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Autore: Sergio Bertoni
L'anatema di Tihuta
Triller Gotico
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L'anatema di Tihuta
Un serial killer in Transilvania.

I giorni passavano lenti e monotoni, la neve era caduta in abbondanza durante la notte, ma quella mattina un timido sole attraversava con spade di luce la ragnatela delle nubi. Come amava talvolta fare, Therésia aveva sellato la sua cavallina preferita e si era avviata lungo il sentiero che costeggiava la Pădurejele. La foresta era silenziosa in modo inquietante: non un canto di uccelli, non un fruscio di animali nel sottobosco.
Incuriosita da quell'innaturale silenzio, Therésia scese da cavallo e si addentrò con cautela tra gli alberi. Con sorpresa si avvide che profonde impronte segnavano la neve fresca, poi ebbe la sensazione di una presenza alle sue spalle, ma mentre accennava a girarsi, un violento colpo alla nuca le provocò un lampo accecante di luce e la fece cadere bocconi nella neve mentre le tenebre calavano fosche su di lei. L'aggressore sollevò facilmente il corpo esanime della ragazza e scomparve di corsa tra gli alberi.
Riprendere coscienza fu lento e angosciante. Therésia non riusciva a rendersi conto di dove si trovasse e che cosa fosse successo. Cercò di portarsi le mani alla nuca ove avvertiva un forte dolore; stupita, si accorse di non poterlo fare e di avere le caviglie e i polsi strettamente legati. Con gradualità i suoi occhi si adattarono all'oscurità, rotta soltanto da un lieve chiarore che proveniva da un foro, molto in alto nella volta.
Si rese conto di trovarsi distesa, circondata da sterpi e cumuli di detriti, sul suolo di una caverna della quale non riusciva a vedere le pareti. Affannosamente, strisciando e rotolando, cercò di avvicinarsi là ove quel sottile fascio di luce illuminava una strana massa informe.
Agghiacciata dal terrore, comprese che quel cumulo disseccato era un antico ammasso ammuffito di corpi scheletriti, ancora avvolti nei brandelli marci di antiquate vesti e in parte ricoperti dalla vegetazione. Piangendo si raggomitolò su se stessa, e tutto sembrò roteare intorno a lei. Ancora una volta la sua mente fu sopraffatta dall'oscurità e svenne.
La cavallina aveva atteso a lungo dopo la scomparsa di Therésia, poi trotterellando aveva ripreso la strada di casa ed era rientrata nella propria stalla. Nessuno si era accorto che la ragazza era uscita all'alba e per molte ore nessuno l'aveva cercata. La sua insolita assenza destò verso mezzogiorno qualche inquietudine, ma solo verso sera l'inquietudine si trasformò in angoscia. Tutti i familiari, i lavoranti e i vicini furono impegnati in affannose ricerche. Uomini a cavallo setacciarono senza esito la zona, ostacolati anche dal freddo intenso e dalla neve che aveva ripreso a cadere copiosa e che aveva cancellato ogni possibile traccia.
Quando Therèsia riprese nuovamente i sensi, il sole era ormai alto nel cielo e la luce che filtrava dalla stretta apertura nella volta era più intensa. Una lama rugginosa, forse i resti di un'antica scimitarra, sporgeva, incastrata fra due sassi sopra il cumulo di corpi scheletriti.
Affannosamente la ragazza vi appoggiò le corde che le legavano i polsi e cercò di tagliarle. Piano piano le corde si sfilacciarono mentre grosse scaglie di ruggine si staccavano dalla lama corrosa. Liberate le mani, e con le dita intorpidite dal freddo, Therésia faticò a lungo per sciogliere i legami delle caviglie; si sforzò infine di estrarre la scimitarra dai sassi per procurarsi una difesa, ma l'antica arma le si sbriciolò tra le mani provocando una piccola frana che fece cadere di lato i resti mummificati e disseccati di quegli antichi guerrieri.
Stranamente intatto, per qualche misteriosa alchimia della natura, apparve dal mucchio il corpo di un vecchio, ricoperto dai brandelli di ricche vesti, consunte e scolorite, e con il capo ancora rivestito da un maestoso turbante dal quale spuntava la testa arrugginita di un grosso chiodo. Il suo volto, annerito e come pietrificato dal tempo, era rimasto quasi intatto, incorniciato da una folta barba grigia e malgrado la lugubre circostanza, sembrava avere un aspetto quasi sereno e rassicurante. Therésia lo fissò a lungo, stordita. Poi, come pervasa da un'inspiegabile calma, si allontanò, dolorante e barcollando, per esplorare la sua prigione e cercare una via di fuga.
L'ombra si faceva sempre più fitta e la ragazza individuò a stento una scalinata di pietra che si perdeva verso l'alto. La percorse con cautela e a tastoni scoprì una robusta botola sopra di sé. La spinse più e più volte con tutte le sue forze senza alcun risultato. Era sbarrata dall'esterno. Gridò disperata cercando aiuto, ma le rispose solo l'eco della sua voce. Nascose il viso tra le mani piangendo, poi scorse uno strano ramo che sembrava infisso nella parete. Lo afferrò e lo staccò con facilità dal muro; era un'antica torcia con la testa ancora intrisa di nero catrame.
Come tutte le brave massaie di Tihuta, Therésia serbava in una tasca una scatola di fiammiferi da cucina della quale si era del tutto dimenticata. Freneticamente ne accese uno e lo accostò alla torcia che, dopo qualche sfrigolio, prese fuoco spandendo intorno una calda luce dorata.
In parte rassicurata, la ragazza cercò di esplorare la sua prigione. La sua fiaccola illuminava appena il cammino, ma si rese subito conto di trovarsi in una caverna naturale che era stata, in tempi antichi, modificata dall'uomo. Sotto il muschio e i detriti era ancora visibile a tratti una rozza pavimentazione. L'asperità di una parete era stata spianata, e incastonato nel muro si vedeva ancora uno scudo di pietra recante in rilievo lo stemma di un drago. La grotta si estendeva in profondità, ma la giovane non poteva fare a meno di notare la sensazione di umidità che la circondava e il lieve suono delle gocce d'acqua che cadevano dalle stalattiti, formando brevi chiazze fangose sul muschio e sul terreno.
In un angolo si apriva una buia apertura che dava accesso a una stretta galleria. Avvicinandosi, Therésia percepì un tremendo fetore di morte. Coprendosi il naso e la bocca con un lembo della veste si addentrò in quel passaggio che scendeva verso il basso e che, dopo diversi metri, sfociava in una grotta più piccola. La torcia tremolava nella sua mano e anche se un senso di oppressione la invadeva sempre più, non poteva fare a meno di continuare ad avanzare.
Alla luce tremolante della fiaccola uno spettacolo orrendo e macabro la fece agghiacciare e lanciare, disperata, un urlo di terrore: il cadavere mutilato e in decomposizione di una giovane donna giaceva, scomposto e quasi nudo, sul suolo.
Con ribrezzo vide che il corpo della donna era infestato da larve biancastre e il suo volto, disfatto e scheletrito, era ormai irriconoscibile. Un particolare tuttavia, catturò subito la sua attenzione: un'appariscente collana d'ambra dai riflessi dorati circondava il collo della morta. La riconobbe; l'aveva donata lei stessa l'anno precedente a una ragazza che aveva lavorato per qualche tempo nella fattoria di suo padre. Il cadavere era senza dubbio quello della scomparsa Costelia Popescu, la nipote del vecchio tagliaboschi. L'aria era sempre più densa e fetida e Theresia sentiva il suo stomaco ribellarsi, ma non voleva abbandonare quel corpo. Con un singhiozzo si avvicinò e lo esaminò con attenzione notando i feroci segni della violenza che l'avevano uccisa e mutilata.
Disperata, Therésia comprese di essere caduta tra le mani di uno sconosciuto feroce assassino e rifece, piangendo e correndo, il percorso che la portava nella caverna principale esplorandone ogni anfratto. Nulla. Quella tetra prigione non sembrava avere alcuna praticabile via di fuga, e la massiccia botola che ne chiudeva l'ingresso sembrava inamovibile.
La spinse ancora tuttavia, e la percosse a lungo fin quando le mani non le sanguinarono. Gridò chiedendo aiuto fino a perdere la voce, esausta, ritornò infine vicino all'antico guerriero barbuto, mentre la luce che scendeva dal foro nella volta, molti metri sopra di lei si faceva sempre più fioca col calare della sera.
Si prese il volto tra le mani e riprese a piangere a lungo, scossa da silenziosi singhiozzi. La torcia le era caduta di mano e si era spenta. La notte scese veloce, ingigantendo il silenzio che la circondava, rotto, soltanto a tratti, dal vento che soffiava in alto nella foresta generando un sibilo lamentoso simile al gemito di un moribondo. Infine la stanchezza prevalse e Therésia si addormentò.
Era la seconda volta che di una persona non si trovava più alcuna traccia. Il paese era in allarme e sconvolto, la famiglia Szabó non era ovviamente disponibile ad accettare la sparizione della ragazza con la stessa impotente rassegnazione del vecchio Popescu. Nelle ricerche, che si erano protratte anche durante la notte, erano state impiegate decine di persone che avevano scandagliato casolari, pozzi e anfratti e che avevano, senza alcun esito, interrogato anche gli abitanti delle più lontane e isolate fattorie nel raggio di una decina di chilometri.
Alla famiglia di Therésia, Sebastian Rebreanu, più volte sollecitato, aveva assicurato che la polizia di Bistrita era stata subito allertata con una ansiosa telefonata, ma padron Szabó, dopo aver atteso alcuni giorni senza vedere alcun poliziotto, si era spazientito. Oltre ad avere molti dubbi e una scarsa fiducia sulla reale effettuazione di quella telefonata, temeva che anche la pubblica sicurezza potesse dimostrare uno scarso interesse nella ricerca di una sconosciuta contadinella. Furibondo e sempre più determinato si recò all'alba a casa del borgomastro, fermamente deciso a parlare col tenente Vieru e ad allertare anche la Securitate.
Rebreanu fu irremovibile:
- Padron Szabó, l'ufficiale sta riposando e non può essere disturbato. Provvederò io stesso a informarlo non appena possibile, ma devo avvertirti di averlo già fatto quando non si ebbero più notizie di Costelia Popescu. In quell'occasione la reazione del tenente Vieru fu negativa e furente. Affermò che aveva ben altre e più importanti cose da fare e che la sorte di quella ragazza non lo riguardava minimamente. -
Claudiu Szabó bestemmiò, sferrando un gran pugno sul tavolo.
- Ma allora chi comanda, chi ci protegge in questo dannato paese, a chi dobbiamo rivolgerci? -
- Te l'ho già detto, hai la mia massima disponibilità e affronterò nuovamente il problema con il tenente, anche se sono sicuro che mi manderà al diavolo, ma nel frattempo non ci resta che continuare a cercare tua figlia e attendere l'arrivo della polizia. -

Al sorgere del giorno Therésia si risvegliò da un sonno agitato e popolato d'incubi. Fiammate di dolore le attraversavano ancora il cranio, originate dal colpo che aveva ricevuto alla nuca. Trascorse l'intera giornata quasi inebetita, stremata dalla fame e dalla sete. Solo qualche fiocco di neve che riusciva a filtrare dall'apertura nella volta, arrivò ad alleviare la sua arsura. Il tempo passava, inesorabile e lento, e la ragazza alternava momenti di lucidità a periodi di profondo torpore.
Mentre uno stato febbrile iniziava a indebolire il suo fisico duramente provato, ebbe una singolare allucinazione: le sembrò che l'antico anziano guerriero si fosse chinato su di lei e che, mentre con la mano sinistra le sfiorava il volto con una lieve carezza simile a un alito di vento, con la destra le indicava la parete sulla quale si trovava lo scudo di pietra con il bassorilievo del drago.
Proveniente da un mondo e da un tempo lontano una parola sembrò infiltrarsi con dolcezza nella sua mente dandole un senso di pace: “Coraggio”. Ancora una volta la fanciulla chiuse gli occhi ricadendo in uno stato di dormiveglia.
Non era ancora spuntata l'alba di un altro giorno di prigionia quando Therésia fu all'improvviso risvegliata da uno scricchiolio e un tonfo sordo. La botola che dava accesso alla caverna era stata sollevata di colpo. Tenuamente illuminata dal chiarore di una splendida luna piena, una figura enorme e informe stava scendendo la scala ansimando e con passo pesante. Sembrava un immenso mostro con la gobba o forse qualcuno con un gran sacco sulle spalle.
Un attimo dopo la botola si richiuse, e quella orrenda apparizione scomparve nel passaggio che conduceva alla zona ove giaceva il cadavere della sventurata Costelia. Al respiro affannoso e sibilante di quell'essere si aggiunsero altri suoni: dei gemiti sommessi, quasi rantoli soffocati.
Toltasi le scarpe per non fare alcun rumore, Therésia si precipitò ove sapeva essere la scalinata e cercò di sollevare la botola. I suoi sforzi furono ancora una volta vani: qualche sconosciuto meccanismo l'aveva di nuovo sigillata.
Dal profondo dell'oscuro passaggio, che aveva percorso il giorno precedente, sorse un lieve chiarore. Qualcosa o qualcuno aveva acceso una lanterna all'interno della piccola grotta dell'orrore.
Di colpo un disperato straziante lamento di dolore e di agonia rimbalzò tra le pareti della caverna e la ragazza, terrorizzata, si portò le mani alle orecchie per non ascoltare, trattenendo il respiro. Aveva compreso che quell'essere diabolico aveva trasportato con sé una nuova vittima che ora stava torturando a morte.
Ansimando e sentendo che le gambe non la reggevano più, ritornò verso quel cumulo di resti umani che era stata la tomba dell'antico guerriero e superando l'orrore e il disgusto, cercò di scavare con le mani, sperando di poter trovare qualcosa che le servisse come arma di difesa. Inutile tentativo: solo fragili ossa e stracci polverosi che si sbriciolarono tra le sue dita.
Ancora una volta, vivida come se fosse tuttora presente, le tornò in mente l'immagine del sogno, e l'imperiosa indicazione del vecchio guerriero. Irrazionalmente, sapendo di non avere scampo, ne eseguì il comando, si accostò alla parete rocciosa e si appoggiò allo scudo di pietra. Le mani, come sospinte da un impulso sovrannaturale, si aggrapparono alla testa marmorea del drago che sembrò muoversi come se stesse per cedere.
Stupita, Therésia la girò con maggiore forza. Uno scatto e un tratto della parete ruotò scoprendo una buia apertura che indusse la ragazza a entrare all'interno. Un altro scatto e la parete riprese silenziosamente la sua posizione. Attutiti dallo spessore del muro, continuavano a giungere a tratti gli agghiaccianti lamenti di una persona torturata a morte.
Con mani tremanti la giovane trasse dalla tasca la scatola di fiammiferi. Ne erano rimasti pochissimi e il primo che cercò di accendere si era inumidito e si sbriciolò. Il secondo per fortuna prese fuoco, illuminando con la sua fragile fiammella il cunicolo nel quale si trovava.
Infissa nella parete vide con gioia un'altra torcia che prese subito fuoco scoppiettando, rivelandole di trovarsi in una stretta e tortuosa galleria, dalle pareti umide e muschiose, della quale non si scorgeva la fine.
Ancora incredula di essere riuscita a sfuggire alla sua lugubre prigione, la ragazza accelerò il passo, incurante delle ferite che le pietre aguzze procuravano ai suoi piedi nudi. Con sollievo scoprì che durante il percorso altre torce sporgevano dalle pareti e ne raccolse qualcuna.
Il terreno era in lieve pendio e il suolo roccioso era frequentato da strani insetti biancastri che mai avevano visto la luce del sole. Therésia, corse, e corse per un tempo che le sembrò infinito, l'aria era umida, tiepida e dall'odore stantio di muschio marcito. La stanchezza prese il sopravvento sull'eccitazione, il passo si fece sempre più lento e pesante fin quando la ragazza cadde a terra sfinita e perse nuovamente i sensi.

Sergio Bertoni

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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