Carcere di Pietracci 2017.
Il carcere di Pietracci è sempre lì, sulla collina fra Agrigento e Favara, con le sue mura imponenti e le mille finestre che scrutano ogni dove. La strada per arrivarci è un groviglio di subdole curve in salita e Lea la percorre ogni giorno da trent'anni. E come ogni giorno ferma l'auto nel parcheggio riservato, attraversa il cancello e si immette nella sezione femminile. A volte ha la sensazione di essere lei stessa una detenuta. Vive tra quelle mura, circondata dalle stesse sbarre e preda della stessa desolante quotidianità. E con lo stesso irrefrenabile desiderio di fuggire. Ma quello è il suo lavoro e lei deve pur vivere, anche se lo stipendio non è mai stato all'altezza dei rischi che corre. Il primo giorno di servizio una delle colleghe più anziane l'aveva messa in guardia. “Non dire mai il tuo nome alle detenute, non dare informazioni personali. Non sai mai chi ti trovi davanti e che uso possono farne” E Lea aveva seguito con diligenza quella regola. “Tanto ti troveranno un soprannome, fanno sempre così” C'erano voluti due giorni e lei era diventata “Extralarge” giusto per sottolineare i suoi fianchi abbondanti che da tutta la vita le danno il tormento. Non le è mai piaciuto quel dannato soprannome ma non poteva farci niente, le cose vanno così al Pietracci e lei ha subìto per trenta lunghi anni. Un ergastolo in pratica. Ma ora è tutto diverso. Il comandante ha reso ufficiale la sua nomina a sovrintendente e tutte devono rivolgersi a lei con quel titolo, anche le sue colleghe. E non importa che per ottenere quella promozione Lea abbia dovuto scomodare i Solimano di Cammarata, non importa che quelli verranno a riscuotere il debito, lei merita quel grado sulla giacca. Prende le scale e arriva alla guardiola dove la collega sta smistando la posta. “Ciao Sara” “Sovrintendente buongiorno” “Che novità?” “La Tedesco è dal medico, solito controllo al cuore. La Versilio esce oggi dall'isolamento e la matricola ha chiamato per una nuova giunta” “Qualcuna che conosciamo?” “No, primo reato” “Ok. Vado io in matricola, tu continua quello che stai facendo” Lea torna giù per le scale senza aspettare risposta, le provoca sempre un sottile piacere accogliere le donne che entrano in carcere per la prima volta. Hanno tutte quello sguardo, fra disperato e sperduto, occhi tremanti e faccia di chi vuole convincere tutti della propria innocenza. Come se gli innocenti finissero in galera, che diavolo. Nessuno è innocente in quel posto. In matricola il collega la aggiorna sulla nuova arrivata. “Eva Rinaldi, 19 anni. Complicità in rapina e lesione colpose” “Diciannove anni, ma dai. Abbiamo una bambina prodigio. Voglio proprio vedere che faccia ha”
***
Anna Tedesco è sul lettino dell'infermeria del carcere, il medico le toglie le ventose dal petto. “Il cuore sta bene, l'ECG non mostra nulla di anomalo per fortuna” “So perfettamente come sta il mio cuore dottore, ora per favore parliamo di cose importanti” Donna Anna ha 47 anni ed è sempre bellissima, il dottor Genuardi lo pensa mentre lei abbassa la maglietta sul seno. Da quanto la conosce? Vent'anni, forse qualcosa meno ma lei non è mai cambiata. I lunghi capelli neri, gli occhi che ti entrano in profondità ogni volta che ti guarda e quella durezza esteriore, una corazza che il medico le ha visto costruire anno dopo anno, evento dopo evento, dolore su dolore. “Vostra figlia ha chiamato stamattina presto. Qualcuno ha rapinato la villa dell'orafo” Gli occhi della donna si fanno piccoli e un sospetto le si stampa in faccia. “Si sa chi è stato?” “Due uomini e una ragazza, si chiama Eva Rinaldi” Il cervello di Anna si aziona come un computer dopo aver premuto lo start, rimane immobile, con gli occhi fissi sulle sbarre della finestra come in attesa. Poi si alza e si muove verso la porta. “Devo dire qualcosa a vostra figlia?” “No dottore grazie. Ora ci penso io”
Anna Tedesco – 1996
Dicembre, le strade sono piene di luminarie, le commesse fanno a gara per allestire le vetrine, all'angolo due zampognari intonano novene e la gente sorride. Ma l'atmosfera natalizia ad Anna non è mai piaciuta. Ha ventisette anni, è bella, non le manca nulla, ma lei non sente il Natale come gli altri, quella festa le mette addosso un malessere pesante. Forse perché il Natale porta la speranza d'un domani migliore e lei a quella speranza non crede più. Forse perché l'ultimo vero Natale della sua vita ha il segno indelebile di una perdita importante. O magari perché il Natale rappresenta la gioia. E chi la conosce la gioia? Ci pensa mentre raggiunge il reparto maglieria di un negozio in centro. La sua amica Sonia ha visto un cardigan e se ne è innamorata, Sonia è di nuovo incinta, meglio scegliere una taglia più larga. I colori dominanti sono oro e rosso, la gente sorride, sceglie i regali. Gli occhi di Anna si muovono ovunque, sugli scaffali, su un bambino che corre intorno a un trenino, sulle commesse indaffarate. Poi di colpo tornano indietro, fino al reparto uomo. Un ragazzo sta provando una giacca e Anna incrocia i suoi occhi azzurri nel riflesso dello specchio. Lui si blocca, come la scena di un film messa in pausa. “Anna?” Il suo sorriso spegne ogni dubbio. È identico a quello del ragazzino che Anna ha conosciuto al primo anno di superiori e ha la stessa dolcezza di allora. “Ciao Simone” Lui si volta, l'imbarazzo è un muro trasparente che impedisce a entrambi di fare un passo avanti ma in quegli sguardi c'è tutto di loro. La prima fuga da scuola, il primo bacio, il primo amore. “Mio Dio, sei bellissima. Ma quanti anni sono passati?” A lei non serve fare calcoli. Simone e la sua famiglia hanno lasciato Favara tredici anni fa e da quel momento Anna non lo ha più visto. Simone l'abbraccia, Anna per un momento crede alla magia del Natale. Due ore dopo sono seduti al tavolo di un bar. Simone si è appena laureato e ha deciso di tornare in paese. Gli è mancata la Sicilia e gli è mancata lei, Anna. “Ma dai, ora raccontami qualcosa di te” “Sono sposata” Non sa perché ha dato quella come prima informazione ma ormai è fatta, così continua. Gli parla dei suoi figli, una femmina e due maschi, ma non specifica l'età e non gli dà altre informazioni sul matrimonio. L'hanno costretta a sposarsi e questo non vuole proprio dirlo a Simone. Le ore passano, Anna deve tornare a casa ma lui insiste, vuole rivederla. Si danno appuntamento per il giorno dopo e lui la porta a vedere la casa che divide con un amico. Niente di speciale, il tipico appartamento universitario, scrivania piena di libri, qualche poster satirico alle pareti e tanto disordine. Simone la bacia, Anna ha desiderato quel bacio dal momento in cui i loro occhi si sono incrociati nello specchio. Fanno l'amore nel letto di lui. Tredici anni sono tanti ma quel sentimento è ancora vivo, come se tutto si fosse fermato o come se gli orologi del mondo avessero preso a girare all'indietro solo per loro. Si rivedono. Ogni giorno per quasi un mese e tutto ha un sapore nuovo. È il dodici gennaio. Gli addobbi sono stati tolti, la città torna alla sua routine e i figli di Anna a scuola. Sono cambiate molte cose in quegli anni e lei racconta tutto a Simone. O quasi. “Sei bellissima” Lui non fa che ripeterlo, Anna risponde sempre con un sorriso. Sa di esserlo, lo ha sempre saputo ma non le è mai importato prima. “Non andare” Quella di lui è una supplica dolce. Anna se ne riempie il cuore. “Scappa con me. Andiamo in un posto dove non ci conosce nessuno e ricominciamo da capo” Anna vorrebbe cedere a quella proposta con ogni muscolo del corpo, lo seguirebbe senza voltarsi mai, ma sono accadute troppe cose in quegli anni. Lei è sposata, anche se il marito è in galera e Anna non lo ha mai amato. Il campanello suona. “Aspetti qualcuno?” “Sarà il mio coinquilino, dimentica sempre le chiavi quell'idiota” Simone si alza, indossa i jeans, esce dalla stanza scalzo e a petto nudo. Anna lo guarda, lui è bello e lei lo ama, darebbe qualsiasi cosa per rimanere in quel letto. Sospira e inizia a rivestirsi. Indossa gli slip, la camicia, esce dal letto. Raccoglie i jeans dal pavimento, fa per metterli ma la porta sbatte contro la parete. Anna ha un fremito, le sue vene si ghiacciano, smette di respirare. Sulla soglia ci sono due uomini, tengono Simone con forza per le spalle e lui perde sangue dal labbro. Anna conosce quegli uomini e sa anche chi c'è dietro di loro. “Papà” Don Nicola Tedesco è alto, imponente, elegante. I suoi occhi penetrano quelli della figlia con rabbia devastante. Anche Simone conosce il padre di Anna. E chi non lo conosce? Don Nicola è il capo indiscusso della più potente famiglia della malavita del posto e il suo senso dell'onore è pari alla sua mole. Imponente, incontrastabile, infallibile. Regge da solo l'intero mandamento di Favara, non lo divide con nessun'altra famiglia e non consente margini di errore. Nemmeno se si tratta della sua unica figlia. Anna è immobile, tremante, con i jeans stretti al petto. Don Nicola sta fissando le sue gambe nude. Le labbra carnose dell'uomo si stringono in una smorfia di disprezzo. Anna fa un passo indietro, un potente manrovescio si abbatte sulla sua faccia. Perde l'equilibrio e anche i jeans. Cade in ginocchio, si tiene la guancia. Il padre la guarda schifato. “La figlia di don Nicola è una buttana. E io che non ci volevo credere” La voce è un sussurro di rabbia e disgusto. Gli occhi di Anna sono lucidi, scuote la testa in una supplica silenziosa e le lacrime scorrono sulle sue guance. Con un cenno della testa don Nicola dà l'ordine, i due uomini iniziano a colpire Simone. Lo prendono a pugni e calci senza mai fermarsi neanche quando lui finisce a terra inerme, continuano a fargli quanto più male possibile. Anna crolla. Si butta ai piedi del padre, lo implora, piange, supplica, lo tiene stretto per le gambe. Chiunque avrebbe ceduto di fronte a tanta disperazione, ma don Nicola è un uomo tutto d'un pezzo e ci mette un po' prima di fare un secondo cenno agli uomini. Quelli smettono di pestare Simone, lo sollevano e lo portano al suo cospetto. Simone è in ginocchio davanti ad Anna, la sua faccia è una maschera di sangue, respira a fatica e la guarda da un occhio semichiuso. Anna piange, non si accorge della mano del padre che si sposta sulla cinta dei pantaloni. Lo sparo è assordante, il suono esplode nell'orecchio di Anna e il corpo di Simone crolla sul pavimento con un buco in testa.
Tonia
Il convento delle suore orsoline si trova nell'entroterra siciliano, a Sambuca di Sicilia. Suor Donata è la madre superiora ed è lei che va ad accogliere le due donne un pomeriggio di aprile. Sa chi è Anna Tedesco, sa di chi è figlia. Sa da dove arriva e da cosa fugge. E quella donna ha fatto cospicue donazioni al convento nel corso degli anni. Con Anna c'è Tonia, la figlia maggiore, unica femmina. Tonia ha tredici anni, stessi colori della madre, capelli lunghi e lineamenti fini. È già alta quanto Anna ed è bella quasi quanto lei. Si trascina dietro un grande trolley e si guarda intorno con aria infelice. Suor Donata mostra la camera. “Mi spiace non potervi offrire di più, ma la nostra vita si svolge in povertà” “Andrà benissimo madre, vi ringrazio tanto” “Ringrazia il buon Dio figliola, è lui che ti ha portata da noi” Suor Donata se ne va, Tonia può dire quello che pensa con l'espressione più triste che conosce. “Dobbiamo stare in questo posto mamma? Fa schifo” “Sarà per poco tempo tesoro” Anna siede sul letto e invita la figlia a raggiungerla. “Devi fare questo sacrificio per me Tonia. Lo so che non è facile e che ti mancheranno tutte le cose a cui sei abituata, ma ti prometto che per il compleanno avrai il tuo motorino” Sa quanto la figlia desideri quel regalo. “Ma perché dobbiamo stare qui?” “Perché io ne ho bisogno” Anna sa che quelle parole non possono bastare, non a Tonia ma lei capirà molto presto. “Nessuno deve saperne niente Tonia. Mai. Hai capito?” Sì, Tonia questo lo ha già capito. Al loro arrivo, quando Pietro ha preso il trolley dal portabagagli, ha sentito la madre fare a lui la stessa raccomandazione. Pietro Costanza è il consigliere di suo nonno, le ha accompagnate lui in quel viaggio. Nessuno deve sapere niente. Anna sta chiedendo a Tonia di mantenere un segreto, per la prima volta la tratta da adulta e lei se ne compiace. Ha sempre desiderato essere come sua madre. Tonia ha due certezze a quel punto. La prima è che mancano ancora tre mesi al suo compleanno, quindi quella vacanza non sarà breve. La seconda certezza le si imprime nella testa quando vede Anna accarezzarsi la pancia.
Rita
I mesi al convento passano lenti ma Tonia non si lamenta, è curiosa, le piace scoprire cose nuove e ha anche trovato un'amica, Rita Versilio. Una ragazzina di dodici anni, lunghi capelli rossi e tante lentiggini. Rita ha perso i genitori all'età di cinque anni e non ha altri parenti, per questo è stata affidata all'orfanotrofio del convento. Non è stato facile per lei ambientarsi, sa chi erano sua mamma e suo papà, era in macchina con loro il giorno dell'incidente e in ricordo di quella tragedia le è rimasta una brutta cicatrice sulla fronte. Rita rifiuta ogni coppia di possibili genitori adottivi, i suoi capricci sono estenuanti, ingestibili e le persone alla fine scelgono sempre un altro bambino. “Tanto appena cresco me ne vado da questo posto di merda” Rita è tranquilla solo quando sta con Tonia. È la sua amica del cuore, ha capito che è sincera e le ha raccontato tutto della sua vita. Ma anche Tonia ha imparato a conoscere Rita e persino lei ha capito che a soli dodici anni quella ragazzina è delusa, amareggiata e incazzata col mondo. Rita sa fare delle smorfie da cartone animato incredibili però e fa ridere Tonia fino a tenersi la pancia. I mesi passano e Tonia pensa spesso alle parole di Rita. “I grandi come noi non li vuole nessuno”. A chi si riferisce quel noi? Anna esce dal bagno, la pancia è evidente, non torna a casa da cinque mesi e le mancano i figli più piccoli. Tonia sfoglia la bibbia e si ferma sulla parabola del figliol prodigo. Non aveva mai aperto una bibbia prima del convento, poi se l'è ritrovata davanti ogni giorno e ne sente parlare ogni giorno. Tanto vale conoscerla. Anna le dice qualcosa ma Tonia non risponde, ha l'aria preoccupata. “Che succede tesoro?” “Mamma, hai intenzione di lasciarmi qui?” “Ma come ti viene in mente? Tonia non dice altro, solo una smorfia delusa, Anna capisce che è tempo di parlare. “Tonia c'è una cosa che devo dirti. Sono incinta e questo ormai lo sai” “Speriamo che sia femmina stavolta” La sua speranza è dolce ma rende le cose ancora più difficili. Anna non può girarci attorno. “Tonia, questo bambino non tornerà a casa con noi” “Cosa?” Lo sguardo di Tonia è una coltellata. “Lo vuoi lasciare qui? Vuoi abbandonare questo bambino? Perché mamma, perché?” Tonia schizza dal letto, è agitata, incredula, la bibbia cade sul pavimento e lei inizia a girare per la stanza come una trottola impazzita. “Tonia, Tonia ascoltami per favore” Tonia non ascolta, non sente, continua a muoversi, a tremare, Anna alza la voce. “La sua vita sarebbe in pericolo” Vede la figlia bloccarsi, come un giocattolo spento. Gli occhi di Tonia entrano in quelli della madre, trattiene il respiro. Sta riflettendo. Tonia sta pensando e Anna vuole che lo faccia. “Qui troveranno una famiglia per bene, avrà una mamma e un papà. Sarà felice” Il tono di Anna è speranzoso, lo deve a sua figlia. Anche se vorrebbe urlare, piangere, uccidere e non abbandonare il suo bambino. Tonia comprende tante cose, forse troppe. Suo padre è in galera da sette anni e suo fratello più piccolo ne ha nove. Certo, quella situazione non è normale e non serve altro per capire di quale pericolo sua madre sta parlando. Tonia sa chi è suo nonno, le basta fare due più due, un'operazione semplice. Guarda la madre, i suoi occhi tremano e lei non l'ha mai vista piangere. Anna non si lamenta mai, non le fa male niente e non prende medicine. Tonia non ricorda di averla mai vista stanca ma in quel momento le appare affaticata, dolorante, triste. Troppo triste. Torna sul letto, riprende la bibbia e inizia a leggere ad alta voce. Anna partorisce il cinque ottobre, durante una pioggia incessante. Tonia è lì, accanto a lei. “È una femmina” I suoi occhi diventano grandi, luminosi, è così tenera che ad Anna si stringe il cuore. “Vuoi vederla?” Suor Donata tiene in braccio la neonata, aspetta una risposta ma Anna non riesce a dire niente, sente un dolore acuto che le ovatta i suoni. E poi la voce di Tonia. “Certo che vuole vederla. Mamma ti prego, io voglio vederla. Ti prego, ti prego” Anna si ritrova la bambina fra le braccia. “È bellissima mamma” È davvero bella, pesa più di tre chili e ha colori chiari, gli stessi di Simone. C'è tutto di lui in quella bambina ed è come se una lama entrasse nel cuore di Anna, non può reggerlo oltre. “Per favore portatela via” “Vuole darle almeno il nome?” No, Anna non vuole dare un nome a quella bambina, non vuole nemmeno sapere che ne abbia uno, se lo facesse non sarebbe più in grado di dimenticarlo. “È figlia del peccato” Non sa perché dice quella frase. Forse per sottolinearlo a sé stessa, forse per non dimenticare cosa accadrebbe se don Nicola sapesse di quella nascita. Si sente in colpa, per la bambina, per Tonia, per Simone. Suor Donata non insiste, esce dalla stanza con la neonata in braccio, percorre il corridoio, le fa una carezza sulla guancia rosa. “Va bene, allora sarai Eva”
Pietracci 2017
Ed eccomi qui, io sono Eva, quasi vent'anni dopo e del tutto ignara di qualsiasi cosa riguardi la mia famiglia d'origine. Ho sempre saputo di essere stata adottata, i miei genitori non ne hanno fatto mistero, ma non avevano notizie sulla mia madre biologica. Suor Donata aveva una promessa da mantenere e non disse mai chi fosse. Per quanto mi riguarda, lei non ha voluto sapere di me e io non voglio sapere di lei. E non ho mai voluto un'altra famiglia. Adoravo i miei genitori. Mio padre era un impiegato di banca, una persona per bene. Uno di quelli che se gli chiedi un'indicazione stradale, ti fa salire in macchina e ti accompagna. Mia madre era un'artista, dipingeva e mi ha insegnato due cose fondamentali: a non fidarmi delle apparenze e a non dubitare mai del mio istinto. Sono morti. Tre settimane fa in un incidente stradale e da quel giorno la mia vita è un enorme baratro senza fine. Un baratro che oggi mi porta in carcere con un'accusa di rapina. Ho fatto mille volte la strada che passa davanti al Pietracci e ho sempre guardato distratta quei cancelli, non ho mai pensato che un giorno li avrei varcati. E non immaginavo che il carcere avesse tetti così alti e mura tanto bianche da infastidire gli occhi. Sembra di essere in ospedale, se non fosse per le porte di ferro. Il silenzio è spettrale. Gli unici rumori sono il tintinnare delle chiavi dell'agente che ho davanti e i miei tacchi. Mi hanno dato delle orribili scarpe marroni di cuoio, a quanto pare le converse rientrano tra gli stivali e quelli non sono ammessi dal regolamento. Guardo la schiena della donna, la sua camicia è bagnata di sudore. Ho sentito che la chiamano sovrintendente, immagino sia un grado più alto degli altri. In ogni caso non mi piace. “Si accomodi madame, l'accompagno nella suite” Io non sono contraria al sarcasmo ma lo ritengo fuori luogo quando c'è gente che soffre. E io qui non mi sto divertendo cazzo. Ho avuto l'impressione che quella donna ci provi gusto a mortificarmi. Credo di dover allertare i miei sensi e ricordare che sono in un fottuto carcere. Maledetto Andrea. Vivo con lui, cioè lui vive a casa mia da quando sono morti i miei genitori. A pensarci bene me lo sono ritrovato addosso senza averlo deciso. Stiamo insieme da un anno. Una coppia normale, con qualche piccolo problema finanziario come tutti e qualche grande problema di incomprensione reciproca, come tutti. Ma mai avrei pensato che lui fosse capace di fare una rapina. E proprio nella villa dell'orafo che io dovevo sorvegliare. Lavoro per quella ditta da quando ho preso il diploma. Lavoravo, dal momento che mi hanno licenziata. Vigilanza privata. Un lavoro tranquillo, mai un intoppo, mai un incidente. Semplice vigilanza. Poi c'è stata la morte dei miei, il funerale, il lutto. Tre settimane dopo la polizia bussa alla mia porta, la villa è stata rapinata e il mio collega è in ospedale. Hanno usato il mio codice di accesso e nelle riprese delle telecamere c'è quell'idiota del mio fidanzato che fugge con un altro uomo. Perché non l'ho lasciato prima? Abbiamo litigato anche la sera del funerale. Avrei dovuto lasciarlo quella sera o qualsiasi altra. Adesso non sarei qui a fissare la macchia di sudore sulla schiena della sovrintendente mentre i miei piedi soffrono in un paio di scarpe scomode. “Questa è la sezione” Eccola la mia nuova casa, un corridoio più largo degli altri con tante celle alle pareti. “Spero non sia qui per darci problemi Rinaldi” Non so se è un consiglio o una minaccia, la linea è sottile e la sovrintendente ha l'espressione di una maestrina che illustra una lezione di vita. Arriviamo alla guardiola, è circondata da vetrate, dentro c'è un'altra agente. È giovane, carina, ha un caschetto nero con la frangetta sugli occhi. Somiglia a una bambola, per questo “bambolina” è il soprannome che le hanno dato in sezione. Mi squadra dalla testa a quelle patetiche scarpe e torna alla collega. Mentre parlano noto un'altra presenza. Rita Versilio. 32 anni, capelli rossi, corti e grandi occhi scuri che mi fissano con una strana smorfia. Tiene la testa piegata da un lato e mi mostra un sorriso da Joker. Ha una vecchia cicatrice sulla fronte e bicipiti squadrati. Mi viene incontro, mani in tasca e atteggiamento sbruffone per niente femminile. “Ti hanno dato le scarpette di Cenerentola?” “Già. E non sono nemmeno della misura giusta” “Oppure tu non sei una principessa” Sussurra la frase avvicinando la faccia e ha qualcosa di provocatorio nello sguardo, poi l'esplosione assurda della sua risata mi destabilizza. È forte, sguaiata, irritante. La sovrintendente ci ordina di seguirla. Rita e io le siamo dietro, ma lei allunga il passo e raggiunge l'agente, la sento bisbigliare. “Mettila nella mia cella” “Versilio, due passi dietro di me o la riporto in isolamento senza passare dal via” La rossa non è felice della risposta ma torna al mio fianco. I suoi occhi sono quelli di un bullo che fissa qualcuno che l'ha appena offeso.
Cristina Granchelli
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