Storie di periferie esistenziali e di riscatto sociale.
Periferie esistenziali.
L'aria fredda del mattino sulla faccia, gli provocava- come sempre- un senso di estremo fastidio. Non sopportava il freddo. Ma lo doveva subire. Per ogni giorno dei suoi lunghi inverni. Certo, poi veniva la bella stagione, ma era ancora troppo lungo quell'inverno appena iniziato. Le giornate, poi, erano sempre uguali. Sveglia alle quattro. Sì, perché alle 5 già si esce. Mezz'ora in treno e pronti ad aprire la serranda del Bar. Accendi la macchina del caffè, scongela i cornetti e scaldali: Poi arriva il padrone, che controlla che tutto sia a posto. Ed ecco i primi clienti da servire, facendo anche il solito sorriso di circostanza: mentre volentieri vorresti mandarli via a calci. 14 ore di lavoro al giorno per duecento euro a settimana. Qualcosa si racimola con le mance: ma sempre di meno. L'economia va male, e la gente non ha soldi neppure per dare la mancia al barista che ti serve il caffè come vuoi tu. Insomma come tutte le sere, al rientro a casa, diceva a se stesso: Marco: la tua è una vita sospesa! Con un presente paranoico, un passato incolore, ed un futuro dove l'unica certezza è l'incertezza. Arrivare a 32 anni in questa situazione poteva non essere definito un fallimento? Decisamente sì! Ma lui, che poteva farci. Dopo il diploma faticosamente conseguito, aveva fatto domande, concorsi: nulla! Se non conosci nessuno: se non sei figlio di... sei fottuto. E quindi lavori precari: di tutto di più. Poi si era, per così dire specializzato nel lavoro di barista. Faceva un buon caffè, ed ottimi cappuccini. Era garbato con i clienti e in serata, puliva ogni cosa. La mattina, puntualmente riapriva la serranda per un'altra giornata di lavoro. Questa era la sua tragica vita. Al rientro a casa: un monolocale più piccolo della casa dei Puffi, il tempo di cenare qualcosa, e provato dalla stanchezza, di corsa a dormire. La sveglia poi, era un vero incubo mattutino. Ogni giorno uguale a quello di prima. Come avvinto da un implacabile destino. Era nato e cresciuto a Scampia, quartiere napoletano: di quella periferia disagiata e strapiena di problemi sempre enunciati, studiati e declamati, ma mai risolti. Un quartiere noto in città: anzi quasi temuto, in quanto chi abita al centro della città di Napoli, preferisce mettere la testa e la polvere sotto il tappeto: oscurando le periferie, quasi come se fossero un fastidio. Dalla periferia geografica a quella esistenziale il passo è breve. Anzi la periferia geografica intesa come luogo distante dal centro: confine, limite, produce le periferie dell'esistenza, dove il disagio, la deprivazione rendono la vita povera di tutto. Dai beni materiali, al disagio, all'isolamento, alla marginalità. L'unica rilevanza a quel lembo estremo della napoletanità, era offerto dai giornali e dalle televisioni, in occasione di arresti e blitz delle forze dell'ordine, che intervenivano per reprimere in primis l'unica fonte di guadagno per molte famiglie offerto dal quartiere: lo spaccio di droga. Padre morto di cancro quando lui era in fasce. E la giovane madre che si era industriata a fare di tutto, pur di crescere quel bambino, frutto di un grande amore, fatto di stenti e privazioni, ma bello: come sono belli gli amori dei cuori puri. Eh già, i suoi genitori erano due cuori puri, che si adoravano, pur vivendo di stenti e di miseria. Una miseria che non aveva intaccato minimamente la loro dignità. E poi sua madre che gli raccomandava di seguire l'esempio di suo padre, che non aveva mai cercato guadagni facili: come quelli offerti dai “guaglioni” dell'antistato, ma che erano maledetti gli diceva, perché frutto di delitti, di ruberie, di comportamenti che una persona onesta non deve mai praticare. E lui che da ragazzino giocava a pallone per strada come tutti i suoi coetanei, quanti ne aveva visto di suoi amici che ora sfoggiavano vestiti e scarpe alla moda, moto e macchine di gran lusso. Lui invece: vestito sempre con modestia che prendeva la metro per girare per Napoli. Napoli: città metropolitana più giovane d'Italia per età media di abitanti. Un esercito di ragazzi tra i 16 ed i 35 anni, che non erano impegnati in nulla. Non studiavano, non lavoravano, non frequentavano corsi di formazione. Semplicemente invisibili. Anime vaganti. Il bivio della loro vita aveva solo due strade. Farsi sfruttare vivendo, anzi sopravvivendo ai limiti della povertà. Oppure seguire la comoda strada dell'illegalità. Come ogni sera quando la notte già inghiotte il giorno; rimuginava i suoi pensieri, che pressappoco erano sempre uguali: sarebbe mai cambiato qualcosa per lui? La sua vita sempre sospesa ad una precaria esistenza, avrebbe mai avuto una svolta? Mentre pensava questo, una voce lo fece sobbalzare: “Marco, ti spacchi sempre la schiena per pochi spiccioli? Ma quando ti deciderai a venire a lavorare con me. La tua vita potrebbe cambiare.” Era Gennarino, l'aveva chiamato così fin da quando erano diventati amici per la pelle: da ragazzini. Gli voleva un gran bene, ma lui era stato sempre molto avanti: sì, avanti nel prendersi ciò che la vita non gli dava. Ora era diventato un uomo del “Sistema”. Aveva tutto: soprattutto il rispetto della gente. Lo temevano: avevano paura di lui. “Gennarino, ciao, come stai? Ti vedo bene. Lo sai, io preferisco lavorare. L'ho promesso sul letto di morte a mia mamma che avrei solo lavorato. Non posso che continuare così.” “Me la ricordo tua mamma: una santa donna. Ma lo sai io ti voglio bene. E mi spiace vederti ridotto così. Se per caso cambi idea, fammi sapere.” “Gennarì il mio destino è questo: non può cambiare, ma va bene così.” Poi lo abbracciò e si avviò mestamente verso casa. Gennarino lo aveva salvato, un giorno da un'aggressione di un gruppo di bulli del quartiere, che lo avevano preso di mira. Era un colosso, fin da ragazzo. Li mise in fuga a furia di schiaffi e calci. Da quel giorno: lui, Marco: mingherlino fin dalla più tenera età, gli aveva voluto bene. E Gennarino altrettanto. Anzi, lo riteneva come un fratello minore: da proteggere e tutelare. Poi, le loro strade si erano divise. Gennarino aveva fatto strada nel “sistema”, ma il bene quando è profondo, non smette mai di far battere i cuori all'unisono. E quindi continuavano a volersi bene, pur essendo separati da scelte autonome ma entrambe dolorose. Sì, perché la scelta di non diventare parte del sistema malavitoso, mantenendosi integro, non era facile. Chi non avrebbe voluto barattare 14 ore di lavoro duro, ed a tratti umiliante, con soldi, bella vita, vestiti all'ultima modo, moto, macchine, e tante ragazze del quartiere attratte da questi ragazzi che sembravano invincibili, avvolti quasi da un alone magico: come se fossero riusciti a sconfiggere il grigiore di una periferia che ti offre solo fame, stenti e miseria. Mentre loro: “i guaglioni della camorra”, avevano tutto.Una sorta di rivincita sociale, contro lo Stato e la vita che non ti offre alternative. Ma lui, resisteva imperterrito: come l'ultimo dei giapponesi, che in una foresta sperduta di un atollo del Pacifico, non ha sentito alla radio, l'Imperatore del Giappone Hirohito annunciare che la guerra è finita. E quindi restava, anche se mestamente lì, ancorato ai suoi principi e ai suoi valori appresi e metabolizzati dall'esempio dei suoi genitori. Il padrone gli aveva chiesto dalle 12.00 di ogni giorno, di preparare panini, pizze, contorni. Insomma, oltre che barista e caffettiere, era stato promosso sul campo, anche cuoco. Avrebbe voluto ribellarsi: gridare che non era giusto. Ma evitò di farlo. Infatti, il padrone in cambio, la sera gli consentiva di portarsi a casa per la cena ciò che era rimasto. E quando non riesci a mettere insieme il pranzo con la cena, non puoi fare lo schifiltoso o il rivoluzionario. Avendo la cena assicurata ogni sera, oltre a ciò che riusciva a mangiare a pranzo tra un cliente ed un altro, gli avrebbe consentito di risparmiare soldi per comprarsi....
Giuseppe Storti
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