L'arcobaleno dopo la pioggia
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Le mie lezioni di vita imparate sotto il segno del cancro.
Mi chiamo Alessandro, e ogni mia giornata iniziava con la certezza che, non appena le persiane si aprivano, una striscia di luce avrebbe attraversato la stanza, segnando l'inizio di una nuova pagina della nostra vita familiare. La quotidianità era un ritmo dolce e familiare, scandito da rituali e piccole gioie che Barbara, Mattia e io condividevamo come una melodia silenziosa ma profonda.
La corsa al parco era il mio momento di solitudine riflessiva prima che il turbinio del giorno prendesse il sopravvento. I miei passi rimbombavano sull'asfalto umido, in una danza regolare che mi preparava mentalmente per le sfide imminenti. Al ritorno, il profumo del caffè preparato da Barbara riempiva la cucina, e ci ritrovavamo tutti e tre in un abbraccio di aromi e affetto, mentre Mattia, ancora assonnato, barcollava verso il tavolo per la colazione.
L'ufficio era una parentesi di normalità che si apriva e chiudeva con la stessa precisione di un orologio svizzero. Tra una telefonata e l'altra, un'occhiata alle e-mail, e le discussioni sui progetti in corso, conservavo sempre un pensiero per i piani del fine settimana e i sogni piccoli e grandi che coltivavamo in famiglia. Il pranzo era spesso affrettato, ma le battute con i colleghi e quel panino artigianale rappresentavano una parentesi di piacere semplice e sincero.
La sera, il ritorno a casa era il capitolo della giornata che attendevo con più ansia. Barbara mi accoglieva con un sorriso che cancellava ogni traccia di stanchezza, e Mattia correva verso di me con l'energia inesauribile dei suoi otto anni, raccontandomi dei suoi eroi dei cartoni animati o dell'ultima avventura al parco. Dopo cena, il divano ci riuniva in un abbraccio collettivo mentre Mattia, tra una risata e l'altra, lottava contro il sonno che inevitabilmente lo vinceva prima della fine dell'episodio che guardavamo insieme.
Questa era la nostra vita normale, un tessuto fatto di piccoli gesti, di parole non dette ma intese, di sguardi che comunicavano più di mille parole. Eravamo una squadra, una famiglia unita che trovava nel quotidiano la sua forza e il suo rifugio. Le abitudini che avevamo creato non erano catene, ma anelli di una catena che ci teneva saldi e sicuri, ancorati alla vita che conoscevamo e amavamo. Non potevo immaginare che presto, la nostra quotidianità sarebbe stata scossa da una tempesta silenziosa, ma in quei momenti di pace, seduto a quel tavolo con Barbara e Mattia, mi sentivo la persona più fortunata del mondo. Ogni giorno era un dono, e ogni risata di Mattia un ricordo prezioso che custodivo nel cuore, senza ancora sapere quanto sarebbero stati vitali nei giorni a venire. Nella mia vita c'era un tempo dedicato all'opera di ogni giorno, ma erano i momenti condivisi con Barbara e Mattia a definire la vera essenza del mio essere. La fine della settimana trasformava il nostro piccolo appartamento in un teatro di gioia e calore familiare, dove ogni sabato e domenica diventavano giorni di festa, non importa quanto ordinari potessero sembrare agli occhi di un estraneo: I soliti amici,coppia che frequentiamo da sempre con le loro figlie una tavolata da noi oppure a casa loro due chiacchiere due risate e la serata o il pomeriggio passava allegramente e in modo spensierato.
Il sabato mattina era un inizio lento e pigrizia dolce. Barbara preparava pancake che Mattia decorava con montagne di sciroppo e frutti di bosco, e la cucina si trasformava in un laboratorio di risate e schizzi di farina. Poi, il mercato rionale era il nostro palcoscenico: Barbara, con la sua lista della spesa scritta con cura, Mattia, eccitato all'idea di scegliere il dolce della settimana, e io, semplicemente felice di essere il loro complice in quella danza settimanale tra banchi di verdure e casse di frutta.
I pomeriggi erano spesso un'avventura, con Mattia che insisteva per esplorare nuovi parchi o provare nuovi giochi. E io, nel ruolo del padre-eroe, mi trasformavo in compagno di esplorazioni, maestro di bicicletta senza rotelle, o portiere improvvisato in partite di calcio dal sapore epico. Erano momenti semplici, eppure carichi di significato, che intessevano il nostro legame familiare con fili d'oro.
La domenica era il giorno del riposo, ma anche dell'unione. Dopo la messa mattutina, dove il piccolo Mattia cercava di comportarsi al meglio, seguiva il pranzo con i nonni. Il tavolo si riempiva non solo di piatti fumanti, ma di storie e ricordi. Barbara e io scambiavamo sguardi complici, mentre le generazioni si intrecciavano nel racconto di aneddoti del passato e piani per il futuro. Mattia ascoltava, con quella curiosità insaziabile tipica dei bambini, assorbendo la saggezza dei nonni e l'affetto palpabile che riempiva la stanza.
Le serate di domenica erano dolci e malinconiche, con il pensiero del lunedì che bussava lieve alla porta della coscienza. Ci ritrovavamo tutti e tre sul divano, a volte con un film scelto da Mattia, altre volte con un libro che leggevamo a turno, la voce di Barbara che si univa alla mia in un duetto di parole che cullava nostro figlio verso il mondo dei sogni.
Questi momenti condivisi erano la trama di cui era tessuta la nostra vita. Non erano eventi eccezionali o vacanze esotiche a definire la nostra felicità, ma il calore di un abbraccio, il suono di una risata inaspettata, il gusto di un piatto cucinato insieme. Ogni fine settimana era un rinnovato appuntamento con l'amore e la semplicità, un rito che ricaricava lo spirito e rafforzava il senso di appartenenza che ci univa come famiglia.
In quei momenti condivisi, mi rendevo conto di quanto fossero preziosi, e di come avrei dato qualsiasi cosa per proteggerli, per preservarli dall'usura del tempo e dalle tempeste che la vita, a volte, porta senza preavviso. Erano questi i ricordi, le sensazioni, le emozioni che avrebbero formato il baluardo contro la paura e l'incertezza nei giorni difficili che avremmo dovuto affrontare.
Tra i vari impegni e gioie, c'era un aspetto che trascuravo troppo spesso: la mia salute. Come una macchina che si aspetta funzioni perfettamente senza mai un controllo, così correvo attraverso i giorni, ignorando i segnali che il mio corpo cercava di inviarmi.
La stanchezza era diventata un compagno costante, un'ombra che attribuivo alle lunghe ore passate in ufficio o alle energie spese nel giocare con Mattia. "È normale, è lo stress", mi ripetevo, mentre mi versavo un altro caffè, sperando che la caffeina mi desse la spinta necessaria a completare la giornata. Barbara, con la sua perspicacia, a volte mi suggeriva di rallentare, di ascoltare di più ciò che il corpo cercava di dirmi, ma io, nel mio orgoglio malriposto, scuotevo la testa e sorridevo, sicuro che un buon riposo nel weekend avrebbe rimesso le cose a posto.
Poi c'erano i segnali più evidenti, quelli che non avrei dovuto ignorare. Un dolore sordo al fianco che andava e veniva, come un visitatore indesiderato che decide di bussare alla tua porta nelle ore più inopportune. "Sarà il segno di un allenamento un po' troppo entusiasta", pensavo, cercando di trovare una spiegazione logica, rifiutando l'idea che potesse essere qualcosa di più serio. Mattia, con la sua innocenza, a volte chiedeva: "Papà, perché fai quella faccia strana?" e io rispondevo con una risata e un solletico, deviando la sua attenzione.
Non mancavano i consigli benevoli di amici e parenti, che osservavano la mia tosse persistente o il mio colorito più pallido del solito. "Dovresti andare dal dottore", mi dicevano, e io annuivo, promettendo di farlo, ma poi rimandavo. C'era sempre qualcosa di più urgente da fare, una scadenza da rispettare, un impegno da onorare. La salute era relegata in fondo alla lista delle priorità, un errore che avrei compreso solo in seguito.
Barbara, la mia dolce e premurosa Barbara, era l'unica che insisteva con amorevole costanza perché prendessi appuntamento con il medico. "Per noi, per Mattia", mi sussurrava la sera, mentre l'abat-jour diffondeva una luce soffusa nella nostra camera da letto. Il pensiero di spaventarli, di creare allarme per quello che ero convinto fosse un malessere passeggero, mi tratteneva dal cercare risposte.
Ma la vita ha un modo tutto suo di costringerti a fermarti e ascoltare. Quei piccoli segnali che avevo scelto di ignorare si fecero sempre più insistenti, come onde che crescono in intensità prima di infrangersi sulla riva. E fu in una mattina come tante altre, con il sole che filtrava attraverso le persiane e il profumo del caffè che saliva dal piano di sotto, che capii che non potevo più nascondere la testa sotto la sabbia. Dovevo ascoltare il mio corpo, dovevo affrontare la realtà, per me, per Barbara, per il piccolo Mattia che aveva bisogno di un padre in salute. Con quel pensiero, presi il telefono e composi il numero del medico, deciso a chiarire il mistero di quella stanchezza e di quel dolore che non volevano più lasciarmi in pace. Era il momento di affrontare ciò che avevo trascurato per troppo tempo. Era il momento di ricordarmi che la salute è il bene più prezioso che abbiamo, e che senza di essa, ogni altro aspetto della vita perde il suo colore. Il futuro si presentava a me come un orizzonte luminoso e promettente. Non ero uomo di grandi ambizioni, ma avevo i miei sogni discreti, piani che sembravano a portata di mano. Un avanzamento di carriera era all'orizzonte, con segnali incoraggianti dal mio datore di lavoro, e questo mi infondeva un senso di attesa positiva. Immaginavo già la soddisfazione di condividere la notizia con Barbara, di veder brillare orgoglio nei suoi occhi.
Alessandro De Luca
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