La prima luce del mattino si fece strada attraverso la vecchia persiana sgangherata e Marco abbandonò i suoi sogni vecchi e malnutriti, troppo deboli per affrontare l'arroganza di quel sole nascente. Quella corrente luminosa che dall'esterno, attraverso gli occhi appena aperti, entrava fin dentro la sua mente, spazzava via l'erba verde della speranza, lasciando posto a un deserto popolato dalle piante infestanti dell'ansia e dell'angoscia La forza impetuosa del nuovo giorno lo stordiva. Ancora nel letto, già si sentiva alla mercè degli eventi, pronto a subire un destino che non poteva controllare.
“Ma se un'energia così leggera mi disarma, come posso affrontare il mondo che, là fuori, mi minaccia con tutta la sua pesantezza?” si chiese senza trovare una risposta.
Si sentiva di cattivo umore, e non aveva alcuna voglia di sforzarsi per essere un po' più ottimista. La vita a cui sopravviveva non gli andava a genio, e non aveva alcuna intenzione di farsela piacere. Testa bassa, spalle chiuse, respiro corto. Il suo corpo si adattava alla negatività del suo spirito e la moltiplicava. Quelli che sapevano tutto, gli avevano detto di provare a cambiare, ma non gli avevano spiegato come. Lo psicologo della mutua, l'unico alla portata delle sue tasche, era stato un po' più preciso: “Cambia la tua fisiologia, respira, sorridi” era stato il suo suggerimento. Ma Marco, soprattutto al risveglio, si sentiva apatico e non aveva alcuna voglia di ridere. Almeno fino al primo caffè della giornata, quando la tristezza si trasformava in rabbia e dal “povero me” passava al “maledetti voi”, per poi alternare le due modalità fino alla sera.
Eppure, i più fortunati, quelli con appartamento, fidanzata e posto fisso, gli dicevano che il mondo era pieno di opportunità che aspettavano solo di essere colte. Ma Marco, nella sua testa, si sentiva spento e incapace di mordere la vita. Vivere intensamente non era una cosa per deboli, aveva letto da qualche parte, ma quella frase aveva solo contribuito a deprimerlo ancora di più. Con fare meccanico preparò e buttò giù un'intera moka, e gli effetti non tardarono a farsi sentire. Ora il suo cuore batteva sempre più rapidamente, si sentiva nervoso e malediceva il tempo inutile che aveva di fronte, la giornata già pronta per essere sprecata affrontando le noie quotidiane e svolgendo un lavoro che non amava ma che, in qualche modo, aveva scelto. E il problema non era solo il lavoro, ma tutto il contesto. Già si vedeva di fronte il suo capo, pronto a rispondere alle sue immancabili banalità con altre banalità. “Ha perfettamente ragione!” rispondeva sempre “è proprio come dice lei, avvocato! Anch'io l'ho sempre pensata così, ma siamo in pochi! Cosa ne sa la gente comune di certe cose?” Perché, del resto, perdere tempo a controbattere? E poi, cosa gliene fregava, in fondo, della verità? Cosa gli importava di esprimere le sue opinioni? L'unica cosa che gli interessava, quando era in quello studio, era uscire prima possibile e con il minor numero di complicazioni.
Poi, grazie al russare prepotente dei genitori nella stanza accanto, si ricollegò con il presente e si rese conto che quel giorno era sabato e che non doveva andare in ufficio. Quella scoperta di certo non gli risolveva la vita, ma gli offriva un temporaneo sollievo. Il sole, intanto, aveva quasi dissolto tutta la nebbia, e questo voleva dire che era giunta l'ora di andare, perché lo attendevano gli esami in Corte d'Appello.
Si alzò di scatto dal divano, terminò di vestirsi e mise nella borsa il suo inseparabile quaderno. Quei fogli di carta, serrati con spille e racchiusi in una copertina nera, avevano una duplice funzione: Da un lato, li usava per annotare i suoi pensieri, come gli aveva prescritto lo psicologo, e dall'altro li adoperava per i suoi racconti. Si era rivolto ad un terapeuta nel momento di massima disperazione, dopo che aveva rotto con la fidanzata. “Sono stato io a dirle che era finita” gli aveva confessato “ma allora perché provo questa terribile angoscia? Prima non ero felice, mi lamentavo sempre di lei, di tutto quello che mi impediva di fare, dei nostri interessi così distanti. Ma ora? Non so più neppure di cosa e con chi prendermela mi sento vuoto...” “Può darsi che non fosse la ragazza giusta, ma con l'eliminazione di quella che, di fatto, era la tua unica vera figura di riferimento, ti sei ritrovato a dover fare i conti con te stesso. Il dialogo interiore è molto importante, ed è bene riuscire ad esserne coscienti. Ti suggerisco di appuntare i tuoi soliloqui, per capire cosa non funziona nella tua visione del mondo. Perché, ricordatelo bene, è quello che dici a te stesso che determina il tuo destino.” Dall'altro lato del quaderno, invece, provava a scrivere le sue storie. Perché, quando lo psicologo, dopo aver ascoltato le sue lamentele, gli aveva chiesto qual era il lavoro dei suoi sogni, lui aveva risposto lo scrittore. Sentiva di avere molta creatività inespressa e amava tantissimo i classici della letteratura, che divorava fin da adolescente. Di conseguenza, su consiglio del terapeuta, aveva iniziato a scrivere sul serio. “A cosa serve un pensiero?” gli aveva chiesto durante una seduta. “Be', pensare è quello che ci distingue dagli animali...” aveva risposto Marco. “Te lo dico io a cosa serve il pensiero: assolutamente a niente, se non è seguito dall'azione. Se vuoi fare lo scrittore, scrivi. Dai un passo, anche piccolo, in direzione della tua meta e fallo prima possibile” gli aveva detto “non lasciare che le tue decisioni rimangano solo vaghe idee nella tua testa, rendile concrete.” Ma non si trattava, lo sapeva, di una strada breve. A dire il vero, non era neppure sicuro che la strada esistesse. Semplicemente, sapeva che era necessario andare.
***
Praticante avvocato, già bocciato all'esame di stato, di fatto era un disoccupato con un impiego fittizio. Ma quel giorno non doveva andare in studio e, aprendo la porta di casa, si sentì affiorare un vago sorriso sul volto. Appena varcato il cancello e abbandonata la proprietà dei suoi genitori, il paesaggio che gli sembrò quasi gradevole. Alberi, prati e montagne, uccelli che cantavano, con poche auto sulla strada principale a interrompere quel quadro bucolico. Ma, come estremo atto di ribellione, represse immediatamente ogni forma di spontaneo compiacimento per tanta bellezza. Per il suo modo di vedere le cose essere felice, anche solo per un attimo, avrebbe voluto dire accettare una realtà che proprio non gli piaceva e, di conseguenza, tradire se stesso. Lavorò così inconsciamente contro ogni forma di buon umore, strinse le spalle e proseguì a testa bassa per la strada che portava alla piccola stazione del paese. Metro dopo metro, sentiva il fiato sempre più corto e l'unica cosa che riusciva ad osservare erano le proprie scarpe che calpestavano un asfalto sempre grigio e sempre uguale. Salì sul vecchio interregionale e, dopo essersi chiesto per l'ennesima volta come quel rudere potesse essere ancora capace di muoversi, si sedette accanto al finestrino. Non poteva assolutamente perdere gli esami e doveva prendere in tempo la coincidenza per raggiungere Firenze. Sapeva che la sua era una situazione comune a molti suoi coetanei: anni di studio, ottimi risultati universitari e poi una serie di porte chiuse in faccia. Tanto impegno, per ritrovarsi, dopo mille sogni e ambizioni, a rioccupare la stessa cameretta che avevano lasciato a diciannove anni. Dopo mille curriculum inviati, non sperava neanche più di ottenere un vero lavoro. Le grandi imprese offrivano solo stage temporanei e vaghe promesse, mentre le piccole i laureati in legge neanche li consideravano, perché per tutto bastavano i ragionieri. Invidiava i suoi amici che avevano studiato materie scientifiche. Erano tutti occupati con buoni stipendi, chi nel nord Italia, chi all'estero. Evidentemente, avevano scelto meglio. Mentre i più fortunati progettavano vacanze e andavano a cena fuori con le fidanzate, lui non aveva mai in tasca più di trenta euro, ovvero i resti del fondo cassa che l'avvocato gli lasciava quasi tutte le settimane, aspettandosi pure un ringraziamento per tanta munificenza. Quei soldi erano una miseria, ma potevano bastare per un biglietto andata e ritorno per il capoluogo e, magari, anche per mangiarsi un panino. Durante il viaggio in treno, provò a scrivere l'ennesima storia anche se, a dire il vero, non si sentiva troppo motivato. Da quando aveva pensato di diventare uno scrittore, era stato rifiutato da tutte le case editrici, grandi e piccole. Per essere esatti, più che espressamente respinto, era stato costantemente ignorato.
E le poche risposte che aveva ricevuto erano state di una banalità sconcertante, del tipo: “Gentile signore, abbiamo ricevuto la sua proposta. Dobbiamo purtroppo informarla che non ha le caratteristiche per rientrare nella nostra linea editoriale. La invitiamo a consultare il nostro catalogo e, con l'occasione, le porgiamo cordiali saluti.” Avrebbe dato tutto per veder stampato il suo nome su un vero libro ma anche quel sogno, dopo tanti dinieghi, gli sembrava impossibile da realizzare. “Ricorda che i grandi edifici, al giorno d'oggi, spesso si costruiscono su cumuli di rifiuti” gli aveva spiegato lo psicologo dopo i suoi primi infruttuosi tentativi, ma lui non era mai stato troppo d'accordo con quell'affermazione. I rifiuti, semplicemente, lo nauseavano. Ora, per ottenere il successo che tanto desiderava, voleva scrivere un romanzo perfetto e, per questo, finiva sempre per scrivere poco o niente.
Tirò giù alcune righe sul suo quaderno e poi le cancellò. “Se dico questa cosa, rischio di offendere il mio capo. Se dico quest'altra, la mia famiglia ne soffrirà moltissimo. L'ultima frase, poi, rischio di rovinarmi la reputazione in vista dell'esame. E se la cambio così? Ancora peggio, mi becco sicuramente una querela! E poi c'è chi parla di libertà di espressione.”
Giovanni Bonelli
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