La morte della romanziera
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Palermo, 30 luglio 1949. Quando spararono con i cannoni ebbe un sussulto nel cuore. Una sorta di formicolio che pervase tutto il petto. Una forma di orgoglio strisciante si era spanso in tutto il suo essere, portando gioia e, strano a dirsi, allegria. I colombi erano volati in alto andandosi a posizionare, come in un quadro, nel cielo azzurro e assolato di Palermo. Una città immobile, con il fiato sospeso, aspettava un altro miracolo. Qualcosa che stavolta non sarebbe arrivato di sicuro. La Romanziera non sarebbe tornata tra di loro come un Gesù risorto. Era morta. Era la dimostrazione che fosse terrena e non divina come molti pensavano. “Va eccati! Niente di che, in fondo!” si ripeteva nella mente. Ed era stato merito suo! Solo suo. Nessuno aveva avuto il coraggio di dimostrare la fallacia di quella santa. Una mediocre farsa, quella della Romanziera, alla quale l'ignoranza e la povertà d'animo, la mancanza di fede e la miscredenza avevano fatto da trampolino di lancio a un successo immeritato e pericoloso. Questo pensiero fece affiorare la solita rabbia. La trattenne in un sorriso beffardo che nessuno colse. Così, la bara di legno pregiato, forgiata per la circostanza dalla maestria di mani artigiane e nell'arco di poche ore di fatica e sudore, sfilava sopra centinaia di migliaia di teste. Via via quasi seicentomila occhi ricolmi di lacrime abbassarono le palpebre lasciando scivolare il loro dolore su guance smunte dalla notte insonne. Quel sarcofago ligneo sfiorava, al passaggio, i pensieri foschi di tutti quei poveri miserabili ormai orfani della speranza di poter credere in qualcuno che potesse salvarli dal male, dal dolore, dalla malattia; come era stato solo fino a due giorni prima. “Lu Signuruzzu i cosi i fici ritti, vieni lu diavulu e li sturciu... Poveri illusi, maledetti miscredenti!” ripeteva tra sé e sé. Un mare di carne umana, ammassata come un corpo unico, si muoveva all'unisono man mano che la bara procedeva lungo via Vittorio Emanuele. La processione era partita dal mare. Nelle prime ore dell'alba, l'intera città si era disposta comprimendosi da La Cala, il porto antico, fino alla fine dell'antica via Toledo. C'era gente lungo tutto il tragitto che la salma avrebbe fatto. Accalcata ai lati dei marciapiedi, arrampicata sui lampioni, affacciata alle finestre, ai balconi... tutti a fare da argine a un percorso che avrebbe toccato le tappe della vita della Romanziera, come una Via Crucis, a partire dall'insenatura che dà accesso al cuore del centro abitato, il piccolo ovario della città fenicia, greca, romana, araba, normanna... Zyz, il Fiore. Palermo la splendente! Era lì che la Romanziera era arrivata via mare ancora bambina, proprio come in quell'alba, in mezzo ai detriti, dopo essere scampata per miracolo al terremoto di Messina, la sua città natale. “Il mare porta a volte nefandezze, a noi ha portato la Romanziera, un'estranea che ha dominato la nostra casa per trent'anni. Ma ora non più, cara mia!” pensò. Dalla Porta Felice, si entrò ne U' Càssaro, figlio della storpiatura fonetica dell'antico nome arabo Al Qasr, che poi era sempre la via Vittorio Emanuele. Palermo, proprio come un fiore, era stata sfogliata nella storia, un petalo via l'altro; ogni dominio aveva lasciato la sua impronta sulle sottili membrane di Zyz. Il figlio Enzo, il fratello Bernardo, il marito Felice, il sindaco e due compagni delle antiche lotte socialiste sorreggevano, affranti dal dolore, il peso della donna chiusa nel suo involucro funereo, anticipati di qualche passo dall'arcivescovo di Palermo. E così passarono dalla Vucciria, per la prima volta muta e dolente, e attraversarono la piazzetta dei Quattro Canti. La città era avvolta in un irreale silenzio. I palermitani erano rimasti come storditi, attoniti, alla notizia della prematura scomparsa della Romanziera. Gli unici suoni venivano dalle chiese lungo il passaggio. Ognuna suonava un solo tocco di campana dando l'effetto d'insieme di tante lacrime cadute a terra. Passarono per la via dove era cresciuta orfana e aristocratica; così come all'altezza del parco della Favorita per andare verso Mondello, dove era stata giovane e ricca madre; proseguirono poi vicino alla casa dove era vissuta, ormai miracolosa e in disgrazia. Di tappa in tappa, vennero liberate delle piccole aquile, simbolo del capoluogo, a testimonianza dell'ossequio municipale. La Romanziera era un'immensità, per il sacro e pure per il profano. Ci misero due ore invece che i soliti venti minuti. Alle undici del mattino le vedette arrampicate sui muri e i pali prospicienti la cattedrale, scorsero il corteo funebre. La statua di santa Rosalia li accolse fiera e determinata, all'altezza dell'accesso al Planum Ecclesiae. “I rimasugghi di santa Rosalia! Chidda sì fu santa vera, mischinuzza! li carruzziaruno o rivìersu dalla cattedrale al mari, da la morte a la vita, pi arringraziarila de la libbirazione da la peste...Chista bottana, la peste fu...In pirsuna!”scatarrò il suo livore; una signora grassa e dal viso inondato di lacrime se ne infastidì e per dimostrare il suo disappunto voltò le pingui spalle non senza una discreta fatica. Quando gli uomini del piccolo corteo posarono i piedi sul sagrato, tutta Palermo si inginocchiò abbassando il capo, come a un comando. La Romanziera era stata in quell'istante proclamata, coram populo, la settima santa protettrice della città. La Chiesa, che per tutti quegli anni l'aveva guardata con diffidenza e circospezione, di fronte a questa morte non aveva potuto fare altro che accodarsi ai suoi preziosi fedeli e almeno fingere altrettanta devozione, onorandola come le altre patrone del capoluogo che l'avevano preceduta. Il popolo l'aveva acclamata da viva e ora la santificava da morta. E come tutte le sante che si rispettino, anche lei era stata strappata alla vita da un decesso cruento e straziante. A soli quarantanove anni, da un giorno all'altro, in modo misterioso e ancora da chiarire. Quando a Roma ci si chiese come procedere, si preferì gestire la faccenda senza tergiversare, prima che potesse sfuggire di mano e diventare una minaccia dichiarata. Santa non sarebbe diventata mai in via ufficiale, ma il funerale destinato alle alte cariche non glielo si poteva purtroppo negare. Troppo illustre la casata d'origine, troppo famosa, troppo compianta da tutti. Allo stesso modo decise pure l'amministrazione locale, dedicandole i funerali di Stato, nemmeno fosse morto il presidente. Quella benedetta donna era socialista oltre che santa. Aveva peccato due volte e in modo contraddittorio. Il potere ecclesiastico di Roma la temeva perché non la comprendeva; la Democrazia Cristiana aveva interesse a non farsi vedere ostile o disinteressata per non inimicarsi l'elettorato. Niente, non si poteva proprio evitarlo quel funerale in pompa magna. La Romanziera era stata tutto e il contrario di tutto. Amata, adorata, idolatrata, temuta, odiata, invidiata. I figli, a testa bassa, sentivano il grande peso che la vita gli aveva destinato. Nascere da una donna così non era stato semplice per nessuno di loro. Una madre assoluta! Un colosso irraggiungibile per tutti. Essere all'altezza di quella donna sarebbe stato impensabile, così ognuno di quei poveri figli si era rifugiato in una sua piccola nicchia nel mondo, cercando di non farsi troppo notare. Ora che quei seicentomila occhi li stavano sfiorando, si sentivano scrutati fin nelle viscere, e, al contempo, colpevoli per non essere niente di più che dei figli buttati sulla terra, inadeguati per non aver ereditato, nessuno di loro, nemmeno un briciolo di quel miracoloso talento materno. Erano progenie inutile, spreco, avanzi di divinità. L'arcivescovo entrò nella navata centrale della cattedrale, sentì il fresco e il profumo di acqua benedetta, dell'incenso; tirò un respiro di sollievo all'idea di essere arrivato alla fine di quel lungo tragitto, approdato al suo porto sicuro, nel suo territorio. Una sensazione che durò giusto il tempo di passare dalla luce abbacinante del sole alla penombra dell'interno della chiesa. Lo aspettava un importantissimo compito: l'omelia funebre. Era avvezzo a questo tipo di uffici, ma stavolta ogni parola detta sarebbe rimbalzata come una scheggia attraverso lo spazio, spargendosi celere per chilometri e decenni. Aveva l'impressione che il destino gli avesse poggiato addosso il mondo intero. La notte precedente non aveva dormito. Alle prime luci dell'alba aveva pregato il Signore di proteggerlo e guidarlo in quel gravoso compito. Era spaventato. Un uomo di chiesa della sua levatura non avrebbe dovuto esserlo, ma doveva riconoscersi un animo in fondo fragile. Aveva fede; eppure, viveva in costante bilico tra la certezza e il dubbio. Quella donna lo aveva spaventato in vita, lo atterriva ancora di più ora che era morta; e in una frazione di secondo di molti anni prima lo aveva persino attratto. L'aveva conosciuta quando era molto giovane. La prima volta che si erano visti era all'inizio della sua carriera. La Romanziera era giovane e molto bella. Era stato colpito, trafitto si può dire, all'improvviso, dai suoi occhi profondi e audaci; occhi che non permettevano a nessuno di distogliere lo sguardo. Non era stato semplice nemmeno per lui resisterle. Mentre camminava davanti alla sua bara aveva riportato alla memoria quel particolare, era tornato indietro nel tempo a quell'attimo preciso in cui si erano incrociati i loro sguardi. A distanza di oltre trent'anni, l'arcivescovo ripensandoci provò ancora un senso di smarrimento. Fuori dalla cattedrale un'oceanica massa di anime addensava i propri corpi sudati pigiandoli uno sull'altro. Erano esclusi nella visuale e si sforzavano invano di carpire un frammento in più della funzione. Nel presbiterio era stato montato un arsenale di microfoni e altri marchingegni moderni. C'era qualcosa di innaturale in quello scenario. L'arcivescovo pensò a santa Rosalia e ai suoi resti che giacevano proprio li vicino. Povera santa, che terribile spettacolo, disturbata da tanto frastuono mentre avrebbe dovuto riposare in pace. La bara venne deposta al centro della navata di fronte all'altare. I parenti, finito il loro compito, si allontanarono dopo aver indugiato un tempo. Bernardo, il fratello maggiore, aveva lo sguardo di chi non si arrende con facilità. Era più cupo che addolorato. Il figlio Enzo, un giovane magro e smunto, si appoggiò al braccio del padre, un uomo scheletrico dall'espressione algida, per andarsi a sedere al primo banco destinato ai familiari, dove li attendevano, immote e velate di nero, le tre sorelle. Davano l'idea che si fossero nascoste, protette dai veli scuri. Parevano tre cumuli di stoffe appoggiati sulle panche. Quando l'arcivescovo arrivò all'altare per iniziare il suo ufficio, alzò lo sguardo sulla platea di fronte. C'erano grandi personalità sedute ai banchi davanti. Le tre navate erano state invase da esseri umani. Era arrivato il suo momento, tutti erano in attesa di ascoltare la sua omelia. Fu allora che accadde qualcosa di inaspettato. Nel buio del cuore del prelato comparve una piccola luce che si ingrandì, deflagrando in mille altri puntini. Era nata dentro il suo petto e si stava spargendo per i polmoni. Lasciati quelli, invase la gola e, dopo aver fermato il respiro, accelerò fino ad arrivare alla testa. Gli occhi gli si ribaltarono. L'arcivescovo, come colpito in pieno viso, gettò il capo indietro e svenne.
Marcella Formenti
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