Il tuo nome - Brown (Vol. 3)
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Rachel.
Lavorare al Moy non è quello che i miei genitori si sarebbero aspettati dopo aver fatto tanti sacrifici per farmi laureare in ingegneria meccanica, ma se avessero evitato di morire, ora starei aiutando papà nell'azienda di famiglia. − Signorina, la sua borsa. Mi volto e l'autista del tram mi fa cenno verso il sedile su cui ero seduta, mentre un signore con la barba bianca come quella di Babbo Natale si sporge per tendermi il borsone dove ho messo il cambio per questa sera. − Grazie− mormoro tra il grato e l'imbarazzato, mentre la prendo in consegna. Mia mamma spesso diceva che mi sarei persa anche la testa, se non l'avessi attaccata al collo. Negli anni ho perso così tanti ombrelli sui mezzi di trasporto che avrò fatto la felicità di mezzo Michigan. Per fortuna l'azienda di papà progettava e produceva proprio quell'articolo e quindi in casa ne avevamo montagne di tutte le fogge e colori. Suono il campanello all'ingresso e mentre aspetto che il portone del club mi sia aperto, controllo il telefono per poi spegnerlo. La direzione non vuole che restino accesi durante il servizio e quindi prima di entrare, guardo sempre di non avere notifiche in sospeso, ma da quando mi sono trasferita in Italia, non ne ricevo molte. − Ciao, Rachel− mi saluta il capo dei buttafuori del Moy. − Ciao, Sergio, le altre sono già arrivate? Metto via il telefono ed entro nella stanza ancora buia. − No, come sempre sei la prima. Mi piace avere a disposizione tutto lo spogliatoio, anche perché nel momento in cui arrivano le ragazze del servizio in sala, si trasforma in una baraonda chiassosa. − Come sta la tua cagnolina? Il suo viso all'apparenza sempre iroso si trasforma in quello che realmente è, dolce e apprensivo. − Meglio, per fortuna la cura sta facendo effetto, ma se non fosse per la pazienza di mia moglie, non so dove sarebbe adesso Lucky. − Le nasconde sempre le pillole nel cibo? − Sì, ma abbiamo cambiato metodo, quella furbacchiona svuotava la ciotola in un attimo lasciandole sul fondo ripulite come se le avessimo appena tolte dal blister e così ora mia moglie le polverizza e le mescola al cibo− mi racconta orgoglioso, mentre richiude il pesante portone dietro di noi. − Ma dovresti vederla mentre mangia, ci guarda come se ci stesse accusando di volerla avvelenare. − Quindi presto la riporterai qui? − No, ho l'impressione che sia proprio qui che abbia ingerito ciò che le ha fatto male e quindi la mia Lucky resterà molto lontana da questo posto. − Stanislav non ne sarà molto felice, fare servizio con un mastino al guinzaglio, faceva sì che gli animi ribelli dei clienti restassero fuori dal Moy. Sergio mi sorride sempre più orgoglioso della sua cagnolina. − Sì, la mia piccola incute soggezione. − Esattamente, proprio come il suo padrone: a prima vista siete grandi, grossi e minacciosi ma, appena vi si conosce un pochino, si scopre subito che possedete un gran cuore. − Non lo dire in giro− sussurra, guardandosi attorno. − Se la mia sola presenza smettesse di intimorire i clienti, mi licenzierebbero immediatamente. − Tranquillo, Sergio, il tuo segreto con me è in una botte di metallo. − Si dice: “In una botte di ferro” non di metallo. − Ah, okay, con i modi di dire sono ancora un po' indietro. − Per me sei bravissima e se non me lo avessi detto tu, non avrei mai pensato che non fossi nata e cresciuta in Italia. − Con i miei nonni materni ho sempre e solo parlato l'italiano, mentre con quelli paterni solo l'olandese. Il bello arrivava nel momento in cui ci riunivamo tutti assieme per le ricorrenze di famiglia, a quel punto diventava difficile sostenere delle conversazioni a tavola. − Già, me lo immagino, ma ora è meglio se vai a cambiarti− mi dice, guardando l'orologio da polso. − Presto inizieranno ad arrivare le altre. − Sì, hai ragione, vado. Il ricordo di quelle tavolate, mi accompagna fino allo spogliatoio delle donne, è stato proprio per quella specie di torre di babele che mi sono appassionata alla semiotica e sicuramente aver imparato tre lingue durante l'infanzia, ha reso la mia capacità di apprendimento molto più veloce del normale. Seduta a una delle tante console nella sala, sto dando gli ultimi ritocchi al trucco, quando la porta si spalanca e tre mie colleghe entrano salutandomi a malapena senza interrompere il loro chiacchiericcio. So di non andare a genio alle altre dipendenti, stare all'accoglienza ha creato un divario, un po' come se fossi il maître e loro le cameriere. Non mi sento diversa o superiore, semplicemente sono stata assunta per fare altro e cioè: accogliere il cliente, cercare di capire quali esigenze abbia e accompagnarlo alla sua destinazione. − Ci vediamo in sala, ragazze− dico prima di uscire, ottenendo solo una breve occhiata da tutte. Controllo la mia immagine riflessa sullo specchio nel corridoio, sistemo una ciocca di capelli sfuggita alla coda alta e liscio il vestito blu aderentissimo che mi obbligano ad indossare come divisa. − Sei pronta, Rachel?- mi domanda uno dei miei colleghi. − Più o meno− gli rispondo mentre lotto con il ciuffo ribelle. − Se Stany, ti vedesse così, gli verrebbe un colpo− mi dice prima di sparire nel suo spogliatoio. − Sai che non vuole vedere nulla fuori posto− esclama, tornando con una bomboletta di lacca e un pettine. Con pochi gesti mi sistema e poi fa un passo indietro per valutarmi pensieroso. − Gli dirò di fornirti un vestito nero, questa tonalità di blu scuro non si abbina ai tuoi occhioni verdi. − Ho provato a chiedergli di poter indossare qualcosa di meno aderente o di un colore diverso, ma mi ha liquidato con una frase poco gentile. − Ma, zuccherino, Stany a me non può dire di no. Mi fa l'occhiolino e poi prendendomi sottobraccio mi conduce verso l'ingresso. − Allora svelami il tuo trucco, così potrò combattere le mie battaglie da sola. − Beh, Rachel, basterebbe che ogni tanto dicessi di sì alle avances dei clienti e Stanislav sarebbe moooolto più permissivo con te. − Abbiamo già un'ampia scelta di ragazze e ragazzi per tutte le esigenze e per tutti i gusti. − Sì, ma l'essere irraggiungibile ti dona quello che alcuni cercano in una Mistress. − Terry, io non sono una Mistress. − Lo so, zuccherino, ma loro non lo sanno.
Zoe
Arrivata alla villa, salgo le scale di corsa e ignoro il suo richiamo, rifugiandomi in camera nostra, anzi no: sua. Come ha potuto ordinarmi di non andare in missione con Brown. Scalcio le scarpe senza curarmi di dove atterrino, mi sfilo le calze e le lancio da qualche parte dietro di me. So quanto gli dia fastidio il disordine. Slaccio i jeans e li lascio cadere a terra, li scavalco e mi tolgo la maglia, abbandonandola ai piedi del letto. − Non pensi che tutto questo sia molto infantile?− mi domanda, restando fuori dalla stanza con le mani sui fianchi. − Non più infantile del tuo comportamento da troglodita. Mi volto, intenzionata a chiudermi in bagno per cercare di lavare via con una doccia bollente tutta la rabbia che sento scorrere sotto la pelle, ma John varca la soglia ed io non riesco a muovermi per la tensione che irrigidisce ogni mia fibra muscolare. − Ti ho mai detto che quando sei arrabbiata mi viene voglia di portarti sul ring?− mi domanda, chiudendo la porta a chiave con estrema cura. − No, ma non c'è bisogno d'andare in palestra, se vuoi, posso picchiarti anche qui. Si avvicina, mentre istintivamente assumo la posizione d'attacco. − Credi davvero di potermi battere? − Credo che in questo momento, con tutta la rabbia che ho in corpo, sarei in grado di sottomettere anche il campione dei pesi massimi. Sorride e solleva un sopracciglio come se avessi detto la stronzata dell'anno e la mia ira arriva a dei livelli che non credevo esistessero. − Vediamo− esclama, invitandomi a farmi sotto, piegando e distendendo l'indice della mano destra. Come se qualcuno avesse acceso una luce, vedo tutto di un colore diverso più rosso e più vivido e quando mi avvento su di lui, per un attimo, l'impressione di poterlo sbattere a terra, mi riempie di un'enorme soddisfazione. Lui mi scansa come un agile torero eviterebbe il toro furioso e non è il dolore per la spallata che do sull'anta dell'armadio a farmi male, ma è il mio amor proprio ferito. − Sei uno stronzo− gli urlo, voltandomi pronta per affrontare il suo contrattacco. Ma non lo fa, sta fermo a osservarmi a occhi socchiusi, come se fossi una pazza piombata in camera sua. Ed è proprio la calma di John a farmi tornare lucida. − Non mi guardare in quel modo e non mi trattare come se la mia rabbia non fosse giustificata, hai dimostrato di non avere fiducia in me e di non reputarmi all'altezza di portare a termine una missione banale come quella. − Non definirei “banale” infiltrarsi in un covo di probabili mercanti di schiave con un Dom. Sbuffo e mi avvicino per piantargli un dito sui pettorali mentre continuo ad accusarlo: − Quel Dominante è uno dei tuoi fratelli e sai che non... Mi posa l'indice sulle labbra per impedirmi di proseguire a urlargli contro. − Mi sono comportato come uno stupido e ti chiedo scusa− mi dice, mentre mi stringe le mani attorno al viso. Unisce le nostre bocche, ma non cedo e non lo lascio entrare. Mi mordicchia, mi succhia le labbra, le sfiora con la punta della lingua e mio malgrado le socchiudo, permettendogli di reclamarle. Il mio desiderio s'impenna per quel bacio possessivo, velando la mia rabbia. Non è giusto che gli sia sufficiente sfiorarmi o che gli basti farmi sentire il calore della sua pelle, per accendere la mia passione. Però mi ha chiesto scusa. Riempio i polmoni del suo profumo e gli accarezzo la lingua con la mia, cercando di ricambiare un bacio che diventa sempre più famelico. Mi ammorbidisco contro di lui e mi godo il tocco delle mani sul mio sedere e sulla schiena, mentre la sua erezione mi preme sul ventre. − Siediti sul letto− mormora, interrompendo il bacio. − Ma prima togli anche il resto− aggiunge, sorridendomi come se stesse per divorarmi in un sol boccone. Sollevo il ginocchio e facendo strusciare la gamba nuda sui suoi pantaloni ruvidi, gemo, incapace di trattenere il brivido che la pressione sul mio clitoride scatena nel mio corpo sovreccitato dal mancato scontro fisico. − E tu non ti spogli? Mi sembra d'andare a fuoco, ho la pelle sensibilissima e, anche se indosso ancora la biancheria, percepisco il suo contatto come se fossi completamente nuda. − Ora non serve− mi dice, adocchiando il letto dietro di me per incitarmi a eseguire il suo ordine. Riluttante mi separo da lui e mentre mi ci avvicino, tolgo il reggiseno, lasciandolo cadere sul pavimento, infilo le dita sotto l'elastico delle mutandine e mi siedo sul materasso, facendole scorrere sulle cosce per poi mandarle a far compagnia a tutti i miei indumenti sparpagliati per la stanza. − Stenditi e... John s'inginocchia davanti a me e sporgendosi in avanti, mi posa le mani sulle ginocchia. − Apri le gambe. Appoggio i gomiti al materasso, mentre scendo e cedo alla lieve pressione dei suoi palmi, lasciando che mi separi le cosce. A occhi socchiusi lo guardo sistemarsi tra di esse e mi mordo il labbro inferiore nel momento in cui avvicina il viso al mio sesso. − Testa sul letto e chiudi gli occhi− mi ordina, avvicinandosi sempre di più. Tremo solo per il calore della sua vicinanza e strizzo le palpebre per la scossa che mi attraversa. − Se questo è il tuo modo di chiedere scusa, spero che tu mi faccia arrabbiare spesso− mormoro, muovendo i fianchi. John mi accarezza l'interno della coscia con un dito, riempiendo di desiderio ogni mia fibra e facendo galoppare il mio cuore. − Preparati, piccola, perché ti farò gridare− afferma, abbassando la voce e pronunciando quelle parole come se fossero una minaccia. Mi lecco le labbra improvvisamente secche, quando mi afferra un ginocchio e se lo posa su una spalla. M'irrigidisco mentre percepisco il calore del suo viso avvicinarsi e gemo a labbra strette nell'attimo in cui sento la sua lingua sfiorare il mio sesso. − Scordatelo, John− esclamo, mentre sono attraversata da un forte fremito. − Non ti darò la soddisfazione di sentirmi gridare. Il mio tono s'impenna pericolosamente quando mi penetra con due dita. − Urlerai per me, piccola. Gemo, odiandolo con tutta me stessa appena trova il punto G per stimolarlo fino a portarmi vicino al limite, ma lo detesto ancora di più, quando si ferma un attimo prima che io spicchi il volo. − Ti prego non fermarti. Mi afferra il clitoride con le labbra e lo succhia, stuzzicandomi e portandomi alla follia. Il mio corpo non risponde più, lo sento inerme, senza forze, ma teso e concentrato solo dove la bocca e le dita di John, leccano, succhiano e mi stimolano fino a rendermi un concentrato di piacere. Dalla mia gola riarsa escono un'infinità di parole e preghiere, ancora e ancora in una litania senza fine, sino a quando John mi spinge oltre la soglia, facendomi esplodere in un potente orgasmo. − Tutto bene lì dentro? Improvvisamente consapevole di aver urlato a squarciagola e che non siamo soli nella villa, mi sento arrossire fino alla radice dei capelli. − Togliti dal cazzo, Will− sbraita John, strappandosi i vestiti di dosso.
Cara Valli
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