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Autore: Elisa Viani
Il viaggio di Anna
Romanzo Psicologico
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Il viaggio di Anna
Anna.

La sveglia del cellulare continuava a suonare a vuoto per ricordarle di prendere le sue pillole. Solo dopo l'ennesimo squillo, Anna si svegliò da quel sonno inaspettato. Un familiare senso di confusione nella testa l'aveva immersa in pensieri lontani, dai contorni sfumati, quando il suono metallico della suoneria la riportò nel presente.
Guardò spaesata l'orologio moderno attaccato alla parete: le lancette puntavano su numeri immaginari che segnavano pressappoco le quindici, orario previsto per la sua dose quotidiana di “pillole scacciapensieri”, come preferiva chiamarle lei.
Oh cavolo, pensò, un'ora che sto imbambolata qui, su questa poltrona!
Sentiva la sua mano informicolita: quella fastidiosa sensazione del suo arto senza vita la costrinse a muoversi dalla posizione innaturale tenuta per troppo tempo. Nella mano stringeva ancora una lettera e non si era minimamente accorta del tempo che era passato silenzioso, mentre i pensieri l'avevano trascinata lontano.

Un'ora prima, rientrando in casa dal lavoro con la sua solita distrazione, aveva calpestato qualcosa.
- E questo che cos'è? - aveva esclamato abbassando istintivamente lo sguardo. Ed eccola lì, sotto i piedi, quella dannata lettera.
Era arrivata proprio nel giorno del suo compleanno.
Bella sorpresa davvero! disse tra sé. Una maledettissima sorpresa che l'aveva scaraventata, senza avvisare, nell'angolo più gelido del suo cervello, in una delle giornate più calde di luglio.
Riconobbe subito la calligrafia inconfondibile, inutilmente arricciolata e grande.
Corrugò la fronte, i suoi occhi si scurirono e si fecero stretti come fessure, nel tentativo di carpire qualcosa di più dai dettagli esterni della busta.
Riconobbe subito la carta da lettere rosa pallido con arabeschi sfumati, risaliva ai tempi delle scuole medie; sua madre l'avrà sicuramente riesumata nella sua vecchia cameretta, in quel cassetto incasinato, pieno di ricordi e frammenti dimenticati del suo lontano passato.
Era un anno che non avevano più rapporti. Tutto di lei e di quella vita precedente sembrava ormai non appartenerle più; si sentiva lontana anni luce da sua madre, dalla sua infanzia, da se stessa.
Senza una ragione apparente, cercò il suo sguardo nello specchio ovale, di fronte all'ingresso. Rimase seduta sulla poltrona, rannicchiata come un cucciolo spaesato in cerca di un appiglio. Voleva essere sicura di ritrovarsi nei propri occhi, di essere ancora lei, una donna fatta ormai.
Seduta sulla sua poltrona preferita, era sprofondata nei cuscini schiacciati e, al contempo, nei suoi pensieri. Si sentiva come quei cuscini: svuotata e soffocata.

Con la mente ritornò per un attimo nella sua vecchia cameretta. Da bambina le sembrava grande, ma crescendo quelle pareti color crema erano diventate sempre più anguste, gli spazi sempre più risicati e l'ordine confuso di tutti i suoi giochi, che da piccola la facevano sentire a suo agio, in adolescenza avevano iniziato a renderla insofferente.
Decise allora di cambiare colore alla stanza, ma non riuscì a imporsi per un giallo ocra, come avrebbe preferito, patteggiando invece per un giallo pallido, che continuò a odiare fino a quando non uscì, molti anni dopo, da quella casa.
Fin da quando ne avesse memoria, Anna si era sempre interrogata sul significato della vita, sul perché fosse venuta al mondo proprio nelle sue forme, con il suo modo di essere; si chiedeva cosa davvero fosse importante per lei, rifletteva sul tempo che passava, sugli altri, vicini o lontani, su come si sentisse sempre un po' diversa dagli altri.
- Cos'è che mi caratterizza, cos'è che mi rende uguale a loro? - si domandava, pensandosi sola di fronte a miliardi di persone, come impigliata in una rete immaginaria in mezzo all'oceano.
- Chi sono io? - continuava a chiedersi.
Domande che le risuonavano in testa e che iniziò presto a mettere per iscritto in un piccolo quaderno a cui confidava i suoi pensieri segreti e che teneva nascosto tra i suoi libri.
Senza la pretesa di avere le risposte a ognuna, affidò le domande alle righe di quel diario, che rimase sempre il suo fidato compagno.
Da piccola era fiduciosa che forse, un giorno, la verità le si sarebbe svelata come un improvviso regalo, un dono dal cielo.
Alla spensieratezza della compagnia di amici e schiamazzi da cortile, Anna aveva sempre preferito giochi solitari, letture di libri che la facessero evadere dalle quattro mura della sua cameretta.
Le piaceva disegnare paesaggi naïf, cercare nei colori e nelle forme morbide dei pennelli un mondo di fantasie nuove e rilassanti.
Trovava conforto tra le coperte di lana a quadri colorati e costruiva tane e sottotetti di lenzuola, a cui solo lei aveva accesso.
Si sentiva figlia non unica in una famiglia in cui inventava fratelli e sorelle, a cui cambiava nome e carattere a seconda delle esigenze del momento.
Da bambina si era sempre sentita fuori posto, come se qualcosa di sé, nella sua famiglia, non potesse amalgamarsi al tutto.
Fin da quando aveva imparato a scrivere le prime paroline, più o meno intorno ai cinque anni, rifletteva su come fosse strano il proprio nome: “Anna”, due sole lettere che combinate insieme potevano formare un nome palindromo, che poteva leggersi sia da de stra verso sinistra, che viceversa. Buffo! pensava.
Quel nome la rappresentava: come lei, era tutto e il contrario di tutto, in un verso o nell'altro, ma sempre lei, sempre Anna. Le piaceva ripeterlo fino a perdersi nel suono di quelle due lettere, un nome semplice ma pieno, corto ma deciso, chiaro ma anche colorato, un nome che profumava di antico ma era fresco di innocenza.
Amava soprattutto sentirlo pronunciare dalle persone a cui era legata. Qualora qualcuno la chiamasse per nome, solo allora percepiva di esistere, di prendere forma e sostanza. E non c'erano diminutivi né vezzeggiativi, come se il superfluo non si addicesse al suo modo di essere. Forse le sarebbe piaciuto se le avessero dato anche un soprannome che la facesse sentire unica, ma no, lei era solo Anna e niente più.
Tante domande si affollavano nella sua testa di bambina come bolle di sapone che gonfiano e si staccano in aria per prendere il volo e poi librarsi alte nel cielo. Alcune continuava a vederle volare sempre più in alto, altre sparivano improvvisamente senza lasciare traccia, ma la domanda che sempre l'accompagnava era quel: Chi sono io? abbinato al suo nome: Chi è Anna? a volte non si condensavano nella stessa frase e sentiva che aveva sempre più bisogno di pronunciare tra sé quel nome, quasi a ricordarsi che esisteva davvero e che non fosse solo una proiezione del suo mondo interno.
Da sempre teneva custodito dentro una sfera ben arginata il malessere che avvertiva dentro e che nemmeno lei conosceva fino in fondo.

Spesso si era sentita davvero sola. Quella casa troppo grande, quella cameretta invece troppo piccola per contenere i suoi pensieri. Tutto di sé, la faceva sembrare a se stessa, diversa dai suoi compagni e dalle sue compagne, che ai suoi occhi erano sempre migliori sotto qualche aspetto.
Era cresciuta così, silenziosa ma educata, una brava bambina di cui nessuno poteva aver niente da ridire, né a casa, né a scuola. Si convinse di andare bene così, anche se nessuno le chiedeva realmente che cosa desiderasse, o come stesse dentro, cosa provasse veramente. Questo bastava a non renderla in alcun modo protagonista della sua famiglia, finendo col credere di non dover essere protagonista nemmeno della sua vita.
Uno dei suoi giochi preferiti era quello di salire su un albero. Poco distante dalla loro casa, c'era un grande parco e lì un piccolo pero dal tronco poco più alto di lei. I suoi frutti erano sempre abbondanti e dolci, nonostante le piccole dimensioni. Ma a lei piaceva soprattutto perché aveva un grosso nodo a metà del tronco su cui poteva puntare un piede per salire, e la sua prima diramazione a forma di “V”, le permetteva di appoggiarsi perfettamente con la schiena sul ramo e i piedi ben piantati nel mezzo.
Quando era sopra l'albero, diventava la regina dei venti e si sentiva forte, padrona di qualcosa, di poter comandare i venti secondo il suo volere e questo la faceva sentire grande, potente, importante. Era una bella sensazione quella, perché ci credeva davvero che il cielo, il sole, le nuvole o la tempesta dipendessero da lei, rispondessero ai suoi voleri; era fiera e sicura di sé e solo su quell'albero si sentiva così.
Una volta scesa però il gioco finiva, e non sempre il vento cessava, spuntava fuori il sole, o la pioggia smetteva di cadere.
Crescendo, quella bambina aveva poi dimenticato cosa si provi a essere padroni del proprio volere, o semplicemente aveva smesso di crederci perché nella realtà il tempo non cambiava quasi mai secondo i suoi desideri; e così, come fanno tutti i bambini e le bambine quando crescono, aveva smesso di sognare.

E poi... il suono improvviso della sveglia l'aveva riportata lì, davanti al suo presente. Anna tornò a guardare la lettera, cercando di capire cosa avrebbe dovuto farne.
Il primo istinto fu quello di strapparla in mille pezzi o darle fuoco. Ancora, la rabbia dentro di lei, le impediva di ragionare e il suo temperamento irascibile l'avrebbe portata, come al solito, a distruggere, far scomparire le cose che la facevano soffrire, come se questo bastasse a non percepirne il dolore, a non farsi toccare, anche a costo di non sentire più niente.
Eliminare: cose, persone, emozioni dalla sua vita, era stata la sua scelta per sopravvivere al dolore. Fingere che non esistesse, rimuovere tutte quelle emozioni scure, era una strategia che l'aiutava a stare bene, a sentirsi invulnerabile. Ma il prezzo da pagare era pro prio il non sentire più niente, una totale anestesia dal suo cuore.
Meglio così, si diceva. Che cosa mai avrà ancora da dirmi, dopo aver distrutto la mia vita?

Stava per strappare la lettera quando, per una frazione di secondo, appena prima dell'irreparabile, il suo sguardo si ritrovò di nuovo in quello dello specchio, facendola trasalire; per un attimo le sembrò di vedere proprio lei: gli occhi di sua madre, sovrapposti in uno squarcio di luce, ai suoi.
Anna fece un balzo improvviso sulla poltrona, col cuore che le batteva all'impazzata. Che succede? si disse, tornando a specchiarsi. Stavolta si ritrovò nei suoi stessi occhi, ma con una luce diversa, forse dovuta alle lacrime che si sforzava di trattenere. La rabbia che le bruciava nello stomaco vuoto aveva ceduto spazio a un senso confuso di amaro in bocca. Avvertiva come un nodo alla gola, una triste nostalgia per qualcosa ormai perso per sempre. Anna non avrebbe saputo esprimerlo a parole, o forse non voleva più sentire o dare nome a ciò che la scuoteva nel profondo.
La tensione stava cedendo alla stanchezza di quell'ora sospesa nel tempo e i muscoli nervosi della donna si rilasciarono improvvisamente. Sprofondò ancor di più con la schiena nella poltrona e si lasciò andare a un pianto sommesso. Una lacrima asciutta e composta le rigò la guancia.
La mano abbandonò la presa serrata e la busta rimase in bilico sulle sue cosce appiccicate dal sudore: il caldo e l'ansia rendevano insopportabile l'aria. Fece un sospiro, come per riprendere vita, e con un gesto rapido e istintivo riafferrò la lettera. Si alzò, staccando letteralmente il culo dai cuscini umidi, in cerca di un paio di forbici. Aprì la busta e la lasciò sul tavolo.
Prima di leggerla, avrebbe sicuramente avuto bisogno di una doccia fredda.

Elisa Viani

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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