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Autore: Maurizio J. Bruno
Veli
Avventura Mistero
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Veli
Che speranza hanno un ignegnere e una storiografa di costruire una coppia affiatata?
E come può un principe alchimista morto oltre duecento anni fa essere d'aiuto nella conquista di Marte?
Passato e futuro...
Esoterismo e tecnologia...
Santa Inquisizione ed Ente Spaziale Europeo...
Quando poli opposti entrano in contatto tra loro, tutto può succedere.
Anche i miracoli...

Napoli, 2 Dicembre 1751
PROLOGO

La pioggia scrosciante scivolava sulle ampie vetrate che davano su Piazza Duomo. I lampi riverberavano da dietro i pesanti tendaggi e il cupo brontolio del tuono faceva tintinnare i bicchieri all'interno della massiccia cristalliera sulla parete di fronte. In piedi, al centro dell'ampio salone, Raimondo era tormentato da infausti pensieri che la tempesta non faceva che accentuare. La luce tremula di numerosi candelabri copriva le pareti della stanza di ombre danzanti. In silenzio, il principe ritornò verso il piccolo scrittoio nell'angolo della sala, spense il lume a olio che ne rischiarava il piano e riprese per l'ennesima volta tra le mani la lettera che aveva terminato di scrivere da oltre mezz'ora. Voltando le spalle a uno dei candelabri della stanza rilesse con lo sguardo triste le poche righe che aveva già firmato con le insegne della famiglia dei Sansevero. Sapeva che quella notte sarebbe potuta essergli fatale, ma proprio il tremendo temporale che scuoteva Napoli gli lasciava una flebile speranza. Per quanto ci pensasse e ci ripensasse non riusciva a trovare un modo migliore di mettere su carta quel che doveva, eppure non si sentiva per nulla soddisfatto della lettera che stringeva tra le dita.
Sentì bussare con delicatezza alla porta del salone e automaticamente diede l'avanti.
- Signurì', la cena è pronta. Stasera v'aggio preparato o crapett' ch' e' patane e a pummarola. Faccio mettere in tavola, eccellé ? -
Sulla soglia dello studio Bianchina, la vecchia governante che era al suo servizio fin da quando era un bambino, stringeva tra le mani tremanti per l'età l'ennesimo candelabro e aspettava una sua risposta con lo sguardo sereno di sempre. Bianchina era per il Principe la cosa più simile a una madre che avesse mai conosciuto, dopo la morte prematura di Cecilia Gaetani D'Aragona, avvenuta quando lui aveva appena un anno. Anche se era disdicevole per un uomo nella sua posizione, provava un sincero affetto per l'anziana donna di servizio.
- No Bianchina, mi dispiace, ma stasera non tengo fame. Dite a Tonio che può anche chiudere il portone e andarsene a letto. Io farò lo stesso tra poco. -
La donna ebbe un piccolo sussulto. Raimondo sapeva che anche lei nutriva per lui un affetto profondo e che se avesse potuto gli avrebbe ricordato che non era affatto cosa buona mettersi a letto senza cena. Ma la donna non era nella condizione di poter contraddire il Principe e così si congedò senza alcun commento dal suo padrone e uscì dal salone richiudendo la porta alle sue spalle.
Quasi contemporaneamente un tuono più forte degli altri scosse l'intero palazzo, arrivando a far risuonare perfino le campane del duomo. Raimondo sobbalzò, ma si rallegrò ancora una volta, sperando che la burrasca potesse salvarlo dalla sorte che lo attendeva. Se fosse riuscito a passare indenne quella notte, la mattina seguente la sua carrozza sarebbe ritornata dalle Puglie e lui sarebbe potuto ripartire immediatamente alla volta di qualcuno dei suoi possedimenti più remoti, senza destare troppi sospetti, e lì sarebbe potuto rimanere almeno finché le acque non si fossero calmate. La fuga era sicuramente una soluzione vile e ignominiosa, ma qualunque via d'uscita sarebbe stata migliore che accettare di finire sotto il giudizio Romano della Santa Inquisizione.
Il principe di Sansevero era sempre stato un personaggio un po' strano e bizzarro. In un'epoca in cui i nobili consideravano disdicevole e plebeo interessarsi di meccanica, di alchimia e di astronomia, Raimondo era riuscito a conquistarsi la fiducia del re proprio grazie alle sue invenzioni e alle sue scoperte. Anzi, Raimondo de Sangro, settimo principe di Sansevero, era stato accolto a corte proprio grazie a una di queste sue trovate geniali, una speciale mantella impermeabile che aveva offerto al re durante una battuta di caccia sotto la pioggia, e dalla quale il sovrano non si era più voluto separare. Già quella volta, dunque, la pioggia era stata sua alleata. La sua posizione si era poi consolidata col passare del tempo, sempre grazie ai ritrovati tecnologici che sapeva proporre al re al momento giusto. Come quando era riuscito a fornire all'artiglieria di corte una carta per i proiettili dei cannoni più resistente e affidabile di quella che erano sempre stati costretti a procurarsi dall'Inghilterra. Ma era stata proprio l'invidia per questa sua ottima posizione a corte e per la fiducia che il re riponeva nelle sue capacità tecnologiche a procurargli, forse, nello stesso tempo anche l'odio di qualcuno. Un ambiente difficile quello della corte del Regno delle Due Sicilie. Come quello di qualsiasi altra corte, d'altra parte. Ma ormai era un fatto che negli ultimi mesi strane voci sul suo conto erano cominciate a circolare un po' dovunque; voci che lo volevano eretico e blasfemo, addirittura vicino alle teorie newtoniane d'oltremanica. Voci infondate, senza dubbio, proprio adesso che i suoi interessi erano concentrati su argomenti molto più tecnici che teologici. Proprio adesso che le sue ricerche nella stanza segreta della Fenice, sotto il salone principale del suo palazzo, lo avevano portato a una scoperta che neanche la sua scienza sapeva ancora qualificare. Ma, evidentemente, quelle voci avevano seguito il percorso sperato da chi le aveva messe in giro, ed erano giunte alle orecchie più adatte. Quei due monaci gesuiti, Innocenzo Molinari e Francesco Pepe, lo avevano interrogato già cinque volte, facendosi accogliere nel suo palazzo come messi della Santa Sede. Il principe aveva fatto di tutto per convincerli della sua estraneità a quelle o ad altre teorie teologiche. Gli aveva mostrato la cappella di famiglia, a pochi passi dalla sua dimora, che stava facendo rimodernare con magnifiche opere d'arte dai più grandi artisti dell'epoca. Era arrivato a parlar loro anche delle teorie scientifiche delle quali si stava interessando in quel momento per mostrar loro quanto fossero lontane dall'essere eretiche. I due monaci avevano sempre annuito in silenzio, ma Raimondo aveva capito benissimo che nessuno dei due aveva mai avuto alcun dubbio sulla sua colpevolezza. Nel loro mondo le voci di corridoio, le denunce anonime e le delazioni contavano più delle prove, e quelle visite nel palazzo dei Sansevero erano solo un passaggio obbligato verso un finale inevitabile nel quale il principe sarebbe stato trascinato di fronte al tribunale della Santa Inquisizione, a Roma, e quindi tradotto in carcere o, peggio ancora, al patibolo. Ma per fortuna Raimondo aveva ancora qualche amico nella curia partenopea, e aveva saputo per tempo che l'ultimo atto di quell'inchiesta sarebbe scattato quella notte. I due monaci, accompagnati da quattro guardie vaticane, erano già in viaggio da Roma alla volta di Napoli. Quella notte stessa si sarebbero presentati al palazzo Sansevero in Piazza Duomo e avrebbero costretto il principe a seguirli nel loro viaggio di ritorno verso la Santa Sede. Purtroppo, Raimondo non aveva potuto approfittare in pieno di quella soffiata. Non si era potuto spostare dal suo palazzo perché la sua carrozza era appena andata ad accompagnare la moglie presso la dimora del padre di lei, nelle Puglie, e la sua partenza a bordo di un mezzo diverso avrebbe dato troppo nell'occhio. E poi, d'altra parte, anche se avesse avuto a disposizione la sua carrozza, non era neppure sicuro che sarebbe davvero partito prima di mettere al sicuro i risultati scientifici ai quali era appena giunto. Aveva riposto un suo scritto e alcuni contenitori di vetro in una piccola cassa di legno, e aveva passato il pomeriggio a nascondere personalmente quel materiale in un luogo segreto, ma non lontano dal palazzo. Dopodiché si era dedicato a scrivere di suo pugno la lettera che ora aveva ripiegato e riposto nelle sue tasche. Era una lettera apparentemente innocua, ma letta dagli occhi giusti avrebbe potuto rivelare il luogo in cui quel materiale era stato nascosto. Raimondo la immaginava come una specie di testamento, o di assicurazione sulla sua reputazione, che stava lasciando ai suoi posteri qualora le cose si fossero messe al peggio.
Ma la tempesta gli lasciava ancora un tenue filo di speranza: ora che aveva sistemato ogni cosa, non appena la sua carrozza fosse tornata, una sua partenza non avrebbe dato nell'occhio e forse, sfruttando gli amici che ancora aveva, a corte e nella curia, in poche settimane sarebbe riuscito a far rientrare il problema.
Un forte rumore lo scosse da quei pensieri. Sulle prime pensò a un nuovo tuono. Ma poi il rumore si ripeté, ritmato e più chiaro, tanto da non dare adito a errate interpretazioni: erano colpi decisi sul portone d'ingresso del suo palazzo che aveva appena fatto serrare. Prese un candelabro dalla bassa cervantes che occupava un intero lato del salone e cominciò a scendere lentamente gli ampi gradini dello scalone che portava giù, nell'atrio d'ingresso. Tonio era già sceso e aveva aperto lo spioncino del portone. Dalla piccola finestrella quadrata la pioggia entrava con prepotenza nel palazzo, tanto che la faccia dell'uomo era già tutta bagnata.
- Chi site? Che ‘vulite a chest'ora? - stava urlando attraverso lo stretto spiraglio.
- Sono Padre Innocenzo Molinari, e con me ci sono anche Padre Francesco Pepe e le guardie della Santa Sede. Dobbiamo parlare col Principe -
La voce del gesuita, più alta di un'ottava, strideva per sopraffare il rumore del temporale e l'angusto spioncino non riusciva a nascondere la soddisfazione del monaco per quella visita notturna.
- E nun putite turnà ddimane matina? O principe se juto a cuccà! -
- Apri questo portone, o te ne pentirai, disgraziato! - urlò ancora il prete, fermo sotto gli scrosci della pioggia.
- Apri, Tonio - confermò il principe dallo scalone. - E poi vatti ad asciugare che sei tutto bagnato. -
- Principe, ma chisti me pare ca tenano mala capa -
- Non ti preoccupare Totò. Falli entrare e poi lasciaci soli. -
Senza ribattere nulla lo stalliere cominciò ad aprire il portone, nello stridore dei chiavistelli. Non appena aprì, i due monaci e i quattro armati si riversarono all'interno insieme alla pioggia sempre più inferocita. Erano ancora sull'arco della porta quando un lampo illuminò a giorno la piazza, definendo in controluce le loro sagome. Tonio, completamente bagnato anche lui, si affrettò a chiudere il portone alle loro spalle e poi si allontanò come il suo padrone gli aveva chiesto. I sei visitatori si ritrovarono nell'ampio vano d'ingresso, grondando acqua da tutte le parti.
Raimondo scese gli ultimi gradini che lo separavano dai nuovi arrivati e si trovò faccia a faccia con Padre Innocenzo Molinari. La pioggia gli aveva incollato i capelli sulla testa e la barba sul volto. Un ghigno che poco si addiceva al volto di un uomo di chiesa gli illuminava lo sguardo.
- Siamo al dunque, Principe! - disse piegando la testa da un lato.
- Al dunque saremo solo quando un giorno ci troveremo al cospetto di Nostro Signore, Padre. -
- Metti dunque in dubbio il potere della Chiesa su questa Terra? Avete sentito? Di quali altre prove avrà bisogno il Tribunale romano per condannare quest'uomo eretico? -
- Cosa volete da me? -
- Fingi ancora di non aver capito? Siamo qui per scortarti a Roma, dove dovrai affrontare il tribunale della Santa Inquisizione in relazione alle accuse di eresia che ti sono state mosse. -
- Io non ho mai fatto, detto o pensato nulla di eretico. Sono un uomo devoto. Vi ho anche mostrato la mia Cappella... -
- Sacrilego! - intervenne Padre Francesco Pepe. - E tu osi chiamare cappella quel luogo pieno di riferimenti cabalistici, di demoniache finzioni ottiche e di spregevoli ornamenti frutto delle tue pratiche alchemiche? -
- Pratiche alchemiche? - chiese il Principe.
- Sì - rispose ancora Padre Innocenzo Molinari - sanno tutti che siete dedito a questo tipo di studi. Cercate, come tutti gli altri, la pietra filosofale che possa farvi arricchire, ma non vi accorgete che la vera ricchezza è solo quella che riuscirete a conquistarvi nel Regno dei Cieli... -
- Ma questa è pura pazzia! Non ci penso neppure alla pietra filosofale. Anzi, per me, non esiste. Non esiste nessuna tecnica scientifica che possa cambiare il piombo in oro... - si accalorò il Principe.
- Poche chiacchiere! Il processo non è ancora iniziato. Prendete un pastrano e venite con noi in carrozza. Racconterete tutto ai giudici del Tribunale. -
Senza rispondere nulla, il Principe risalì lo scalone e lo ridiscese subito dopo coperto da un pesante cappotto e da una mantella impermeabile, simile a quella che aveva regalato al re.
- Andiamo! - disse ai suoi aguzzini
Il portone fu aperto di nuovo da una delle guardie e Raimondo si ritrovò nella piazza sotto la pioggia scrosciante. Alzò gli occhi al cielo e vide ancora diversi lampi tra le spesse nubi che ricoprivano la città. Sollevò il bavero del suo cappotto e salì a bordo della carrozza.

Maurizio J. Bruno

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