere. Una piazza con una Storia sotto e tante storie sopra. Come me? Come tutti? Radici e superfici. Ma dove sono le mie radici vere? In Sicilia, a Pisa, qui a Torino? Nord sud ovest est, cantavano gli 883 nel 1993. Viaggi veri e metaforici alla ricerca di se stessi. Mi sono mai trovata veramente? Forse ho radici aeree, come le orchidee e altre piante tropicali. Dev'essere così: radici a gambe all'aria! Torno a osservare la piazza. Sulle quattro vie che la circondano si affacciano palazzi residenziali e molti negozi a piano terra. È in questa piazza che sono per prima approdata all'epoca del mio trasferimento a Torino nel lontano 1985 ed è qui che sono tornata, dopo un intervallo di ventitré anni in un comune della cintura nord della città, perché vi avevo lasciato il cuore. L'avevo sentita paese e borgo, accogliente ma non invadente. Ci si conosce tutti, c'è una piccola rete di amicizie e a questa piazza mi sono ispirata scrivendo i miei romanzi “allegri” che, mi dicono, fanno ridere di cuore chi li legge, regalando momenti di spensieratezza e buonumore. Anch'io mi sono molto divertita scrivendoli, ho riso davvero tanto immaginando situazioni comiche, esilaranti, ironiche. In quelle storie mi sono costruita un alter ego che potesse far venire a galla, nella fiction almeno, il mio io più profondo, quello che vorrebbe prendere la vita con leggerezza, e vorrebbe anche, qualche volta, ridere a crepapelle, di pancia, occhi e bocca. Fare tutto quello che non mi è dato esternare perché i colpevoli non possono nemmeno pensare di star bene, soprattutto con se stessi. Siano dannati alla depressione eterna! Eppure, mentre scrivevo quei romanzi, mi scordavo dell'altra me, quella esclusa dalla famiglia d'origine, quella che non aveva diritto a ridere di pancia, neanche stando lontana, soprattutto stando lontana, perché “la colpa” ti segue ovunque. Torno dentro. Mi accascio di nuovo sulla poltrona. Mormoro a nenia parole assonanti o a rima baciata; come limerick irlandesi senza senso. Colpa bieca talpa cieca sento un rintocco vento di scirocco mi abbiocco e, nel sonno, rido a scrocco...
Maria Concetta Distefano
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