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Autore: Giuseppe Pensieroso
Ho ucciso Stephen King
Racconti Horror
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Ho ucciso Stephen King
Sono morto.
Credo di essere morto da almeno un'ora, ma il punto non è questo, visto che dove sono adesso il tempo non penso esista. A dir la verità non credo esista neppure un dove.
Il punto è che di tutte le morti del cazzo che ci sono, la mia è stata la morte più del cazzo di tutte.
Volete che ve la racconti? Va bene, anche se dubito mi crederete.
Sono stato divorato da un coccodrillo.
Sì, proprio uno di quei fottuti bestioni australiani o americani. Solo che nel Rio Dulce quel rettile non doveva esserci e invece c'era.
Ma chi sei tu, vi starete chiedendo, il Mr. Crocodile Dundee della domenica? No io sono solo un fotografo, uno di quelli tipo National Geographic per intenderci, certo non così importante, ma non me la cavo (anzi cavavo) affatto male.
Sapete, uno di quelli che s'immerge in acque limacciose con le foglie sul cappello per camuffarsi con il paesaggio e resta fermo per mezza giornata in attesa di vedere e catturare (con l'obiettivo) il Tucano di Swainson o la rarissima rana rossa di Panama.
E invece ti sbuca lui, piuttosto disorientato e molto, molto incazzato. Non so come fanno a essere così silenziosi, ma vi giuro che io non l'ho proprio sentito arrivare.
È stata una morte atroce. Vedete, quando finite per metà dentro la sua bocca siete spacciati. La mandibola è una tenaglia d'acciaio, ha la forza di cinquecento chili per centimetro quadrato, in pratica un rullo compressore, uno schiacciasassi munito di denti.
Nei cartoni animati si vede Capitan Uncino che con la sola forza delle gambe spalanca le fauci e resta in bilico tra dentro e fuori, ma la verità è che quando lui serra la mascella le vostre gambe diventano paté. Mi sono esplose le anche e la gamba destra si è fusa dentro la sinistra, semplicemente confondendosi con essa. Ho gridato di dolore e poi sono finito giù e ho cominciato a ingurgitare acqua.
Il coccodrillo ha una tecnica infallibile per uccidere la preda, come se non bastasse tutta quella forza che si ritrova in bocca. Inizia a rotolare. Gira su se stesso, vorticosamente, trascinandoti giù. L'ultimo ricordo che ho è quello di un frullatore, quello che mia mamma usava per prepararmi il milk shake da piccolo. Perché è lì che ho pensato di essere finito. Dentro quell'amabile, bellissimo frullatore che centrifugava la mia banana mischiandola con il latte. Ho perso conoscenza e mi sono risvegliato qua.
Il mio collega di lavoro avrà dato l'allarme per la mia scomparsa e ora staranno cercando il cadavere in fondo al fiume, laddove il Rio Dulce diventa mare, ma il mio corpo non lo troveranno mai, è dentro la pancia di quel ciccione.
È tutto buio quaggiù. Per forza, non ho occhi. E allora come faccio a pensare se non ho più un cervello? Misteri dell'aldilà.
Non fa caldo né freddo, non ci sono né rumori né odori. Questa deve essere la condizione dell'anima, totale assenza di sensazioni fisiche. Non ho sonno, non ho fame, non ho sete, non ho prurito, non provo alcunché.
E tutto questo per quanto? Devo restare in questa condizione per sempre? Ragiono ancora in termini umani. Non mi riesce facile mettere da parte il concetto di tempo. “Mai” o “per sempre” qui non esistono, qui c'è solo “fissità”. Se avessi ancora un capo avrei già mal di testa per tutti questi astrusi pensieri.
Devo resettarmi. Acquisire nuova consapevolezza.
Eppure non ci riesco. Mi farebbe comodo avere un orologio digitale, uno di quelli che proietta la sua luce sul muro (se qui ci fosse un muro). Forse vedere il numerino dei secondi che si muove mi darebbe conforto o almeno una speranza. Se qualcosa si muove, scatta, va avanti, almeno c'è un senso, una ragione, un punto da cui partire e, forse, uno dove arrivare.
Ma così no. Così c'è solo noia. Le sensazioni fisiche sono sparite, ma quelle psichiche restano.

Coccodrillo, confusione, nebbia, assenza di consapevolezza.

Quante volte ci siamo annoiati durante la nostra vita? Senza sapere cosa fare, in attesa che passassero le ore e ci consegnassero a un nuovo giorno più allettante? Come ci si fa ad annoiare in vita, dico io? Se hai fame mangi, se hai sonno vai a dormire, se ti rompi le scatole leggi un libro o ti guardi un film o vai a passeggiare, tutte cose che qui ti sono precluse. Se ti prude l'uccello ti fai una pippa, scusate la volgarità, ma tanto qua non credo freghi niente a nessuno del linguaggio, a meno che questo non sia il Purgatorio e dal mio comportamento non dipenda una discesa agli inferi o una salita al Paradiso.
Non ho mai creduto a un dopo (e su questo devo ricredermi), ma ho sempre pensato che se fosse esistito io sarei finito all'Inferno, se non altro per quel che ho fatto a Matteo in prima elementare.
Sto divagando. Però questa voglio raccontarvela. Matteo mi tirava i cartoccetti perché portavo gli occhiali e questo, a suo modo di vedere le cose, gli dava il diritto di prendermi in giro. Ai miei tempi nessuno portava gli occhiali in prima, solo se eri un caso grave li avevi. Oggi è diverso. Oggi se a sei anni non mettiamo apparecchi ai denti e occhiali a tutti non siamo contenti. Oggi dobbiamo “prevenire”, dobbiamo “proteggere”.
Eh sì, bella filosofia quella della prevenzione: mettete le mascherine, lavatevi le mani, state distanti che sennò vi ammalate e poi un fottuto crocco del diavolo vi spazza dalla faccia della terra fregandosene del Covid e dei suoi derivati. Non serve a un cazzo prevenire se nel tuo destino c'è un coccodrillo di settecento chili.
Comunque, sto divagando ancora, dove ero rimasto? Ah sì, Matteo. Alla fine non ce l'ho fatta più. Mi sono girato, l'ho guardato con tutti e quattro i mei occhi e gli ho preso un dito, uno a caso, il primo che mi è capitato. Gliel'ho tirato all'indietro fino a che non ho sentito crack e ciao ciao ossicini della mano.
Mi hanno messo in punizione per due settimane, ma ero convinto che la mia espiazione non mi avrebbe salvato dall'Inferno.
Forse ci sono tanti aldilà e questo è l'Inferno dei morti ammazzati dai coccodrilli. Per questo è deserto. Se fossi morto, che so io, di tumore, mi ritroverei in compagnia di un sacco di gente e invece no, dovevo proprio morire in questo modo stronzo.

Percezione primitiva di una consistenza, forma ambigua, movimento, reflusso.

Sì ci sono, sono ancora qui, dove volete che vada? Ho fatto una pausa, per permettervi di andare al cesso a pisciare, o mangiare un panino o schiacciare un pisolino.
Tutte quelle funzioni corporali che vi rendono schiavi e dalle quali io ormai mi sono liberato.
La cosa più strana che provo è l'assenza di forza di gravità. Non poggio da nessuna parte, ma al tempo stesso non galleggio come gli astronauti, non mi sento sospeso. Come dicevo prima non sento alcunché ed è difficile descrivere il niente perché non solo non si percepisce il tempo, ma nemmeno lo spazio.
Qui non c'è dimensione, non ha senso nemmeno parlare di grandezze perché non essendoci alcuna cosa attorno a me, è scorretto anche dire che mi trovo in un posto piccolissimo o magari enorme. Il fatto che non ci siano pareti, o confini, non vuol mica dire che lo spazio attorno a me sia infinito, lo spazio non esiste e io non riesco a spiegarvi questa cosa meglio di così. Lo so, la mente umana non riesce a comprendere tutto ciò, ha bisogno di punti fermi, di regole, di leggi, di sapere che a cento gradi l'acqua va in ebollizione e che nulla è più veloce della luce.
Eppure una parte di me, chiamiamola “anima”, per convenzione, in un qualche astruso modo esiste ancora, quindi tecnicamente questa mia condizione è definibile come “post mortem”, è qualcosa che cronologicamente segue l'evento coccodrillo. A meno che tutta la mia vita non sia stata altro che un sogno, la creazione visiva di un io immaginario, esauritasi la quale sono tornato in questo limbo.
Allucinante vero?
E se invece non fossi morto? Anni fa ho letto un racconto di Stephen King sulla morte apparente. C'è questo tizio che si risveglia su un tavolo. È paralizzato, non riesce né a parlare né a muovere un muscolo, ma vede tutto e si rende conto che stanno per praticargli un'autopsia. È stato morso da un serpente e il veleno lo ha paralizzato, ma nessuno si è accorto dei buchi sul polpaccio e il medico ne ha constatato il decesso. Dunque, il tizio è sdraiato, nudo, e vede la dottoressa avvicinarsi con tutte quelle belle cesoie in mano, pronta ad aprirgli il torace e scoperchiargli la scatola cranica. Per fortuna non dovrebbe essere questo il mio caso. Sono stato divorato, lo ricordate? L'autopsia dovrebbero farla al coccodrillo e credo che neppure aprendogli la pancia troverebbero tracce di me. Ormai mi avrà bello che digerito. Volete sapere come finisce la storia del tizio? Andatevi a leggere il libro, che tra l'altro ha preso ispirazione da Hitchcock. Nel racconto del grande Alfred il morto-non morto si spreme una lacrima dagli occhi per far capire che è vivo. In quello di King le cose vanno in modo un po' diverso.

Assenza, mancanza di una parte, flusso in evoluzione, liquidità appiccicosa, insoddisfazione.

Sono divorziato. Tanto vale che vi parli di me, non ho molto altro da fare, giusto?
È stata colpa mia. L'accompagnavo sempre io mia figlia a scuola. Mia moglie, schiava del cartellino, alle 08:00 in punto doveva stare in ufficio quindi toccava a me preparare Arianna e portarla.
Il cortile della scuola era pieno di mamme. Mamme nervose, indaffarate, annoiate, depresse, isteriche, in carriera, civettuole, distratte. Insomma, mamme di tutti i tipi e per tutti i gusti, a volte più anziane, ma nella maggior parte dei casi più giovani di me. Mamme antipatiche, ma anche attraenti, mamme che non ti rivolgevano la parola e mamme logorroiche. Tra tutte, purtroppo, Giulia, la mamma di Vanessa, compagna di classe di Arianna. Non è stato voluto, è capitato, non si dice così in questi casi? Quasi a volersi giustificare, a scaricare la colpa al destino, al fato beffardo, come se non fossimo noi, fino in fondo, degli esseri capaci di decidere, come se il libero arbitrio non esistesse. A volte preferiamo credere di essere delle marionette per giustificarci, liberarci dal senso di colpa.
È stato il destino che ci ha fatto incontrare. Sì va bene sarà stato pure il destino, ma tu perché quella mattina, invece di farti i cazzi tuoi e tornartene a casa, te ne sei uscito con “io mi prendo un caffè, ne vuoi uno pure tu?”
Il tuo matrimonio è crollato lì, in quella semplice e banale frase che milioni di persone ripetono ogni giorno senza subirne conseguenza alcuna, perché in fondo solo di quello si tratta, di un caffè al bar. Oggi offro io, domani tocca a te. È il nostro rituale sociale, il passatempo che preferiamo. Nel mio caso è stato l'inizio della fine.
Non abbiamo avuto alcun problema a trovare un posto per sfogare la nostra intimità. Mica mi spediscono tutti i giorni al Borneo a fotografare la scimmia con la proboscide. La maggior parte dell'anno me ne sto in Italia, a completare le mie ricerche oppure a scrivere gli articoli che accompagneranno le foto e sono attività che per lo più svolgo da casa.
La mamma di Vanessa, libera professionista, il tempo lavorativo se lo gestisce lei e così siamo scivolati in un'appagante relazione clandestina, fatta di sesso e basta, sfrondata di tutti quegli orpelli, quei di più, quelle routinarie abitudini che pesano come scomode impalcature sulle nostre vite.
Quando all'incirca tre mesi dopo mia moglie, alla ricerca di quella bella foto del Coguaro delle nevi, smanettando sui miei dispositivi si è imbattuta in un selfie scattato insieme a Giulia (a lei ben nota perché è vero che la mattina lavora, ma alle riunioni di classe ci va lei e alle feste pure) e me ne ha reso conto, la mia esitazione ha fatto crollare tutto.
Il giorno dopo le mie valigie erano fuori dalla porta. Non ha avuto pietà. Si è rifiutata di mettere sul piatto della bilancia la famiglia, il bene di Arianna e tutte quelle belle considerazioni che si dovrebbero fare per quieto vivere.
- Qui non si tratta di salvare capra e cavoli - mi ha detto, - qui si tratta della mia dignità. -
Sono rimasto un padre presente, ma sono diventato un ex marito e ho ricominciato a bere.
In effetti, ora che ci penso, questo potrebbe essere l'inferno degli adulteri. Tornerebbe tutto se non fosse che qui è così vuoto mentre ci dovrebbe essere il caos più totale visto il comportamento poco fedele della maggior parte delle persone. Ma continuo a sbagliare, a usare termini non appropriati per la situazione. Qui non esiste vuoto o pieno. Potremmo essere in milioni in questo limbo senza accorgerci della presenza di altri come noi. Eppure, mi chiedo, possibile che non riesca a percepire un anelito, una parvenza, un soffio che mi riveli la presenza di un'anima accanto alla mia? Non so come faccio a saperlo, ma sono assolutamente certo di essere solo qui. Ma allora tutti gli altri che muoiono ogni giorno che fine fanno?

Confusione, miraggio, densità, solitudine, rinnovamento.

Quando sei piccolo devi superare le fasi. Vi faccio un esempio. Arianna aveva la fase “timidezza”. Durante le feste di classe non partecipava ai giochi, stava in disparte, sempre a un passo dall'uscio, come se, per qualche motivo, dovesse tenersi pronta a fuggire. Da piccoli c'è sempre qualcosa che ci fa paura e a volte non è qualcosa che viene dall'esterno, ma è dentro di noi.
Io, per esempio, avevo la paura di non riuscire ad aprire la lampo dei pantaloni quando andavo in bagno. Quella era una paura interna, solo mia. Era una cazzata, ma io ne ero terrorizzato. E se non ci riesco e mi piscio addosso? Come farò? Perché le fanno così complicate le zip? È dura essere piccoli, ogni cosa sembra un ostacolo insormontabile e se poi ci aggiungi le “fasi” le cose si complicano.
Arianna è passata dalla fase “timidezza” alla fase “ritardo”. Ha cominciato ad aver paura di fare tardi. Per ogni cosa mi chiedeva se eravamo in tempo. Quando ci preparavamo per andare a scuola mi chiedeva ogni cinque minuti che ora era, neanche fosse il Bianconiglio di Alice. Eppure non mi sembra sia mai stata sgridata per essere entrata dopo la campanella. E noi dobbiamo lavorare su queste fasi, aiutarli a superarle altrimenti a loro vengono le manie o peggio i complessi d'inferiorità.
La mia fase per eccellenza si chiamava “indifferenza”. Ero indifferente agli altri esseri umani. Preferivo stare dieci minuti a guardare le formiche che si arrabattavano alla ricerca di cibo che giocare con i miei compagni sullo scivolo. Questa mia indifferenza per il genere umano è sempre stata compensata da un'attrazione per il genere animale e quindi il bilanciamento dei miei due istinti mi ha bloccato e non ho mai superato la mia fase.
“Non si direbbe visto il modo in cui hai manifestato la tua indifferenza verso la mamma di Vanessa”, sarebbe capace di dirmi con acidità la mia ex moglie. In effetti ho sempre guardato al genere femminile con un certo interesse. Ho sempre trovato le donne così... vulnerabili. Forse perché ero un ottimo osservatore. Tutti quei minuti in attesa dei miei animali da fotografare mi hanno regalato le doti della lungimiranza e della perspicacia. Io osservavo le mie prede, alla ricerca dei loro punti deboli. Tutti hanno un punto debole, anche le ragazze più belle e all'apparenza irraggiungibili. Ecco, riuscire a forzare il loro fittizio strato di resistenza mi ha sempre dato profonda soddisfazione.
Tutto questo panegirico per spiegarvi l'origine del mio lavoro. L'amore per gli animali, l'idiosincrasia a qualsiasi rapporto capo/collaboratore, padrone/schiavo, datore di lavoro/dipendente, mi ha spinto verso la professione da free lance, anche se poi sono comunque finito a lavorare per una rivista. Però mi concedono libertà, margini di manovra, non si intrufolano nel mio mestiere, anche perché non lo saprebbero fare. Quindi loro scelgono il soggetto e il luogo, io la forma e le modalità d'esecuzione. Certo ci vuole passione, un buon fisico (mi sono venuti i reumatismi a trent'anni) e tanta, tanta pazienza; ci sono giornate buttate al vento, dove non produci nemmeno uno scatto decente e quando ti si presenta l'occasione le dita intirizzite dal freddo ti tradiscono e perdi l'attimo.

Ampiezza, primigenio istinto a colmare il vuoto, attesa, uovo, liquido.

E se fossi morto quel giorno che sono caduto con la moto in autostrada? Io pensavo di esserne uscito incolume, di essermi risvegliato su di un'ambulanza, e se invece tutto ciò che è accaduto dopo l'incidente fosse stato solo un sogno? E solo ora avessi acquisito consapevolezza del mio decesso? Ricordo che era notte, ero piuttosto stanco e non vedevo l'ora di tornare a casa dopo un week-end trascorso con alcuni amici al mare. La strada era buia, ma non lasciava presagire pericoli ed era sgombra di veicoli, quindi stavo andando a manetta. Li ho visti troppo tardi. Quando mi sono reso conto che davanti a me si stendeva un tappeto di pomodori ci ero già finito sopra con le ruote. Sembrava la trappola di un film invece era il carico di un camion sparso per un centinaio di metri. Un carico viscido e scivoloso. Mi sembrava di pattinare, come se fossi finito su una lastra di ghiaccio. Ho slittato, ho tenuto la moto senza frenare, lasciando solo l'acceleratore nella speranza di non perdere il controllo. Per un po' sono rimasto in equilibrio, ma poi sono andato giù, rotolando fin sotto il guardrail. L'ultima cosa che ricordo è il rosso. Non sapevo quanto di quella melassa appiccicosa che avevo addosso fosse succo di pomodoro e quanto sangue uscito dalle mie vene. Poi un velo è sceso davanti ai miei occhi e sono svenuto.
Quando mi sono risvegliato mi hanno detto che non avevo nulla di rotto. Solo una commozione cerebrale che richiedeva due notti in osservazione, ma comincio a pensare di essere morto lì, in mezzo a tutta quella salsa. Se ci pensate una fine altrettanto ridicola di quella causata dal coccodrillo. Potrei essere stato l'unico essere umano ucciso dalla passata di pomodoro.

Giuseppe Pensieroso

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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