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Autore: Domenico Sabato
Cuori in disuso
Narrativa
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Cuori in disuso
Avevo all'incirca diciotto anni quando ho scoperto di essere omosessuale, che se ci pensate suona proprio male “ho scoperto di essere”, essere cosa! Qualcuno me lo sa spiegare?
L'essere non può essere una scoperta bensì una priorità di ognuno di noi. Non si può scoprire ciò che fin dagli antichi tempi è sempre esistito. Penso che una norma così iterabile sia la nostra condanna. E diciamo anche che, oltre ad essere la nostra condanna, è anche una norma violenta.
All'epoca mi infatuai di un uomo più grande di me, sposato con dei figli. Sì, lo so, sono stato folle a mettermi in una situazione così; ma cosa volete farci al corpo non si comanda.
Quando lo incontravo non capivo più niente. Ero affascinato dal suo sguardo ipnotico, dalla sua storia, dalla curiosità di scoprire il suo essere... la sua essenza; insomma di lui mi attirava tutto, anche quell'alone di perfidia che lo avvolgeva.
Non sapevo come fare a superare questa situazione. Le cose erano due: o lasciavo perdere, o andavo fino in fondo. E indovinate cosa decisi? Ovviamente andare fino in fondo. Ma il mio senso morale era così forte che non mi permetteva di poter soddisfare al mille per mille i piaceri della carne. Paradossalmente, invece di tutelare me cercavo sempre di tutelare lui. Assurda come cosa vero? Non capivo se era amore, o era solo una grande infatuazione, ma una cosa era ben chiara ai miei occhi: qualsiasi cosa fosse mi faceva sentire vivo. Sapete quella dose di adrenalina... di rischio.
Lui era un uomo molto controverso, con una grande dose di perversione. Era quella classica persona che amava essere corteggiata, non importava da chi. Il narciso dentro di lui era elevato all'ennesima potenza. Ma quanta oscurità possedeva la sua anima, quanta sofferenza pativano i suoi sensi, non mi rendevo conto in che guaio mi stavo per cacciare. Guaio perché era prossimo a diventare ossessione.
Io mi accontentavo di vederlo per strada, di scambiare due chiacchiere, magari anche di qualche abbraccio; ma non so se sarei mai riuscito a baciarlo. Il bacio sarebbe stato per me il timbro della sua condanna.
Piccola premessa: di lui si diceva che un tempo aveva avuto contatti con altri uomini, ma di questo non ne ho mai avuto la certezza. Ecco da dove proveniva il mio volerlo tutelare. Pensavo a quanto fosse stato difficile per lui rifarsi una vita, una famiglia, e io non ero nessuno per distruggere tutto questo; e se mai l'avessi baciato sarebbe successo. Lui per me rappresentava la protezione. Il mio sbaglio è sempre stato quello di porlo su un piedistallo, e lui questo lo sapeva, e su questo ci marciava.
Abbiamo sempre avuto incontri clandestini di pochi minuti, suggellati da conversazioni a tratti statiche dove lui più che ascoltarmi bramava certezze, riconoscimenti di un ego che aveva bisogno di essere saziato. Se al posto mio ci fosse stata qualsiasi altra persona per lui sarebbe stato uguale. A lui interessava essere riconosciuto in un campo puramente estetico, non importava da chi, in che modo. Passava di possibilità in possibilità. Per lui l'altro non era che un oggetto in grado di soddisfare i suoi sensi. Era un grande seduttore e questo lo sapeva.
Ci ero caduto con tutte le scarpe nella sua trappola, ma il problema era che ne ero consapevole, e a me andava bene così. Non avevo più facoltà di giudizio. Ero impantanato nella follia, ma questo può essere giustificabile, avevo solo diciotto anni. Non riesco a descrivervi con esattezza dei momenti con lui ben definiti, ho ricordi frammentari di noi. Ma posso dirvi sostanzialmente che lui non mi ha mai capito. Forse anche per colpa mia, perché ogni volta che prendevo coraggio per dirgli tutto quello che pensavo, il suo sguardo mi gelava.
Aveva un potere su di me, che voi non potete immaginare. Questo rapporto è andato avanti per ben due anni. Ma poi decisi di metterci un punto. E sono stato bravo a metterlo proprio nel momento in cui la situazione stava degenerando. Seppi cose su di lui moralmente non molto piacevoli: si diceva che era invischiato in situazioni con ragazzi che appagavano i suoi piaceri corporei. Cioè capite! Oltre il danno anche la beffa. Volevo tutelare qualcuno che fondamentalmente era il primo a mettere la sua vita a rischio e alla mercè dell'ignoranza.
Se avessi saputo tutto questo sin dall'inizio, mi sarei comportato diversamente: mi sarei preso ciò che desideravo senza pensare alle conseguenze che potevano ripercuotersi su di lui. Alla fine quello che aveva da perdere era lui, io non avevo niente, al massimo di me ci sarebbe stato solo un parlare, nulla di più. In questi due anni gli scrissi una lettera che ovviamente non gli è mai stata recapitata, ed è meglio così... tanto non l'avrebbe mai compresa.
“Non vergognarti se il tuo corpo è sporco di un amore che per gli altri è peccato, non aver paura del cancro alla pelle, dell'effimero giudizio.
Nessuno ha la podestà di poter alterare il tuo sentire, il tuo vivere, il tuo amore. La vita non è fondata sulla morale, ogni morale è diversa. Sai... siamo così gettati in un ciclo di vita, che a volte facciamo fatica a ricordarci come si fa. Come si fa cosa mi dirai... come si fa a vivere. L'ambiguità fa parte dell'umanità, lo sei anche tu in fin dei conti; e ti posso assicurare che anche essa è una forma d'amore. Non esiste solo l'amore che Dante declama nella Divina Commedia, esiste anche una forma d'amore sporca, perversa, che ti manda in estasi; e fidati che la potenza di essa non è paragonabile a nessuna forma. Anche San Tommaso sosteneva che l'amore è carnale, che è corporeità. L'errore che oggi commette l'umanità è quello di possedere. Non possiamo possedere qualcosa o qualcuno per paura che ci sfugga. L'altro è un dono della madre terra, della fortuna, non si può amare qualcuno in eterno; e tale dono è fedele a chi lo nutre e non a chi lo consuma. L'amore è così mutabile che in noi subentra l'isteria della perdita. Ora mi dirai che l'amore non si può consumare, ma devo contraddirti. Esso è ciò che di più violento possa esserci, sugli uomini produce l'effetto di un malsano egoismo; più che amare vogliamo essere amati. Quindi tu anima inquieta non sentirti il peso di un fardello che non ti appartiene, non sentirti in colpa se brami un corpo che è simile al tuo, nonostante la tua chiamata etica. L'altro è mutevole. Chi stolto può sostenere che un contratto scritto come il matrimonio, dia l'esclusiva a un solo essere? I momenti sono frammenti di un'eternità che ci permette di assaporare un corpo. Per gli altri può risultare di basso profilo, ma per te? Per noi? D'altro canto capisco la tua paura che è anche la mia. Desidero un momento. Impariamo a tradirci, a tradire questa realtà. Io so come vedi tutto questo: come se tu fossi qualcosa che agli occhi degli altri possa risultare a tratti mostruoso. Ma cosa ti spaventa? Non potranno mai ucciderti perché così non saresti riducibile a loro, possono solo digerirti in questo orizzonte simbolico. I simboli sono codici ermetici. Anche l'inconscio di cui parla Freud paradossalmente è fatto di simboli; e se noi fossimo dei simboli che si riconoscono il diritto di toccarsi? Vorrei tanto toccarti, accarezzare la tua pelle segnata dal tempo. Hai paura che possa alterarsi il rapporto con i tuoi figli? Lecito pensarlo, ma non pensi di averlo già alterato nel momento in cui li hai messi al mondo? Notorietà, fama, prestigio sono titoli che ti sei dato da solo. Pensi che a qualcuno possa interessare? Non è questo che determina l'esistenza, essa è la simultaneità di profumi che si scontrano generando tempeste. Non hai dea di quante cose vorrei dirti. Non siamo niente, non saremo mai niente, ma non posso fare a meno di sentirmi legato a te. Sei così fragile che la paura di poterti distruggere mi fa tornare a essere umano. La mia umanità ha di per sé una prerogativa: morire ogni volta che pronuncio il tuo nome. Il mio più grande talento è sprofondare nello sconforto di una idea che non prende forma. Vorrei sapere cosa pensi, quale dualismo è insito nella tua mente, quale processo triadico usi per sintetizzare la storicità di una vita intera. Non ho il coraggio di affrontarti, mi incuti timore. Se solo avessi piccoli segnali da parte tua. Avrei solo voglia di baciarti e toccarti. Che misero è il tuo animo, le tue fattezze... la tua vita. Perché il nostro è un linguaggio fatto di silenzi? Ti invidio, tu sei pura crudeltà; insegnami a essere una bestia. La tua essenza intellettuale è così misera che ti permette di vivere in maniera perfetta. Ti amo come le puttane amano i loro clienti, perché esse sanno cosa significa morire ogni volta che mettono in vendita il loro corpo con persone come te; mentre le state consumando loro stanno morendo, e mentre muoiono entrano in contatto col focus della vita. Ti credi possente quando possiedi un corpo? Se tutti noi fossimo figli di corpi consumati? Ed è ciò che siamo. È l'idea che genera l'amore non la fusione corporea. Ti manca la genialità del pensiero.
Manchi a te stesso... o forse ci manchiamo."
Non ho mai avuto il coraggio di dargliela... ma sono certo che non l'avrebbe mai capita. Avrebbe inteso tutto l'esatto opposto. Non voleva essere un'epistola per delineare il nostro rapporto, ma per delineare la sua vita.
Lui ha sempre vissuto una vita in base a un contesto sociale; e doveva essere bravo a non cadere, non poteva sbagliare.
Man mano che scrivo mi tornano in mente delle immagini o meglio delle emozioni. Pian piano sto ricordando.
In quel periodo Luciano Ligabue uscì con un disco intitolato “Arrivederci mostro” e in questo album c'era una canzone che si intitolava “Caro il mio Francesco”. Appena la ascoltai rimasi incantato dal testo, era come se Ligabue avesse descritto la nostra storia, le nostre differenze.
C'era una frase in quella canzone che racchiudeva tutto il nostro rapporto: “Risulta evidente quanto siam diversi, quanto son diversi i tempi del percorso”.
E cazzo quanto era vero. I nostri tempi erano davvero diversi, io su quel tempo ci ballavo, lui invece era intento a schivarne le trappole. Ma ci sta. Il mio tempo era più leggero, con zero responsabilità; il suo invece era da copione e la parte la conosceva alla lettera. Ligabue raccontava nella canzone di quanto la società possa opprimere la sensibilità di un singolo individuo. Ma lui forse neanche sapeva cosa fosse la sensibilità. Sì, ne parlo con un velo di rabbia, con un velo di rancore... ma non posso fare altrimenti. Se solo avessimo parlato, se solo lui avesse capito. Io da lui non volevo l'eternità, volevo un momento. Lui era la persona più sbagliata per l'eterno, ma era la persona più giusta per un momento.
Ricordo gli inseguimenti con la macchina, la mia mente che viaggiava. Mi sentivo speciale in quel periodo, mi sentivo fortunato che fosse successo a me. Ci penso delle volte se fosse andato tutto in maniera diversa, se il suo cuore fosse stato pronto. Gli voglio bene come si vuole bene a un ricordo che si nutre di memorie un po' sparse; e tu devi rimettere insieme i ricordi. Io e lui vivremo sempre in un ricordo solo e soltanto nostro.
In uno dei nostri fuggiaschi incontri, mi chiese se fossi innamorato di lui, mi spiazzò quando mi pose quella domanda; non potevo confessarli che in quel momento lui era la sola cosa di cui il mio cuore aveva bisogno.
Risposi con un no secco, non potevo fare altrimenti.
Ripensando a tutto questo mi rendo conto di quanto avevo bisogno di quell'uomo, di ciò che lui rappresentava nel mio piccolo mondo, e ora, quando lo incontro non è altro che un uomo che cerca un mio sguardo, e io lo guardo come se fosse una figura che esiste in questo mondo... niente di più. Le parole hanno un peso, con esse si possono costruire realtà, forse le nostre parole erano diverse, forse quelle parole più che costruire hanno annebbiato le nostre vite. Ma va bene così. So benissimo che non si merita questi piccoli elogi, perché per lui era solo il capriccio di un ragazzino; ma per me è stato tutto davvero necessario. Non importante, no, necessario. Necessario perché io con lui sono riuscito a guardarmi dento, a sentirmi, a capirmi. Lui resterà sempre l'avvelenata più bella della mia vita.
Pensate che nell'immaturità di quegli anni decisi di tatuarmi sul polso destro la sua data di nascita e la sua iniziale. A volte dimentico anche di avercelo. Ormai è sbiadito un po' come siamo sbiaditi noi.
Successivamente, in un momento di puro sconforto e di zero giudizio, mi dichiarai. Anche questa parola, “dichiararsi”, è così stupida. Cosa devi dichiarare? Che ti piace il c***? A chi dovevo dare conto? A una società che non ha nessun diritto su di me?
Questo doversi etichettare; odio le etichette, specialmente se esse fungono da autoidentificazione. Siamo persone, cazzo, dovrebbe contare solo questo. Ma, purtroppo, prima della persona per la società viene il lignaggio e il tuo approccio a una norma preimpostata.
Tutte idiozie.
Ricordo che appena in giro si sparse la voce avevo paura a uscire di casa, mi sentivo gli occhi puntati addosso. Vedevo sorrisi fatti di circostanza, e magari alle spalle mi prendevano per il culo. Fortunatamente avevo i miei amici. Mi sono stati vicino e mi hanno aiutato, anzi mi hanno sorpreso in quel periodo.
Meno la mia famiglia. Mio padre mi tirò appresso lo zaino e mi buttò fuori dalla porta. Vagabondai in giro per qualche giorno senza una meta. Li odiavo perché non mi sentivo capito. A dire il vero sono stato sempre un po' la voce fuori dal coro a casa, ma penso che sia dovuto al fatto che io mi sentivo troppo nella posizione di giudicarli senza vestire neanche per un secondo i lori panni. Pian piano le cose migliorarono... si tornò alla solita routine. Non, se ne è mai più parlato, ma non perché fosse un tabù, ma semplicemente perché con i miei non ho mai avuto un rapporto confidenziale; sì lo so che è sbagliato però oh... è sempre stato così.
Mio padre col tempo mi sorprese, forse sono più simile di quanto possa pensare a quell'uomo. Possiede una sensibilità spiccata, ha una apertura mentale che per la sua generazione non è da poco. Per farla breve non ha mai capito in pieno la mia anima, ma posso dire che ha imparato ad ascoltarla, e questo è tanto. Mia madre mi ha sorpreso anche lei... ma in negativo. Donne converrete con me che voi siete più propense ad abbracciare la sfera emozionale, soprattutto se si tratta di quella di vostro figlio. Ecco, mia madre non è stata in grado di farlo. Anzi, a dirla tutta, continua a non accettarlo. Per lei è una delusione, come se le delusioni fossero queste; ho una valigia piena di delusioni. Ma le voglio ugualmente un gran bene. Dico sempre “che sia prima io ad andarmene e non lei” potrei impazzire se accadesse, perderei il senno. Mia madre per me è sempre stata il canale preferito per la mia rabbia, la Butler diceva che la violenza è in ognuno di noi e deve essere educata.
Ecco, io a volte l'avrei uccisa. Ma sapete perché? Perché la amo troppo. Se avessi il coraggio di abbracciarla le chiederei scusa per averle fatto portare tutti i miei fardelli, ho sempre pensato che lei fosse più brava di me a portarli. Non le ho mai chiesto se è stata costretta a scambiarsi i sogni, o l'ha fatto perché voleva. Quante volte le ho rimproverato che mi avesse messo al mondo. Non la volevo questa vita, tuttora non la voglio. È una vita che non riesco a vivere, non riesco a stare al passo col suo tempo, abbiamo conteggi diversi.
Una sensibilità come la mia, non ha le forze per affrontare una vita così dura. Ho le spalle larghe è vero, ma sono propenso ancora a cadere. Cado nelle moltitudini delle mie distrazioni, del mio essere pigro. Sono un essere troppo distratto, mi distrae un pensiero, un luogo, la folla... anche il nulla mi distrae.
Ho sempre rimproverato a mia madre le attenzioni che dava a mio fratello minore, proprio non lo sopportavo e non lo sopporto; come le dico sempre io “rimbambisci”. Io e mio fratello siamo completamente diversi: lui è una persona pratica, io sono più metafisico. Non ha avuto un'infanzia fortunata per scelte sbagliate che ha fatto. Però su questo lo invidio, perché lui ha toccato quel famoso momento perfetto di cui parla Sartre. Ed è stato grazie a quel momento perfetto e ai miei genitori che ne è uscito vincitore. Forse la vita non mi ha mai messo a dura prova, ecco perché non riesco a crescere. Non andiamo molto d'accordo, lui ha la classica mentalità bigotta da paese, invece io sono per il vivi e lascia vivere... però ragazzi che cuore enorme che ha.
Il mio a confronto non è niente. Dopo mio padre, in casa è lui il punto fermo della famiglia. Meglio così, io avrei fatto solo danni e chi mi conosce sa che a me le responsabilità non sono mai piaciute. Non riesco a essere stabile io figuriamoci se dovessi mantenere la stabilità di un nucleo famigliare.
Tutto sommato non ho una brutta famiglia. I parenti, quelli ve li raccomando. Fra tutti voglio spendere qualche riga su mia zia, la sorella di mia madre, detta la “professoressa”. Quando io e mia madre discutiamo (cioè sempre) mi rimprovera il fatto che io sono uguale a mia zia: la stessa lingua che non sta mai zitta, lo stesso screditare gli altri per mancata cultura. Ai tempi della mia infanzia io ero sempre da mia zia, si può dire che mi ha cresciuto lei. Lei impartiva ripetizioni scolastiche e io ero lì con lei. Addirittura mi raccontava che all'età di un anno sapevo tutto l'alfabeto greco a memoria (non chiedetemelo ora perché non lo so più). Insomma, ero un bambino prodigio. Avevamo un rapporto viscerale, forse in me lei vedeva quel figlio che un giorno sperava di avere e con esso anche i progetti futuri. Ma ho deluso anche lei, ho deluso tutti nella mia vita, anche me stesso. Ecco perché vi dicevo che ho una valigia piena di delusioni; ma torniamo a noi.
Poi non so cosa, ma qualcosa è andato storto: da vivere quella donna appieno sono passato ad un semplice “ciao”. Forse perché lei si è costruita una sua famiglia con annessi due figli. Boh, non lo so, so solo che a volte mi manca. Sono un essere malinconico io, indosso la malinconia come un profumo come diceva la Fallaci a Pasolini. Ma è triste sapere di non avere una famiglia unita, e poi sei costretto a creartela tu al di fuori.
Forse ho preso da lei la passione per la letteratura. Quando mi chiedono chi sono io rispondo un uomo di lettere. Già, sono sempre stato bravo con le parole, più bravo con le parole di quanto non possa esserlo con le persone. Le persone per me hanno un linguaggio incomprensibile. Non riesco a comprenderle, mi spaventano, forse perché tendono ad alterare il mio antropocentrismo. Mi smuovono dal mio mondo, mi schiaffeggiano portandomi nella realtà; e io nella realtà non ci sono mai voluto entrare.
Sono pigro per affrontare una moltitudine di mostri. Il mio mondo è costernato da romanzi, da saggi di filosofia, da musica, da serie tv e da un disperato bisogno di aggrapparmi a qualcuno per non morire solo. Sì, sono fottutamente disperato. Ma chi non lo è, lo siamo tutti. La cosa che ci riesce meglio è quella di lamentarci per ogni cosa. È il nuovo mood generazionale.

Domenico Sabato

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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