Tra nord Atlantico, Pacifico settentrionale, Mar Glaciale Artico.
Nel corso dei viaggi di ricerca che mi hanno condotto in diversi settori dell'emisfero boreale, mi sono spesso imbattuto nei resti e nelle, più o meno vistose, tracce di stabilimenti e di stazioni di caccia alle balene. Sovente abbandonate da molto tempo, altre volte solo da pochi decenni, costituiscono il simbolo di un'era ormai lontana nel tempo, alla quale la maggioranza di noi si sente oggi totalmente estranea. Nonostante le numerose e complesse implicazioni inerenti alla tecnica e all'oggetto stesso della caccia, la sanguinosa mattanza dei cetacei, per lunghi secoli e per diversi popoli, in particolare di regioni e aree marittime - insulari o costiere -, ha rappresentato una parte invero non secondaria, se non di determinante importanza, della loro cultura. Caratterizzata da uno stretto rapporto con l'habitat e l'ambiente marittimo. Bisogna infatti ricordare, e ciò è valido ed è ugualmente estensibile a tanti altri campi del nostro vivere quotidiano, come del tutto "recenti" siano le conquiste operate da ecologi ed etologi, da "verdi" ed animalisti. A parte pochi casi ascrivibili agli usuali precursori. Membri di una "illuminata" avant-garde, senza bandiere e senza frontiere. Il problema nacque e si impose all'attenzione dell'opinione pubblica internazionale e dei governi, con sempre più forza e determinazione, non a causa della caccia in se stessa (1). Ma, come al solito, dal "progresso", che anche in questo campo ha comportato l'impiego di tecnologie sempre più devastanti e distruttrici. A partire dall'invenzione, nel 1864, del celebre cannoncino fiocinatore esplosivo, ad opera del norvegese Svend Foyn. Per cui quello che era un "prelievo" di risorse marine, più o meno giusto, nel tempo si sarebbe trasformato nell'indiscriminato sterminio dei cetacei, alcuni dei quali erano, e sono tuttora, minacciati di estinzione! Se le vecchie stazioni baleniere abbandonate, che mostrano oggi abbondanti tracce del degrado provocato dallo scorrere del tempo e dalle avverse condizioni climatiche, ci ricordano anche "realtà" che possono anche non piacerci, poiché indissolubilmente collegate alla morte di tanti grandi mammiferi marini, l'avvistamento delle balene, sia volontario, nel corso di appositi e gradevoli whale watching, o casuale, ha sempre provocato, in chi scrive, un'eccitazione ed un'esaltazione indescrivibili, quasi fanciullesche, che mai erano state altrove provate. Nei confronti di altri stupendi abitatori del mare (delfini, foche o lontre, ad esempio) o, magari, terrestri. In Africa il paragone va ai tanti elefanti, rinoceronti, od addirittura ai leopardi, intravisti, fotografati, e perfino inseguiti, tra Kenya settentrionale e Sudan meridionale. Strano a dirsi, ma l'incontro con i grandi abitatori della savana non riesce a reggere il confronto con quello delle balene. È un contatto visivo, ma non solo..., che trascende il rapporto occhi-cervello: è emotivo, istintivo. Si collega alla parte più nascosta di noi, quella che gli psicanalisti definiscono l'io, che riesce a smuovere perfino le "acque" del nostro subconscio. E quella, in effetti, rappresenta un'imprevedibile e sorprendente realtà del mare che è riuscita sempre a stupirmi. Ad attrarmi per tutte le sue implicazioni, di fantasia e di mistero - perché no: non sono un cetologo o un biologo marino! -, ma anche per quell'alone di poesia, che pure quel mastodontico abitatore delle profondità oceaniche, con i suoi comportamenti di superficie, a volte flessuosi come quelli di una ballerina d'opera, è riuscita sempre a evidenziare. Suscitando profondi, indimenticabili, turbamenti. Negli anni i miei diversi incontri, nelle regioni più diverse, di questa realtà, mi hanno offerto la possibilità di riflettere sull'importante ruolo che la caccia alle balene ha avuto in passato nei campi più disparati. Dalle esplorazioni di terre ignote e lontane (i volumi scritti dal baleniere scozzese Scoresby (2) sono entrati di diritto nella storia delle scoperte geografiche), e quindi dall'apertura di nuove vie. Sia marittime, che terrestri, che hanno condotto ad una più accurata ricognizione di territori e passaggi marittimi, e all'incremento delle conoscenze geografiche (isole, stretti e canali, regioni continentali, ecc.) e climatiche, come di quelle etnografiche. Grazie ai molteplici incontri ed alle descrizioni che venivano fatte degli "usi e dei costumi" delle diverse popolazioni artiche indigene. Su quest'ultimo fa, però, notevole aggio l'aspetto negativo sui risvolti positivi. Ciò per la continua e costante opera di acculturazione e di disgregazione culturale che i popoli artici (3) avrebbero sperimentato sulla propria pelle fin dal principio del XIX secolo. E, a volte, ancora prima, a seconda del settore geografico artico interessato. Negative dinamiche culturali, che sarebbero state innescate anche a prescindere dalla volontarietà, o meno, degli stessi cacciatori di balene. Figuriamoci se una presunta "superiorità" della razza bianca o la ricerca di un maggior profitto si fossero andate ad aggiungere con forza nell'incontro, anche culturale, tra balenieri e gli Inuit. Tanto da tramutarlo ben presto in un autentico scontro, nel quale la cultura "tecnologicamente più semplice" avrebbe giocoforza dovuto "perdere" qualcosa. Il libro si focalizzerà su alcuni aspetti, storici od attuali, ai quali ho potuto accedere direttamente, nei settori nord-atlantici, del Pacifico settentrionale e dell'Artico canadese, groenlandese, norvegese. Ecco le tappe del nostro lungo itinerario nello spazio e nel tempo: Alaska sud orientale (USA); isola di Vancouver (Colombia Britannica, Canada); Tuktoyaktuk (Mare di Beaufort, Artico occidentale, Canada); Qausuittuq (Alto Artico canadese); Iqaluit e Pangnirtung (isola di Baffin, Artico orientale, Canada); Narsaq (costa occidentale della Groenlandia meridionale); Svalbard (Norvegia); Norvegia; Islanda; Shetland, Orcadi, Ebridi Esterne, St Kilda (Scozia, UK); Fær Øer (Danimarca); Saint-Pierre et Miquelon (Francia), Terranova, Québec (Canada), Madeira (Portogallo); Canarie (Spagna). Invece, per quanto riguarda le popolazioni autoctone, il libro si interesserà agli Inuit e agli Indiani del Nord-Ovest (i cosiddetti indiani dei totem o del salmone). Per quanto invece concerne gli europei, spazio sarà dato a canadesi, norvegesi, scozzesi e faroesi, nonché agli equipaggi delle diverse nazioni europee che, a partire dal XVII secolo, si interessarono, e "con profitto", alle fisheries delle Svalbard e del Mare di Barents. In ultimo, non ci dimenticheremo del ruolo pionieristico esercitato dai baschi in questa attività venatoria (4). Tra i primi a cimentarsi nella caccia alle balene, specialmente alla Eubalaena Glacialis. Spingendosi fin sulle sponde nord americane, a partire dal XV secolo. Secondo alcuni studiosi, i baschi avrebbero frequentato i mari subartici nord-americani addirittura prima di Colombo. È questo un ulteriore caso di "scoperta" dell'America prima del Navigatore, che va ad aggiungersi a quella dei Vichinghi di Vinland (5)? I baschi ben presto diventeranno, tra le varie marinerie, i maggiori esperti della caccia alle balene. Grazie soprattutto al sistema delle stazioni a terra, poi largamente imitato (6) dai balenieri di altre nazioni. Anche se già nel 1635 cercarono di processare le balene direttamente offshore, al largo della costa della Norvegia settentrionale, nel 1659 baleniere basche francesi cacciavano balene à flot, “a galla”(7). NOTE: 1) Spesso indispensabile per la sopravvivenza e l'esistenza dei tanti popoli, che vi si cimentavano. Comunque utile per i numerosissimi by-products provenienti dai cetacei catturati. 2) Vedi Pelliccioni, 2018: 85-92. 3) In particolare gli Inuit, un tempo chiamati Eschimesi. 4) Il primo trattato che parla di questa loro attività è Traslazione e miracoli di San Waast dell'875 (Cousteau, Paccalet, 1987: 16). Mentre una delle prime menzioni della caccia delle balene da parte dei Baschi risale al 1059, quando si pensò di concentrare la carne di balena nel mercato di Bayonne. Lungo la costa dei Paesi Baschi ben 49 porti erano dotati di stazioni di caccia a quelle che, prima chiamate balene franche di Biscaglia (Balaena biscayensis), saranno poi note come balene franche del Nord Atlantico (Eubalaena glacialis). L'industria nella regione basca francese non ha mai raggiunto l'importanza di quella spagnola. Intorno al 1525 i baschi iniziarono a cacciare balene e a pescare il merluzzo al largo di Terranova e Labrador. 5) Anni addietro i Parks Canada hanno scoperto a Red Bay, nel Labrador meridionale, a non molta distanza dalla costa, il relitto di una baleniera basca, il galeone San Juan. Nelle cui acque giaceva dal 1565 (The Tourist Association of the Labrador Straits, 1986: 14-15). Il San Juan trasportava un carico di quasi 1.000 barili di olio di balena. Fu distrutto da una tempesta autunnale sul lato settentrionale di Saddle Island. Affondando a 27 m dalla riva. Gli archeologi subacquei hanno individuato nella stessa zona altri tre relitti, l'ultimo nel 2004. I frammenti carbonizzati della seconda nave, ritrovata nel 1983, suggeriscono che sia affondata dopo un incendio. Tra il 1530 e l'inizio del XVII secolo quelle erano acque intensamente battute dai baschi. Nel 2013 Red Bay è diventata Patrimonio dell'Umanità, e protetta dall'UNESCO. 6) Vennero impiegati come aiuto-skippers, arpionatori, maestri del flensing (grasso delle balene). 7) Wikipedia, History of Basque whaling (Web Page 15.1.2023).
Franco Pelliccioni
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