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Autore: Gianluca Ottone
La cosa giusta
Contemporaneo Surrealista
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La cosa giusta
Al tempo ci divertivamo con un paio di altri ragazzi a fare musica strana. Salimmo anche su di un paio di palchi, in città, vincemmo un concorso pari merito con un gruppo Heavy Metal che ci disprezzò platealmente sul palco durante l'ultima esibizione. Mentre stupravano le loro chitarre con furore e una tecnica pazzesca, si avvicinarono a noi, che aspettavamo il nostro turno dietro le quinte, e a gesti ci dissero - guardate qui cosa sappiamo fare, noi sì che sappiamo suonare - .
Mi comprai un computer. La mia intenzione era di organizzarmi per comporre musica a casa e non dover per forza andare sempre da Piero, un amico che aveva un intero studio di registrazione allestito in soffitta. Ma avevo pochi soldi e dovevo procedere per gradi: prima un sintetizzatore, poi il computer, poi il sequencer. Passarono molti mesi.
Durante la prima parte di quel periodo, fissai il computer vuoto dal mio letto, quando ero sdraiato a farmi una cultura musicale con le cuffie. Era una presenza silenziosa nella mia camera, immobile e paziente mi aspettava. Poi una sera lo accessi. Mi annoiavo. Curiosai in tutte le cartelle del sistema operativo tentando di capire come funzionasse. Trovai un programma chiamato Work. Aprii e vidi per la prima volta in vita mia un foglio elettronico. Sembrava organizzato come una macchina da scrivere, provai a pigiare su qualche tasto. Era divertente. Iniziai allora a fare l'idiota scrivendo una serie di parolacce e bestemmie. Non avevo mai scritto su di una tastiera e cercare le lettere di volta in volta era estenuante. Rilessi ad alta voce e scoppiai a ridere. Me ne andai a dormire.
La sera dopo lo feci ancora, questa volta scrissi frasi intere. Mi piaceva. Poi elaborai il primo periodo. Mi ci volle fino a mezzanotte per batterlo. Spontaneamente iniziai a correggere ciò che scrivevo, tornavo spesso indietro e rileggevo a voce alta, poi modificavo, poi ancora, correggevo, correggevo... quelle frasi non erano sbagliate, ma l'impulso di plasmarle era molto forte. Questo processo mi catturò, mi ci perdevo dentro per ore e ore...

Decisi di lasciare la scuola e iniziai a lavorare nel cantiere di mio padre, che in quel periodo stava costruendo una casa molto grande.
- Inizi tutto e non finisci mai niente, da oggi vieni in cantiere con me e fai il manovale, lo sai cos'è un manovale? È uno che non sa fare proprio niente, e allora lo mettono a fare il mulo! - .
Iniziai da zero. Da zero significa che la gente doveva spiegarmi come si chiamano i vari attrezzi. Il primo compito era stato togliere i chiodi dalle assi usate per casserare una gettata di calcestruzzo.
- Questa è una martellina e questo un martello da carpentiere, togli tutti i chiodi, questa è una tenaglia - .
Poi quelle assi avevo dovuto pulirle grattandole con una cazzuola vecchia, stringendo i denti per le vesciche sulle mani scoppiate e infiammate, riporle impilate al riparo della pioggia.
- Mettici degli spessori sotto, così l'umidità del terreno non le marcisce - .
Erano assi di quattro metri e io non avevo mai spostato qualcosa di tanto grande e pesante in vita mia. Ero stanco e dolorante, cosa ci facevo dento quei vestiti sporchi e pregni di sudore? Mi spiegarono che doveva sollevarle afferrandole dal centro, che così pesavano meno. La sera ero così debole che avevo la nausea. Durante la pausa pranzo mi sdraiavo sui sacchi di cemento e senza accorgermene mi addormentavo e sognavo.
- Vammi a prendere le tenaglie - .
Io tornavo con le pinze.
- Vammi a prendere il piombo e un garzone - .
Partivo e non mi si vedeva più per mezz'ora.
- Ma dove cazzo sei andato a cercarlo ‘sto piombo? - .
Io non lo trovavo e andavo nel panico. E intanto il piombo non usciva, ma dove cazzo era?

Fu forse per dimenticare di essere diventato un mulo che iniziai a leggere molto la sera. Non uscivo più, ero troppo stanco. Divoravo i romanzi di Kerouac, Miller, Bukowski, due tre la settimana. Scrivevo tutte le sere e cominciai a desiderare una stampante.
Riuscii a comprarne una piccolina con il primo stipendio, ricordo che andai in tipografia per farmi tagliare a metà una risma di fogli A4. Le mie stampe dovevano somigliare alle pagine di un libro.
Una sera alle prove del gruppo, il cantante, laureato in Lingue e aspirante poeta, in qualche modo si ritrovò in mano uno dei miei foglietti A5. Dopo aver letto e riletto con molta attenzione, mi guardò: - ma l'hai scritta proprio tu questa roba? -
- Ehm... sì... sono solo stronzatine per distrarmi, eh - .
- Usi le parole in modo interessante... scrivi qualcosa di più lungo e portamelo, lo passo a qualcuno che conosco -

- Vai a fare la roba, e vedi di farla buona - .
Non c'era la betoniera, me ne andavo a trafficare con il badile che mi aveva indurito le mani ormai, e i sacchi di cemento che allora erano ancora da cinquanta chili e non da venticinque come oggi. Cemento, calce, acqua e sabbia. Ogni volta che nella sabbia trovavo una merda di gatto la tristezza aumentava. Piegavo la testa e abbassavo la visiera del cappellino sugli occhi perché ero sfinito e mi vergognavo. Mi vergognavo di essere sudato e sporco, mi vergognavo di tutta la fatica che dovevo fare. Mi vergognavo di tutto il dolore che avevo addosso. Mi vergognavo di essere un mulo depresso.
Impastata la malta riempivo un secchio. Trasportarlo era un'impresa, perché pesava tantissimo e non avevo ancora imparato a mettermelo addosso su di una spalla come fanno i muratori.
- È solo sabbia, quante cazzo di volte te lo devo dire come si fa la roba? - .

- Giacomo ti sei messo le calze alla rovescia... - .
- L'ho fatto apposta... - .
- Come lo hai fatto apposta... ma allora sei scemo... - .
- Il tessuto dentro sembra più ruvido, ha un altro aspetto che si sposa meglio con il resto... va a fanculo -
Allargavo gli occhi rimanendo in silenzio. Non riuscivo a trattenere un ghigno stupito. Giacomo era così, si sforzava di avere un aspetto artistico.
- Allora stai lavorando alla raccolta? - mi chiedeva ogni tanto.
- Ho deciso il titolo, la dividerò in due sezioni Voci e Corpo e la raccolta si chiamerà Voci ai bordi del Corpo... comunque mettere insieme centodieci pagine è dura, sai, per ora sono a sessanta - ammettevo.
- Me ne ha parlato anche l'altro ieri - .
- Non mi piace, questa storia mi puzza ... comunque la raccolta la metto insieme lo stesso, può tornare utile - .
- Potevi anche fare a meno di andartene via così -
Nel bel mezzo di un incontro organizzato da Giacomo per presentarmi al pezzo grosso della poesia di Meta, seduti al tavolino di un bar, dopo solo un quarto d'ora, senza nessun preavviso mi ero alzato, avevo salutato e me ne ero andato per i fatti miei.
- Ho avuto la sensazione che ci fosse un doppio fine... mi sono sentito a disagio -
- Stai parlando dell'avanguardia di Meta, tu lo sai con chi ha lavorato -
- Sto parlando di uno che forse te lo vuole mettere nel culo, Giacomo, stai attento -
- Figuriamoci - .
- Mi ha fatto schifo e non sono neanche sicuro del perché io stia facendo questa cosa - .
- Ti trovo uno che ti vuole pubblicare e fai lo scemo - .
- Se per farmi pubblicare devo dare in cambio il culo allora preferisco bruciare tutto - .
- Stai esagerando con questa storia, comunque sto per contattare anche una Casa Editrice inglese, è di Londra, sarebbero in grado di distribuirti anche in Canada e Russia -
- Non so se può interessarmi -
- Fai fare a me, poi ti dico -
- Giacomo... io non lo so se voglio che la gente legga le mie cose - .
- E allora perché scrivi? -
- Ma che cazzo di domanda è? E tu perché scrivi? Non so tu ma io non posso farne a meno, è come quando non fai sesso per troppo tempo e devi scaricarti ... sei pieno e devi svuotarti, cazzo -
- Mhm... -
- Ho tanta voglia di andarmene lontano, Giacomo, via da qui - .
- ... -
- Giacomo ma... mi ascolti? -
- ... -
- Giacomo! -
- ... eh? -
- Merda non hai sentito un cazzo di quello che ho detto! -
- Correggo la parte parlata in tedesco e arrivo - .
- ... - .
- Perché non ti iscrivi a Lettere oppure a Lingue? - .
Già, perché non mi iscrivevo a Lettere oppure a Lingue? Non potevo perché non avevo la maturità. Avevo solo calli sulle mani e mal di schiena.

Un giorno mi ammalai, non avevo neanche la forza per alzarmi dal letto. Sentii mio padre in cucina che diceva a mia madre: - fa finta perché non ha voglia di lavorare e io adesso come faccio che quel lavoro bisogna essere in due! - .
In quel preciso momento decisi che sarei uscito da quella situazione. In un modo o nell'altro.
Due settimane dopo feci finta davvero, mi diedi per malato. Sulle pagine gialle, nel silenzio della casa vuota, cercai una scuola privata e di nascosto andai in città da solo. Non conoscevo gli orari e le linee dell'autobus né dove si compravano i biglietti, camminai. Camminai tantissimo, ma la trovai ed entrai nel palazzo. Nonostante tutto avevo uno stipendio e nessuna spesa, me la sarei cavata con i soldi. Perché non ti iscrivi a Lettere oppure a Lingue? Tutti i miei amici erano iscritti all'università e così avrei voluto fare io, mi mancava la maturità, solo la maturità. Quando nell'ufficio della scuola mi chiesero per che tipo di diploma volevo iscrivermi, risposi: - il più facile e veloce - . Avevo la terza superiore, mi mancavano quarta e quinta. Nessun problema: avrei fatto due anni in uno.
Studiai per mesi con impegno. Andavo alle elezioni in città regolarmente e seguivo il programma meticolosamente. Avrei preso il diploma di maturità e mi sarei iscritto all'università.
Poi la mente di un mio amico si spezzò.

La madre mi chiamò una sera, dopo cena, pregandomi di andare da loro. Simone non stava bene e mi voleva vedere. Telefonata strana, pensai. Presi il motorino e partii.
La casa, già da fuori, aveva l'aria di essere particolarmente silenziosa. Arrivai nel buio, una sola lanterna a gettare una luce triste sul vialetto d'entrata. Sistemai il motorino sul cavalletto e un po' incerto camminai fino alla porta. Prima di suonare mi guardai attorno: la nebbia riempiva l'aria e copriva i campi. Un cane abbaiava lontano nel silenzio. La porta si aprì subito: mi stavano aspettando. Il volto della donna che mi guardò dallo spiraglio era pallido e tirato. Annusai l'aria e percepii sgomento e disperazione. Che cosa ci facevo lì?!
- Vieni Luca, entra - , che voce strana!
Tentai di sorridere, ma il sorriso mi morì in bocca.
- Permesso - , entrai.
- Grazie per essere venuto subito - . Piccola, mora, dai lineamenti delicati e i gesti veraci. Mi strinse forte la mano. In quell'attimo qualcosa passò dalla sua carne alla mia. A quella sensazione il cuore iniziò a battermi forte nel petto. Mi aggrappai alla balaustra della scala. Salii dietro di lei che si muoveva come contratta dal freddo. Non faceva freddo.
Ogni tanto incontravo Simone nella mansarda sopra il secondo piano, dove avevamo ricavato un piccolo ritrovo con divano. Tra fantasie su cinema, letteratura e musica, fumavamo hashish. Sulle scale la madre si fermò un piano prima e mi prese per la spalla guidandomi fermamente davanti ad una porta oltre la quale non ero mai stato. Il cuore mi pulsava in gola. Allargai le spalle facendomi forza.
Accostando l'orecchio alla porta, bussò con una strana delicatezza sussurrando: - Simone, c'è qui Luca - . Poi aprì la porta e mi spinse dentro con il palmo della mano all'altezza delle reni, ben attenta a tenersi da parte.
Eccolo. Se ne stava sul letto con uno strano sorriso e gli occhi chiusi a fessura. Mi guardò e mi fece un cenno con la mano, poi con un ringhio sgarbato ordinò alla madre di andarsene. Lei, con la testa china e quello sguardo pallido, sparì dietro la porta. Non disse nulla.
Sopra al suo letto con una videocamera portatile in mano, cercava con l'occhio infilato nell'obiettivo inquadrature, luci ed ombre. Aspirante regista che venerava Fellini, Wenders e il fumo. Simone era depresso. Annaspava alla ricerca di un'identità, scardinato dalla routine che si era costruito a fatica alle scuole superiori e scaraventato nel mondo universitario non si era più trovato, a tastoni si cercava negli occhi degli amici, quella ricerca gli ingrigiva la faccia.
- Bella questa, quando l'hai presa? - iniziai indicando l'apparecchio tra le sue mani.
- Ce l'ho da un paio di giorni... pensano che sia un cretino io - .
La faccia di un pallore cadaverico e macerata in chissà quali giri di pensiero. Quel sorriso strano gli andò via dalla bocca e poi tornò, e poi sparì. Tornò ancora.
- Te l'hanno regalata i tuoi? -
- Mi controllano, mi tengono d'occhio -
- Chi è che ti controlla, Simo? - .
- Tutti coinvolti, Luca, non mi lasciano stare, mi hanno messo qualcosa nei denti, una ricetrasmittente, la sento vibrare, la senti? - .
Si toccò la mandibola. Pensai sinceramente che scherzasse e mi scappò una risata.
- Ah, cazzo dici, scemo! - .
Si agitò un po', con la faccia raccolta in un risolino strano.
- Ma sì, credevo che mi avresti capito, almeno tu, Luca, almeno tu, almeno tu! - si agitò.
- Simo, hai fumato? - .
Iniziò a dimenarsi, si stropicciò le mani e diventò paonazzo.
- Ma allora non mi credi neanche tu, ti dico che controllano tutto quello che faccio, quegli stronzi, mi credono un deficiente, stronzi di merda, ‘sti bastardi, ma non lo vedi?! - .
Diventai serio. Guardai ancora le sue mani che si consumavano senza riposo - ma chi? - , alzai la voce alterato.
- I giapponesi, cretino, mi tengono d'occhio e si sono messi d'accordo con la mia famiglia, la telecamera, lo sanno che a me piace, gli hanno detto di regalarmela così mi tengono d'occhio meglio, è collegata alla ricetrasmittente che mi hanno infilato nei denti! - .
Un doloroso tuffo al cuore, sentii il sangue lasciare la faccia.
- Simo, aspetta un attimo, che cazzo stai dicendo, che giapponesi, quale ricetrasmittente... hai fumato? Quant'hai fumato, stronzo, ti sei fatto un acido? - .
Ora era perso in qualche pensiero.
- Mi controllano - sussurrò di nuovo calmo.
Simone non scherzava. Credeva davvero in quello che diceva. Non riuscii a trattenermi, stizzito e spiazzato, gli urlai contro: - MA TE SEI SCEMO! - .
In quel momento la porta si aprì ed entrò la madre. Era rimasta tutto il tempo ad origliare insieme al marito. Mi vergognai. Mi alzai in piedi, capii che l'esperimento era arrivato al termine. La prova del nove.
- Simo, adesso vado - , non riuscii a guardarlo in faccia.
- Va a fanculo - grugnì lui e si voltò dall'altra parte.
Nel corridoio mi dissero che si trovava in quello stato già da due giorni. Era andato a dormire e si era svegliato parlando dei giapponesi. Avevano bisogno di capire se stesse fingendo. Poi la madre crollò. Mi abbracciò stretto versando lacrime calde sul mio collo. Simone non fingeva. Il padre rimase in silenzio con due buchi bui al posto degli occhi. La madre mi stringeva, troppo, mi rovistava dentro... la sentivo cercare qualcosa che non avevo. In quel momento tutto ciò che riuscii a pensare fu “mi dispiace, io non ce l'ho, vorrei tanto ma non c'è!” Strinsi, strinsi più forte per nascondermi nella sua carne, per vergogna.
- Andrà tutto bene - mi sentii bugiardo.
Aspettai che lei tornasse a respirare. Poi guardai dentro i buchi neri del padre, del quale avevo sempre avuto soggezione. Franò a terra come un calanco di argilla dopo una pioggia abbondante. Si appoggiò alla parete.
Dovevo andarmene subito. Mormorai un lamento sottovoce che loro forse neppure sentirono e scesi le scale veloce.
Uscii da quella casa e spinsi il motorino. Montai in sella e accesi il fanale, unica luce sicura di quella serata. L'aria buia mi asciugava le lacrime.

Schizofrenia slatentizzata da abuso di cannabinoidi. Lo ricoverarono nel reparto psichiatrico del San Bianchino a Meta. La madre mi supplicò di stargli vicino. Andai a trovarlo tutti i giorni del periodo di degenza. Mi sorbii, con quelle spalle strette che avevo allora, i suoi deliri in cui aveva aggiunto anche lo Spirito Santo e Nietzsche. Guardai da vicino il suo volto svanire ed assopirsi sotto l'effetto dei farmaci. Occhi che trascorrevano le giornate contando le foglie depositatesi sull'asfalto bitorzoluto del cortiletto interno. I parenti arrivavano alle visite per forza di inerzia con una faccia incartapecorita, con occhi così vuoti che sembravano ormai scatole ammaccate.
Poi tornò a casa. Camminava tutto il tempo, gli era stato vietato di usare il motorino. Chilometri come un morto in piedi, sempre gli stessi vestiti, non si lavava mai. Suonava il campanello, chiedendo attenzioni. Quel grigiore che prima gli pendeva dalla fronte ora si era allargato come una macchia d'olio e lo copriva per intero. Sedato e gonfio. Chiedeva da fumare.
Decisi di evitarlo, sentendomi tirare lo stomaco dal senso di colpa. Per stargli vicino avevo trascurato gli studi. Gli volevo bene e volevo stargli vicino, ma il tempo passava e lui mi tratteneva in un attimo già passato e che non sarebbe tornato mai più. Io dovevo andare avanti.
Tornai a scuola, fissando appuntamenti fitti di lezioni.
Strinsi i denti per non voltarmi indietro.

Durante una lezione di letteratura, venne fuori che tutti avevano già presentato la domanda per l'esame di stato da privatista. Io, un po' nervoso, dissi che negli ultimi mesi ero stato un po' impegnato e chiesi come dovevo inoltrarla, come funzionava. La professoressa infilò i suoi occhi nei miei.
- Non hai ancora fatto la domanda? - .
Dissi a bassa voce che un mio caro amico aveva avuto problemi di salute e che per stargli vicino non avevo seguito le lezioni per un po'. L'insegnante ammutolì e divenne seria, prese la cornetta in mano. Io mi spaventai e osservai ogni suo movimento, dietro quella scrivania laccata e tutta graffiata dai libri che ci avevano strisciato il proprio passaggio sopra per anni. Fumava molto e aveva la faccia sgonfia. Ombretto, rimmel e fondotinta su di una prugna secca. Chiamò gli uffici della scuola e chiese se c'era ancora tempo per un'ultima iscrizione. Abbassò la cornetta dicendo che tra un po' avrebbero richiamato con una risposta. Mi spiegò, dietro a una nuvola di fumo, scrollando la sigaretta, che ne avevano abbondantemente discusso negli ultimi due mesi, proprio quando io invece ero in ospedale a fare compagnia al mio amico. Disse che forse era troppo tardi.
Bestemmiai forte. Qualche risata svolazzò alle mie spalle.
- Ma perché, c'è una data fissa per presentare domanda? - , chiesi paonazzo, spaventato a morte.
- Sì, tesoro - .
Scattai in piedi, le mani sugli occhi, trattenni un fiume di improperi. Lei riprese la lezione senza darmi troppe attenzioni. Fu subito interrotta dallo squillo del telefono, però. Mentre ascoltava mi guardava dritto negli occhi. Annuì. Armeggiò con una scatoletta di latta e si infilò in bocca una mentina. Si prese un labbro tra i denti. Ringraziò. Inspirò profondamente per farsi forza.
- Il termine è scaduto da più di un mese, devi aspettare il prossimo anno, tesoro - .
Si voltò per non guardarmi. Spostò il telefono. Nessuno respirava. Quel “tesoro” detto così mi pesò addosso come un macigno.
Dopo un attimo strano, come di perdita di conoscenza, mi coprii gli occhi con le mani e reclinai la testa all'indietro. Il sangue mi andò tutto al cervello, sentii le vene del collo gonfiarsi e pulsare forte. Rividi le corsie dell'ospedale al rallentatore. L'asfalto torturato dalle radici degli alberi del cortiletto interno. Mi venne male allo stomaco. Uscii dalla scuola.
Camminai in silenzio, guardando i marciapiedi spogli. La città mi sembrò sporca e grigia. Nessuno mi notava. Solo un sottile niente che teneva insieme i pezzi.
Maledissi quella cazzo di situazione.




ASPETTAVO SOLO UN PO' DI CALMA




La conobbi su di un muretto. Ci arrivai una sera, per caso. Avevo un appuntamento con un tizio e mi fermai a chiedere informazioni. Era un muretto basso e coperto con sudice lastre di travertino scadente.
Li vidi appollaiati, tutti in fila come piccioni sui tralicci della corrente. Scrutai gli sguardi seduti e un po' assenti del gruppo, poi d'istinto andai verso le ragazze. Slanciata, con una chioma scura, liscia e lunga. La testolina se ne stava appesa a tutti quei capelli neri, un po' piegata da una parte. Si teneva il mento con una mano e, avvicinandomi, notai che aveva le pupille troppo grandi.
- Scusa, ti posso chiedere un'informazione? -
Aveva gli occhi di un marrone chiarissimo e trasparente. Le pupille galleggiavano in quei laghi di montagna cristallini, larghe e pigre.
- Ciao! - mi salutò lentamente - e tu da dove spunti? Vuoi un tiro? - mi passò un cannone.
- Grazie lo stesso - rifiutai alzando la mano - dovrei andare in Via Cernobbio, sai per caso dove si trova? -
- Siediti qui - mi disse battendo il palmo della mano sul muretto.
- Veramente io... avrei una certa fretta -
Il suo sorriso era come una collana di perle tra le labbra e si ruppe in un'adorabile risata sbracata. Mi sedetti.
- Da dove vieni? - mi passò di nuovo la canna.
- Vengo da Molinella, sai dov'è? - , rifiutai di nuovo.
- Mai sentita. Cosa ci fai a Bologna? -
- Mi devo vedere con un cliente pe un sopralluogo - .
- Sopralluogo? - mi squadrò allontanandosi leggermente dalla mia faccia - di cosa ti occupi? -
- Sono un muratore. Il mio titolare mi ha chiesto di aiutarlo nella preventivazione. Mi manda per i sopralluoghi -
- Devi essere bravo, allora -
- ... - sospirai e abbassai lo sguardo.
- Beh, che c'è? -
- Vorrei un'azienda tutta mia -
- ... - mi guardò intensamente negli occhi rapita da chissà quale pensiero - lo vuoi il mio numero? - mi disse seria, d'un tratto.
- ... - galleggiai per un attimo insieme a lei i quei meravigliosi laghetti di montagna, sentii un sorriso tendermi le labbra. Annuii senza dire niente.
- Via Cernobbio è dietro quel caseggiato là in fondo - indicò con un indice un gruppo di palazzi popolari che necessitavano di manutenzione straordinaria poi, abbassata la mano, fece un cenno con il mento - se a quel semaforo svolti a sinistra, in fondo di nuovo a sinistra, ci sei. Hai carta e penna? Ti detto il numero. Comunque io quasi tutte le sere sono qui - .
Fu come un rivoletto di acqua pulita che scorre liscio in discesa e si allarga prendendo coraggio.

Anna non era particolarmente bella. Ciò che colpiva era la sua sicurezza. Quel senso di protezione che davano le sue braccia. Le usciva qualcosa di invisibile dal petto che mi faceva sentire a casa, sempre. Quando rideva o si arrabbiava, una venuzza azzurra che le affiorava al centro della fronte. Non aveva denti perfetti, gli angoli che formavano tra di loro, però, davano un ritmo piacevole al suo sorriso pulito.
Aveva un pollice più corto, tozzo, rotondo, con un'unghia bassa e larga. Quando mi prendeva la mano lo cercavo con la punta delle mie dita, ne accarezzavo la forma con i polpastrelli, me lo portavo alle labbra e lo baciavo spesso, anche con la lingua. Lei rideva.
Mi accorsi di quella lieve malformazione la prima volta che mi accarezzò il volto. Eravamo in pizzeria. Lo passò sulle mie sopracciglia.
- Fammi vedere - , lo osservai con attenzione.
- No, ma è solo quello che... - e mi porse l'altra mano mostrandomi i due pollici stesi vicini.
- È più corto! - , dissi, glielo baciai, come si bacia la bua di un bambino, - ma cosa ti è successo? -
- ... sono nata così. Funziona perfettamente, sai - .
- Ma pensa, non lo avevo proprio notato -
Non lontano, il pizzaiolo origliava dietro al bancone, allargando indaffarato le pizze con la punta delle dita sulla lastra di marmo con una certa ostentazione.
- Da bambina mi prendevano in giro, dicevano che ero nata con il ditone del piede sulla mano - .
- Che stronzi - .
- Vabbè', i bambini... ho imparato a non metterlo in mostra -
- È più corto di parecchio - , continuai io, rigirandomelo tra le dita per studiarlo meglio, - che unghia piccola - .
- È più corto di circa un centimetro e mezzo. La chiamano brachidattilia -
- Ma è possibile allungarlo? -
- No, Pietro - scoppiò a ridere, mi accarezzò la nuca tirandomi verso sé, appoggiò la sua fronte alla mia e mi guardò teneramente negli occhi, - non c'è una cura - disse sottovoce, - anche perché non serve nessuna cura, il mio pollice funziona benissimo così - , cercò le mie labbra e mi baciò.
- Quindi riesci a fare tutto -
- Tutto. Solo i guanti rimangono un po' abbondanti in punta, ma risolvo con un punto di ago e filo -
Dopo cena, mi invitò nella sua stanza, al dormitorio dell'università. Scelse un album di Jimi Hendrix e ci spogliammo lentamente. Danzammo dolcemente l'uno sull'altra, pelle contro pelle, assaggiandoci sulle note sensuali di quella chitarra che ancora non conoscevo. Qualcosa usciva da lei, accesa dalle mie dita, dalle mie labbra e dalla mia lingua. Usciva dal suo seno, dalle sua braccia, dalla sua bocca, dai suoi occhi liquidi e dai suoi capelli. Cercai l'origine di questo tepore buono che mi investiva e mi avvolgeva.
Quella notte ci cibammo l'uno dell'altra a lungo, finché sazi ed esausti ci addormentammo all'alba.

- Qui dice... ma mi ascolti? -
- Dimmi... hai visto le mie calze? -
La luce del mattino mi infastidiva, ma avevo ancora voglia di lei. Che fatica starle lontano. Non avevamo puntato la sveglia, rischiavo di fare tardi in cantiere!
- Vedi sotto il letto -
- Accidenti, ma chiudile ste cazzo di bottiglie! Se n'è versata solo un po', ma puzzerà - ,
- Ah, è solo vino, dopo pulisco, ti leggo una cosa mentre ti vesti -
- Sì -
- ...Pietro, ti leggo! -
- Ascolto, ti ho detto! -
- Te ne stai col naso sotto le coperte! -
- Mica ascolto con gli occhi, mhmm... cosa abbiamo qui? -
- Mi fai il solletico! Non ti è bastato? -
- Forse le mie calze sono... qui? -
- Ah, dai... no no, dai! Lasciami stare che ho lezione tra un po'... ho lezione! Ah! -
- Mhmm, sono finite forse qui dentro? Aspetta che provo più in fondo... -
- Smettila! Ah! Eh... oh... wow... beh... -
- Perché hai lezione? -
- ... sssì... mhm... tra neanche un'ora... -
- ... - mi fermai, non ci riuscii a fare finta di niente.
- ... beh, che c'è adesso? -
- Hai lezione e fai colazione con il Merlot? -
- ... -
- Me ne vado in cantiere - .
- Dai... uff! Mi fa schifo quando mi dai le spalle così -
- ... -
- Beh io te la leggo lo stesso sta cosa, ascolta - riprese il libro dalla mensola bassa sopra al letto, - alcuni critici hanno suggerito l'ipotesi che "l'angelo" citato nella canzone possa riferirsi non solo ad una idealizzata figura femminile, ma alla madre defunta di Jimi, Lucille Hendrix, che gli sarebbe apparsa in sogno ispirandogli la composizione del brano circa alla fine del 1967. Versi tratti dal testo della canzone furono recitati durante il funerale di Hendrix - .
- E allora?! - ero arrabbiato.
- Ma non è bellissima, sta cosa? Questa figura femminile idealizzata che prende la forma di un angelo e che ha sia il valore di amante redentrice che di madre... dai, non fare così! -
- Bella -
- Ma sei “veramente” incazzato, adesso? -
- Anna, ma tu non ci pensi al domani? -
- Ma che... -
- Sei veramente convinta che il mondo finisca qui? -
- ... ma cosa dici, scemo?! -
- Non mi basta -
- ... - chinò la testa e guardò le lenzuola.
- Così a me non basta! -
- Pietro... -
- ... -
- ... hai trovato le calze? -
- Me le sono già messe, vado, ciao -
- Vieni a prenderti un bacio, scemo -
- ... -
- Non lasciarmi così! -
- ... -
- Non te ne pentirai, campione -
- E la lezione? -
- Fanculo la lezione -
Abbassò il lenzuolo scoprendosi il seno, allargò le braccia in un invito indeclinabile.
- ...beh... - dovevo assolutamente baciare e succhiare quei capezzoli, ora, non c'era nulla di più importante al mondo che mangiare un altro po' di lei.
- Vieni - mi sussurrò.
- Chiamo il geometra... dico che faccio tardi - , mi slacciai i pantaloni, mi tolsi le calze e le lanciai dietro di me.
- Molto tardi... digli che ti liberi solo dopo pranzo -
Mi tuffai.

Passeggiavamo di sera sulle strade umide d'autunno di Bologna. Ci piaceva camminare sopra il ponte Mascarella, guardando i treni transitare sotto e fermarsi poi alla stazione centrale. Attraversavamo i viali di fianco alla porta illuminata dal basso, poi pigramente ci addentravamo nel centro, sotto i portici, sui marmi colorati dei pavimenti lucidi. Ci voleva quasi un'ora, con il nostro passo ad arrivare sotto le Due Torri, poi fino a Piazza Maggiore, dove esausti ci abbandonavamo sulle scalinate di San Petronio e osservavamo i passanti e gli altri nottambuli chiassosi.
Anna mi baciò, poi prese fuori la fiaschetta di Gordon's London Gin che teneva nella giacca e, allungando le gambe, ne svitò il tappo strappando la linguetta. Dopo due lunghi sorsi appoggiò la testa leggera sulla mia spalla e chiuse gli occhi. Io cercai le sue labbra alcoliche, le succhiai delicatamente e le aprii desiderando intrecciarmi con la sua lingua morbida. Le baciai le orecchie e premetti forte i miei occhi chiusi contro la sua pelle, avrei voluto infilarmici sotto e rannicchiarmi con il pollice in bocca. Cercai con le labbra il calore confortante del suo collo.
- Fatti un goccio - mi porse il gin.
Ne bevvi una lunga sorsata. Se avessi finito il liquore lei ci sarebbe rimasta male. Controllai quanto ne rimaneva nella bottiglia alzandola contro la luce di un lampione e agitandola un poco.
- Ho bisogno di mangiare qualcosa, invece -
- Di cosa hai voglia? -
- Di te - la strapazzai prendendola a morsi sul collo e facendole il solletico sui fianchi. Le sue risate svolazzarono allegre e un po' storte sulla piazza.

- Non so per quanto mi vedrai ancora in giro -
- Ma che dici? - quel giorno aveva bevuto molto, troppo. Se ne stava sul letto con le sue bottiglie, non si era lavata.
- Voglio sparire, non cercatemi - , con il mento sul petto e una mano tra i capelli spettinati.
- Ma che dici? Anna smettila! Smettila di bere, prenditi almeno una pausa! Guardami negli occhi! Ti faccio un caffè - .
- Mi dissolverò senza lasciare traccia - mugolò, - scusa amore mio, ma io me ne devo andare, me ne devo andare, me ne devo... - non sollevò la testa con un sospiro stanco. La voce le si spezzò in gola. Ma Anna non piangeva. L'avevo vista commossa, ma mai piangere sul serio.
- A me non pensi? -
- Io me ne voglio andare proprio perché penso a te, scemo! - batté un pugno sulle lenzuola - scemo, scemo, io ti amo, io... - collassò sopra al cuscino.
Le accarezzai la faccia e lei abbassò lo sguardo. Spinse via la mia mano e senza guardarmi si voltò dandomi le spalle - io ci penso a te, io... - . Vidi i muscoli all'angolo della sua mascella irrigidirsi.
- Anna -
- Pietro - mugolò - lascia stare il caffè... io sparisco - , si lamentò. Le accarezzai la testa, le baciai i capelli. I minuti trascorsero larghi e densi. Io la accarezzavo con movimenti attenti, caldi. Le mani in quel momento mi sembrarono in grado di parlare, baciare ed amare come il resto del corpo non poteva fare. Passarono altri minuti, il ticchettio della sua sveglia era l'unico suono che riempiva il silenzio, oltre ai nostri respiri. Sollevai lo sguardo e vidi che i suoi occhi erano chiusi. Si era addormentata. Appoggiai la mia fronte alla sua nuca e sentii il tepore della sua testa ubriaca sulla pelle.
Sussurrai: - io non ti credo, amore mio, tu non te ne vuoi andare - .

Finalmente mi rispose al telefono. La situazione le era sfuggita un po' di mano e mi aveva chiesto un paio di giorni di pausa per rimettersi in sesto. Quando beveva così tanto diventava rabbiosa e diceva che non meritavo di essere trattato male. Rifiutò le mie chiamate per due intere settimana. Proprio quando mi ero convinto che fosse finita, mi rispose.
- Ciao -
- Sei viva? -
- Non lo so - sussurrò assente.
- Ti posso aiutare? -
- Non lo so - mormorò con un po' più di voce.
- Ti posso amare? -
- ... -
- Scusa... non voglio starti addosso, io l'ho capito che... -
- Vediamoci -
Nella penombra della sua camera aleggiava un odore rancido. Sulle lenzuola stropicciate e sudate, tra le bottiglie ammonticchiate, dentro i cartoni sotto il tavolo e persino nelle goccioline incollate sul vetro della finestra. Mi chiesi che sapore potesse avere quel vapore che impediva di vedere l'orizzonte là fuori.
- Posso aprire un po' la finestra? - le chiesi dopo aver resistito all'impulso di stringerla forte a me. Mi feci bastare il pallido bacio sulla guancia che mi concesse.
- Fai pure, mi metto una felpa - andò in bagno.
Le condizioni della camera mi fecero pensare che non era uscita di lì dall'ultima volta che ci eravamo visti. Sul tavolo una scatolina bianca. La presi in mano e lessi: “Sereupin, 20 mg compresse rivestite con film, Paroxetina, uso orale”.
- Cos'è questa roba? - le chiesi ad alta voce.
- Come dici? - chiese lei dal bagno. Aspettai che uscisse, posai la scatola sul tavolo, sembrava intonsa. La cucina era triste e solitaria, puzzava di rifiuti fermentati e spray deodorante scadente, un paio di tazze e piattini sciacquati attendevano sovrapposti chissà da quanto di vedere un po' di detersivo. C'erano schizzi di vomito secco nel lavello e sul rubinetto - cristo - . Aprii il frigo. Due vasetti di yogurt alla fragola, tre bottiglie di prosecco, un pomodoro, un cetriolo, mezza bottiglia di vodka alla pesca.
- Anna -
- Eccomi - uscì dal bagno con la felpa più brutta che aveva.
- Da quanto tempo non mangi un pasto decente? -
- Hm - gemette con le labbra arricciate, sembrava intorpidita - non ho molto appetito - .
Indicai la scatola bianca - che roba è? -
Si sedette sul letto, a gambe incrociate. Batté il palmo della mano sul materasso facendomi segno di sedermi accanto a lei. Sotto la luce della lampada notai che il suo volto era gonfio e grigio, gli occhi vuoti.
- Sono stata dal medico perché non ho più il ciclo. Mi ha prescritto un antidepressivo - mi disse con alito alcolico.
- Da quanto tempo non ti vengono? - , nascondeva qualche bottiglia in bagno?
- Boh... un paio di mesi - guardò per aria in cerca di scampo dal mio sguardo - tranquillo, il test di gravidanza è negativo - .
Mi massaggiai gli occhi con le dita, - perché non me l'hai detto? -
- Pietro... cioè, non è che si blocca e basta, il flusso è diminuito a poco a poco e poi... - si agitò subito lei.
- Ok, ok... ti ascolto - le dissi con voce controllata alzando un palmo in segno di buone intenzioni.
- ... diventa irregolare, e poi... -
Sospirai - hai già iniziato a prenderlo? -
- Non l'ho neanche aperto! -
- Perché? -
- ... - sospirò forte guardando la finestra.
Le accarezzai il viso - Anna - lei non si ritrasse. Mi prese la mano e se la premette sulla guancia.
- Non sono stata del tutto sincera con lui - , intrecciò le sue dita alle mie. Il mio cuore esultò.
- In che senso? -
- Non gli ho detto... beh, io non me la sono sentita... non gli ho detto del bere, ecco -
- Ma se è proprio quello il problema! Anna! -
- Sei venuto qua per sgridarmi? - abbassò lo sguardo, lasciò la mia mano e sospirò di nuovo. Quella frase non era da lei. Iniziò a stirare le pieghe delle lenzuola con movimenti ripetitivi delle dita.
- No, ma voglio capire -
- Non posso prendere quel farmaco se non so come interagisce con l'alcol - .
- Hai fatto bene. -
- ... -
- Da sola non ce la fai. -
Annuì in silenzio con il broncio senza guardarmi.
- Tu come stai? - mormorò con un filo di voce spezzato dal senso di colpa.
- Non sto bene perché non sto con te. Non sto bene perché tu non stai bene. Ti posso aiutare? -
Si nascose il viso con le mani, prese a muovere la testa avanti e indietro, ripetutamente, cantilenando parole sottovoce incomprensibili. Mi spaventai.
- Non esco, non esco da una settimana, non esco - disse guardando il tappeto - una settimana - .
- ... -
- Portami a fare una passeggiata -
- Hai bisogno di qualcosa nel frigo, ti va di andare al supermercato? Ti faccio la spesa io, te la porto e te la sistemo -
- No no no, c'è gente, mi vedono, io... sono brutta... in mezzo a tutta quella gente? Davvero? No! No, no! -
- Ok... -
- No dai... -
- ...ok, magari... -
- ... portami fuori di qui! -
- Ok - le accarezzai la guancia e mi avvicinai. Lei chiuse gli occhi, un silenzio morbido e la piega delle sue labbra, mi annunciarono che l'avrei vista piangere per la prima volta da quando la conoscevo. Iniziò a singhiozzare e mi afferrò il collo, mi abbracciò forte fino a farmi male.
- Tienimi stretta tienimi stretta tienimi... ti prego tienimi tienimi tienimi... - .
Non respirò per un attimo, poi sentii le sue lacrime calde bagnarmi il collo. Riprese fiato con un suono goffo di gola che si tramutò in un rantolo. Rimanemmo lì incollati. Pianse tutte le lacrime che non aveva mai versato. I suoi gemiti di dolore mi entrarono nella pancia e si fecero spazio fino alla gola, mi riempirono la testa e mi uscirono dagli occhi. Le nostre lacrime si mescolarono, avevano lo stesso sapore.
Poi mi vomitò addosso.

- Ti tremano le mani -
Mi guardò in silenzio, nervosa. Gli occhi spaventati. Capii. Mi alzai lentamente e andai alla cassa, chiesi una birra grande. Mentre la spillavano, guardai indietro. La mia Anna stava scomparendo, al suo posto, là seduta, c'era... già, chi c'era? Una bambola gonfia con gli occhi finti e i vestiti fuori misura. Ringraziai la cassiera con un sorriso un po' triste e le portai da bere. Un lampo di intenso desiderio le attraversò gli occhi quando mi avvicinai. Ne bevve metà d'un fiato.
- Vederti stare male forse è peggio - .
- Pensavo di farcela, siamo fuori da poco -
Continuò a bere annuendo. Poi disse: - San Nicola -
- Come? -
- È una comunità di recupero vicino a Senigallia. Ho inviato una richiesta -
- Ma è fantastico, cosa aspettavi per dirmelo? Io avevo pensato a San Patrignano -
- A San Patrignano non trattano quelli come me... aspettavo un po' di calma, amore... aspettavo solo un po' di calma - .

Non rispose al telefono per molti giorni. Mi sembrò di vivere trattenendo il fiato. Quando andavo a lavorare, allungavo di chilometri pur di passare sotto il suo dormitorio nella speranza di vederla. Non aveva amiche, non aveva amici, io non sapevo a chi chiedere di lei. Ero pronto a portarla in qualsiasi parte del mondo pur di aiutarla a curarsi e mi sarei accollato le spese.
Decisi di passare all'azione. Dopo il lavoro mi fermai al dormitorio e parlai con il portinaio. Lo tempestai di domande, mi scaldai e quasi lo presi a pugni nel tentativo di farmi aprire la sua camera. Ero fuori di me, urlavo e ci guardavano tutti. Era contro il regolamento, certo, ma lui mi aveva visto spesso con lei! Dopo un paio di telefonate, capirono l'emergenza e agirono. Andarono ad ispezionare la sua stanza. Non mi permisero di entrare con loro, ma quando uscirono dissero - non rientra da un bel po' - . Si spaventarono per la quantità di bottiglie vuote che trovarono dappertutto.
Alla caserma dei Carabinieri parlai con il maresciallo De Pretis, un uomo buono dentro un'uniforme impeccabile. Mi spiegò che la denuncia era già stata fatta dai genitori qualche giorno prima, che però potevo raccontargli gli ultimi giorni trascorsi insieme, - tornerebbe utile per le indagini - .
- Avete provato a cercare la comunità di recupero San Nicola di Senigallia? -
- Sì, ce ne ha parlato il padre... purtroppo ci hanno detto che non hanno mai sentito il suo nome e che non risultano richieste da Bologna - .

Gianluca Ottone

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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