Si alzò dalla scrivania con la noia dipinta sul viso e cominciò a sistemare le carte sparse in giro. Dopo averli accartocciati con rabbia, gettò nel cestino i fogli inutili e infilò gli altri nelle relative cartelle. Al termine della giornata di lavoro era sempre così. Si proponeva ogni volta di essere più ordinata, ma falliva sempre nell'intento, e non solo in quello. Che idea si potevano fare di lei le pazienti, di fronte a una tale confusione? Nell'opinione comune, una scrivania coperta di carte gettate alla rinfusa rivelava una persona disordinata anche di mente e, con ogni probabilità, incapace come professionista. Avrebbe dovuto metterle a posto ogni volta che una di loro se ne andava, prima di ricevere la successiva. Era tutto memorizzato nel computer, ma spesso stampava i dati per averli a portata di mano. Forse avrebbe dovuto affidarsi esclusivamente all'elettronica, ma, sebbene fosse ancora giovane, per certi versi aveva una mentalità arretrata che avrebbe potuto appartenere a sua madre. No, non era quello il punto. Aveva ben altro in mente, questa era la verità, e non le importava nulla di essere al passo coi tempi, tanto meno dell'elettronica. Come aveva potuto lasciarsi andare a quel modo nell'esercizio della professione? Inqualificabile. Però, aveva delle attenuanti. Si strinse nelle spalle. Era satura dei rimproveri che si rivolgeva costantemente. Satura anche di tanto altro. Ora aveva solo voglia di andare a casa e di staccare la spina, almeno fino all'indomani. Una boccata d'aria per affrontare un'altra giornata. Non chiedeva molto. Gettò uno sguardo al di là della finestra e si sentì sconfortata. Sebbene fosse giorno e il tramonto del sole ancora lontano, un grigiore opprimente gravava come una tenda triste sul mondo circostante e una pioggia sottile che aveva l'aria di durare a lungo bagnava senza pietà uomini e cose. Niente passeggiata tonificante prima di cena, quindi. Il peso della decisione la schiacciò. Perché no? Una giacca impermeabile con cappuccio, e via. Quando mai aveva avuto paura dell'acqua? Nata e vissuta a Perth, nel cuore della Scozia, era abituata a un meteo ballerino, che sapeva ridere e piangere nel giro di pochi minuti, e a una temperatura altrettanto incostante. No, concluse tra sé, il suo malessere non era dovuto al tempo, ma ai problemi personali. La ossessionava la devastante certezza di aver sbagliato tutto nella vita. Non era stata solo colpa sua, questo se lo concedeva, ma anche di alcuni eventi che le erano capitati come dei mattoni sulla testa. A onore del vero, lei aveva sempre optato per la soluzione errata. La più comoda, forse. Sotto sotto, si sentiva una pusillanime; sì, doveva ammetterlo. Era un tipo che cercava di svicolare; le mancava il coraggio di affrontare le situazioni di petto. Inoltre, si sentiva una stupida. Non aveva ancora imparato che in certi frangenti bisogna trattenere i propri istinti? A torto, aveva pensato che, trattandosi di lei... A torto, appunto. Ragionare, ragazza mia, ragionare con la testa e non con altri organi. Ragazza? Non era più tale, bensì una donna sposata con figlie. Una professionista, anche, se così si poteva dire. In apparenza lo era, benché sentisse di non valere niente. Non demolirti troppo. Non sei così male. A volte, hai delle buone intuizioni. Ma non era questo il problema principale. Terminò il lavoro sbuffando, tra un'imprecazione e l'altra. Uscì e salutò la segretaria, che era ancora al suo posto e ci sarebbe rimasta a lungo. Il marito era ancora occupato, come di norma. Aveva sempre più appuntamenti di lei. La competizione col coniuge era un fattore stressante. Lo trovava un pallone gonfiato, intriso di un'autostima a parer suo eccessiva, ma forse si trattava solo di invidia. Uno dei suoi tanti errori: sposare un ginecologo, esattamente come lei. Doveva ammettere che lo stato di cose aveva permesso di aprire uno studio in cui lavoravano entrambi; andava alla grande e rendeva bene, soprattutto grazie a lui, ma non erano questi i suoi desideri nella vita. Ad essere sinceri, l'errore era stato anche sposarsi. Tutta colpa di sua madre. No, adesso basta incolpare gli altri. La colpa era anche sua, che si era lasciata convincere dal presunto amore di Duncan e dai suoi bei modi, che erano cambiati ben presto. E ora, non aveva il coraggio di reagire. La pioggia le sferzò il viso e non si curò di ripararsi. Raggiunse l'auto e si diresse verso casa. In pochi minuti arrivò sul lungo fiume e scorse la costruzione di pietra circondata da alberi ad alto fusto; nell'alone grigio del pomeriggio piovoso, aveva assunto un aspetto piuttosto sinistro. A poca distanza sorgeva la casa in cui viveva sua madre, rimasta sola meno di due anni prima, quando il padre era morto all'improvviso per un assurdo incidente. A parte il periodo dell'università e i primi tempi di lavoro in ospedale, trascorsi a Edimburgo, Olivia aveva sempre vissuto tra quelle mura con la famiglia. In occasione del matrimonio, il padre aveva comprato per lei e Duncan una casa a poca distanza dalla loro; sebbene fosse elegante e spaziosa, Olivia non l'aveva mai amata. Non le faceva piacere entrarvi. Non la sentiva sua, non amava nulla di ciò che vi era all'interno, come se fosse un'ospite temporanea destinata a un breve soggiorno. Così come non sento mie le bambine e neppure Duncan come mio marito. Mi sono calata per errore in una situazione che non mi appartiene. Forte era in lei la sensazione di essere estranea a quel mondo: lo studio creato da lui, in cui lei stessa lavorava ogni giorno, la casa in cui ogni dettaglio era stato scelto da lui, le figlie che le erano state imposte e che lei non aveva mai voluto, un marito che non era neanche l'ombra del giovane che le aveva fatto vedere il paradiso. Aveva voglia di scuotere lontano da sé tutto ciò, come fosse una coperta che si vuole liberare dalla polvere. Truffata. Tale si sentiva. Scese dall'auto e aprì la porta di legno massiccio. Nel vestibolo, la accolse l'armadio per gli abiti di legno scuro che troneggiava sul pavimento di quercia; sulla parete opposta, due spade incrociate sullo stile degli antichi castelli che abbondavano in Scozia. Un'idea di Duncan. Ovvio, lei non ne aveva nessuna. Qualcuno doveva pur tirarle fuori. La casa era vecchia e il mobilio che conteneva anche, ma di ottima qualità; il marito aveva voluto conservarne gran parte. A lei, la cosa era indifferente. Si erano scambiati i ruoli. Di solito erano le donne a occuparsi di certe questioni. Qui era stato il contrario. Duncan era un uomo sui generis, lei una donna fuori dagli schemi. Si strinse nelle spalle. Depose la giacca e andò in salotto. Prese una bottiglia di whisky dalla credenza e ne versò una razione limitata. Un rimedio antidepressivo. Un altro pensiero assillante e fastidioso si affacciò alla mente: le bambine. Decise all'istante di lasciarle anche per la notte a casa di sua madre, dove si trovavano già. Non ce la faceva proprio a sopportare i loro strilli, i capricci e l'impegno continuo che richiedevano. Non quella sera, si disse, benché in realtà non fosse mai il momento appropriato. Sentiva dentro di sé che non era giusto, ma doveva pur salvarsi. In caso contrario, sarebbe esplosa e le avrebbe trattate male, sbagliando ancora una volta. Perché mai le aveva generate? Era una pessima madre e se ne rendeva conto. Una gravidanza gemellare, per di più. Colpa del marito. Tra i suoi parenti c'era una coppia di gemelli. Così aveva detto lui, perché dei suoi congiunti sapeva ben poco. Niente, per la verità. I suoi genitori erano morti giovani a causa di un incidente ed era stato allevato da una nonna, che se n'era andata a sua volta quando studiava all'università. Colpa, si fa per dire. Aveva studiato medicina e sapeva come funzionavano le cose. Diciamo che è lui il portatore del gene gemellare. Pensò alla sua passeggiata, che aveva quasi dimenticato, e uscì in veranda a guardare se la pioggia fosse diminuita. Notò che l'anta di una delle finestre si muoveva alle folate di vento. Quella stupida di Janet l'ha dimenticata aperta, pensò, irritata verso la ragazza che veniva ogni giorno a lavorare in casa. Si affrettò a chiuderla e in quel momento avvertì una presenza alle sue spalle. Somigliava a un soffio di aria fredda. Ma non era aria. Il cuore le saltò in gola per la paura, ma, quando vide di chi si trattava, provò solo rabbia. Una furia cieca e una gran voglia di metterle le mani addosso. “Cosa fai qui? Come ti permetti di entrare in casa mia?” Ruggì. L'altra la gelò con uno sguardo di ghiaccio. “Calmati. Non ti conviene reagire così. Sai meglio di me che sei dalla parte del torto.” Olivia infilò le mani nelle tasche dei jeans per dominare l'istinto di stringerle il collo. Avrebbe solo peggiorato la situazione, ne era conscia. “Come ti permetti di introdurti qui, come una ladra? Cosa diavolo vuoi da me?” “Soldi.” “Ancora? Non ti bastano quelli che ti ho dato, maledetta?” “Voglio altre cinquemila sterline.” Una vampata di rabbia mista a un'ansia incontrollabile le salì alla testa. “Sei pazza? Dove pensi che trovi tutto il denaro che mi chiedi?” “Li trovi, li trovi. So che ne hai. O preferisci che spifferi tutto? Vuoi che dica in giro che...” “Taci!” “Allora?” “Non finirà mai questa storia?” “Sarò io a deciderlo.” “Fottiti.” L'altra la fissò sprezzante. “Quindi?” Olivia sbuffò rabbiosa. “Va bene. Ma è l'ultima volta.” “In contanti, come sempre” ghignò la donna, maligna. “Fra due giorni qui, a quest'ora.” Olivia la fissò ostile, il fuoco negli occhi. “Che tu sia dannata. Sei una schifosa.” “Chi sbaglia, paga.” L'intrusa si allontanò, scuotendo la folta chioma scura e lucida che le copriva le spalle come un mantello di seta.
Marialuisa Moro
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