La vita è per il dieci per cento cosa ti accade e per il novanta per cento come reagisci. Charles R. Swindoll Catherine ripiegò il biglietto, ormai sgualcito per le innumerevoli volte che lo aveva aperto e letto, e lo ripose con cura nel portagioie in cui conservava i ricordi più cari di sua nonna: la sua fede nuziale, i suoi orecchini di madreperla e numerose fotografie che la ritraevano prima ragazza, poi donna, moglie, madre e infine nonna. Quelle poche parole scritte con una calligrafia minuta ed elegante, com'era stata lei, rappresentavano per Catherine più di un regalo: erano una regola di vita! Con un sospiro chiuse il portagioie e lo ripose nell'ultimo scatolone. Poi, in punta di piedi si diresse verso la camera dove dormiva il “dieci per cento” della sua vita: sua figlia Elisa. *** Chiunque abbia avuto un dolore così grande da piangere fino a non avere più lacrime, sa bene che a un certo punto si arriva a una specie di tranquilla malinconia, una sorta di calma, quasi la certezza che non accadrà più nulla. C.S. Lewis Marc si riconosceva in pieno in quella frase. Dopo anni di sofferenza, finalmente aveva raggiunto una sorta di tregua. Non poteva certo dire di essere riuscito a riprendere in mano la propria vita ma, almeno, arrivava a fine giornata senza annegare nell'alcol e, cosa più importante, aveva ripreso a scrivere. Senza indugiare oltre premette il tasto invio e spedì l'e-mail con allegato il file del manoscritto che Robert, il suo agente, aspettava da giorni. Il tempo della consegna ‒ o come diceva Robert utilizzando un termine tecnico che lui detestava, la deadline ‒ era scaduto da un paio di settimane e l'editore, ormai, minacciava di tirarsi indietro e annullare il contratto. Il suono del telefono, che aveva lasciato nell'altra stanza, lo costrinse ad alzarsi per andare a rispondere. Quando lesse il nome sul display, un lieve sorriso gli salì alle labbra. - Prima che tu dia nuovamente in escandescenze, controlla la posta in arrivo. Come promesso ti ho salvato il culo un'altra volta! - - Al momento non mi interessa discutere di chi abbia salvato chi, ma ne riparleremo a tempo debito, stanne certo. Comunque non nego di essere felice che questa tortura sia finita, finalmente! Girerò subito l'e-mail a Bill, che mi stava letteralmente col fiato sul collo. Tu, intanto, preparati a venire qui per discutere i dettagli... - - Non mi interessano i dettagli, di quelli puoi occupartene tranquillamente tu. L'unica cosa che voglio è che l'editing non venga più affidato a Paul: si è dimostrato un incompetente! - - Tranquillo, sembra che Bill abbia ingaggiato qualcuno di fuori... - - Di fuori? - - Sì, esterno alla sua casa editrice. - - Di male in peggio, allora! - - Forse quello che ti ci vuole è proprio una novità, un punto da cui ripartire! Ci hai mai pensato, Marc? - - Hai finito con la predica, Robert? - - Sì, ho finito, ma prometti di pensarci. - Marc sospirò fingendo un'esasperazione che in realtà non provava perché sapeva che il suo agente, nonché caro amico, aveva ragione. - D'accordo, ci penserò. Ora però lasciami andare. Credo che la pazienza di Spike sia giunta al limite, e se non voglio che mi devasti il soggiorno è meglio che lo porti fuori per una passeggiata. - - Vai, vai, farà bene anche a te un po' d'aria fresca e un po' di movimento. Ci risentiamo tra qualche giorno. - Dopo aver terminato la telefonata, Marc si rivolse al cane, uno splendido golden retriever, che sembrava aver seguito l'intera conversazione e che ora lo stava guardando in attesa. - Sì, hai capito bene, vecchio mio. Dammi il tempo di cambiarmi e poi io e te ce ne andiamo a fare una corsetta. - Era la fine di marzo, le giornate cominciavano a intiepidirsi e ad allungarsi, regalando preziose ore di luce che invogliavano a stare all'aperto per godere appieno dell'aria primaverile carica di profumi, promesse e aspettative. Marc, seguito da Spike, imboccò il sentiero che partiva poco distante dal cottage e che rapido scendeva verso la spiaggia. Lì si fermò a contemplare il mare, quell'immensa distesa di acqua che si estendeva a perdita d'occhio fino all'orizzonte dove sembrava fondersi con il cielo. Gli era sempre piaciuta l'acqua in tutte le sue forme, e quel luogo lo aveva catturato sin dal primo istante. L'avevano scoperto lui e Julie durante il viaggio di nozze in Cornovaglia, dieci anni prima, e senza neppure aver avuto bisogno di parlarne avevano deciso di stabilirsi lì e di lasciare Londra, troppo caotica, rumorosa e grigia per due giovani innamorati che non desideravano altro se non isolarsi dal resto del mondo per vivere il loro amore che, ingenuamente, avevano creduto eterno. Con una scrollata di spalle, Marc ricacciò indietro i ricordi e volse la sua attenzione a Spike, che gli abbaiava accanto. - Hai ragione, quello che è stato è stato e non può essere cambiato, per quanto io lo voglia. Forza, fammi strada. - Iniziarono a correre e ben presto raggiunsero la baia di Falmouth che di lì a qualche mese sarebbe stata invasa dai turisti. Ancora una volta il passato si riaffacciò prepotente alla sua mente e le parole di Julie riecheggiarono nelle sue orecchie: - Vorrei fermarmi a vivere qui, assaporare il lento trascorrere del tempo, riappropriarmi di quel legame unico che ci unisce alla natura... - . - E allora facciamolo - , aveva detto lui stringendola tra le braccia. - Non c'è nulla che ci trattenga a Londra. Tu puoi lavorare anche da qui e io... be', io credo che qui troverei facilmente l'ispirazione per scrivere. - E così era stato: avevano venduto il piccolo appartamento di Londra e con il ricavato comprato il cottage. Erano stati anni felici, pieni d'amore, di complicità, di soddisfazioni lavorative: lui aveva pubblicato il suo primo romanzo, ottenendo un ottimo successo di pubblico e di critica; Julie si era fatta un nome come architetto d'interni. Sembrava che nulla potesse andare storto, che niente avrebbe potuto scalfire il loro legame che, giorno dopo giorno, diventava più forte. Mai, come in quel periodo, Marc si era sentito così completo e appagato, e quando lei gli aveva detto di aspettare un figlio aveva avuto la sensazione di toccare il cielo con un dito.
Era appena spuntata l'alba quando Catherine si alzò. In realtà non aveva dormito per niente perché, dopo aver finito di imballare gli ultimi oggetti, aveva passato il resto della notte chiedendosi se stesse facendo la cosa giusta. Andarsene dal piccolo paese dove aveva trascorso gli ultimi quindici anni per trasferirsi in una grande città come Milano, le era sembrata una buona idea, all'inizio, ma ora mille dubbi si affacciavano alla sua mente minando ogni certezza. Ciò che la preoccupava di più era Elisa. La ragazzina si era dimostrata entusiasta alla prospettiva di iniziare una nuova vita, ma questo significava adattarsi a nuovi ritmi, frequentare una nuova scuola, fare nuove amicizie, e Catherine si chiedeva come avrebbe reagito, lei che era così timida e introversa. Forse era stata egoista: aveva pensato più a se stessa che a sua figlia, e questo non era giusto. Ma non era giusto neppure rinunciare ai propri sogni, mettersi sempre “dopo”, quasi fosse una colpa desiderare qualcosa per sé, impegnarsi e lottare per ottenerla. Niente era stato facile per Catherine. Era rimasta incinta a soli diciotto anni, per un “incidente” come dicevano i suoi genitori, ma aveva voluto tenere il bambino rifiutandosi di abortire o di darlo in adozione nonostante tutti le dicessero che sarebbe stata la cosa migliore da fare. Ma lei, quando aveva stretto Elisa tra le braccia, non se l'era proprio sentita di darla via, e questo aveva causato una frattura insanabile con la sua famiglia. Solo la nonna paterna l'aveva sostenuta in questa decisione di cui non si era mai pentita, neppure una volta. Così si era stabilita da lei, in un paesino nella provincia di Como, e con il suo aiuto, anche economico, si era iscritta all'università laureandosi in lingue e letterature straniere. La sua era stata una scelta quasi scontata: la madre, di Birmingham, parlava correttamente l'inglese mentre il padre, un ingegnere civile italiano, aveva viaggiato molto per lavoro, portando con sé la famiglia quando le sue trasferte all'estero duravano mesi. Catherine, perciò, era cresciuta in un ambiente cosmopolita e dinamico che l'aveva educata a essere aperta verso gli altri, curiosa di tutto ciò che era “diverso” e verso il quale si sentiva irrimediabilmente attratta. Avrebbe voluto viaggiare, esplorare, essere una “cittadina del mondo”, ma poi aveva abbandonato il suo sogno per occuparsi di Elisa; crescerla serena era diventata la sua priorità. Dopo essersi laureata aveva insegnato come supplente in diverse scuole finché un'amica di università non le disse che una nuova casa editrice milanese stava cercando un traduttore da inserire nel proprio organico. Senza pensarci troppo, convinta che sarebbe stato un buco nell'acqua, aveva mandato la propria candidatura e dopo nemmeno due settimane era stata contattata per un colloquio. Ancora incredula si era recata a Milano dove aveva incontrato il proprietario della casa editrice e il caporedattore che l'avevano tempestata di domande sulle sue precedenti esperienze lavorative e sulla sua vita privata. Quando aveva detto di non essere sposata ma di avere una figlia di quattordici anni, le avevano rivolto uno sguardo interrogativo che lei, volutamente, aveva ignorato senza dare ulteriori spiegazioni. Questo le aveva fatto credere che non ci sarebbe stato un seguito invece, inaspettatamente, il giorno successivo era stata richiamata perché il posto era suo.
Stefania Morassi
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