Tutto quello che viene dopo
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Questa è la storia di un paio di occhiali che da rossi con la benda e l'elastico, diventano lenti a contatto e poi ancora occhiali sempre più spessi e infine occhiali neri. Racconti di una vita prima normale poi intervallata dalla malattia che ha ridefinito i contorni del tempo. Come ci cambiano gli imprevisti dipende solo da noi ma inevitabilmente è dissociante non riconoscersi più. Due donne accompagnano questo percorso, una reale e una immaginaria che poi si materializza in un incontro che rappresenta una possibilità di tornare a vivere. Si confondono i piani di realtà e l'immaginario, il tempo presente e il passato alla ricerca di una dimensione possibile che è ancora lontana. Visioni, sogni, allucinazioni diventano quadri pieni di colori e surreali come un altrove che serve per andare avanti. Punti fermi la famiglia, il coraggio e i ricordi che non si dimenticano e fanno da puntello alle difficoltà. Un altro modo di vedere possibile o è solo l'illusione che serve per andare avanti? Nemmeno il protagonista lo sa. Nel frattempo sono di nuovo verdi le foglie sugli alberi anche se non può vederle, la primavera sta ritornando, l'aria cambia e si fanno nuovi incontri. La malattia ci cambia, ed è a questo punto che dobbiamo imparare che cos'è la felicità del giorno dopo, quel giorno che ti viene detto o lo capisci da solo, che la tua vita non sarà più come prima. Questa storia parla della nostra parte oscura. Della consapevolezza che siamo solo ombre che cercano per tutta la vita la sagoma che le ha generate, nulla più di questo. E le ombre non sono buone, né cattive, né belle, né brutte. Né normali, ne malate, ne giuste, ne sbagliate. La borgata.
La mia era una casa popolare del quartiere Tufello, una zona nella periferia Nord- Est di Roma molto lontano dal centro, dapprima abitavo in via Monte San vicino, due traverse prima di dove era la nuova casa. A quell'età avrò avuto quattro anni i capelli a caschetto, era già robusto perché mangiavo parecchio, ma non portavo ancora gli occhiali. Ad un bambino non è dato di comprendere perché si debba traslocare, ma di fatto era solo una delle tante cose decise dai genitori e non discutibili, come l'olio di ricino, le vacanze al campo solare della parrocchia e gli spinaci che fanno bene. Vicino al Vaticano, esisteva un quartiere detto Borgo, esso era il cuore della romanità, all'epoca Mussolini stipulò con il vaticano, i patti lateranensi in seguito ai quali poi questo cuore, che era il centro medievale di Roma, fu completamente smantellato e tutti gli abitanti trasferiti in un nuovo quartiere che fu detto Tufello per via di una cava di tufo che anticamente era presente in quel luogo. Molte delle case del Borgo erano state costruite nel medioevo con i marmi e il tufo rubati al Colosseo. Tutti gli edifici sono stati abbattuti completamente dal regime fascista per poi lasciare spazio al suo posto alla costruzione della via della Conciliazione perché rappresentava per il regime una via maestosa per l'entrata in Vaticano. Al Tufello venivano girati anche molti film con attori come Sordi e Verdone. La casa dove andai ad abitare era stata costruita all'epoca per i profughi francesi che scappavano dall‘Algeria dove era in corso la rivoluzione per l'indipendenza. Venivano detti francesi, in realtà erano italiani rimpatriati. Mio padre rifece le porte e ristrutturò la casa che era stata lasciata a noi in condizioni fatiscenti da tutte le varie vicissitudini storiche e i molti passaggi. Alternavamo questi lavori alle più normali attività come accompagnare mio padre a vedere le sue partite a bocce. Ricordo che per andare dai nonni attraversavamo un viale, pavimentato all'epoca con i san pietrini, in italiano in realtà si chiamava pavé, ora asfaltato. La zona in cui abitavano i nonni faceva sempre parte del quartiere Tufello, aveva le stesse caratteristiche, ma le case erano più grandi costruite concettualmente diverse, fatte per famiglie più numerose. La fondamentale differenza per me allora era che qui il cortile era molto ampio con arcate e spazi liberi, suddiviso in due campetti nei quali noi giocavamo con le automobiline, le biglie e poi al baseball, al tennis, facevamo anche gare di bici. I danni e le risate di noi bambini erano impari e a sera non si poteva contare cosa avesse avuto la prevalenza. Ricordo una stradina in discesa e la corsa in bici di un mio amico che fini disastrosamente dentro il chiosco dei giornali lì vicino. Molti ragazzi che conoscevo purtroppo presero la via della delinquenza, ma a quel tempo giocavamo insieme incuranti della sottile differenza tra bene e male. Il nostro quartiere era considerato dalla malavita, germe del terrorismo che cominciava a devastare la storia, quasi come serbatoio per nuovi adepti. Negli anni 80 era un quartiere veramente difficile da vivere, ogni strada aveva il suo legame con la tragedia. Erano gli anni dell'‘attentato al giudice Palermo, del giudice Occorsio, di Valerio Verbano e Paolo Di Nella. Oggi per fortuna questa periferia si è integrata. Tutti noi bambini di quella borgata, dove qualche regolamento di conti spaccava la calma dei nostri pomeriggi di gioco, avevamo un soprannome. La vita scorreva normalmente diversa dal giorno prima e anche uguale nella singolarità delle piccole cose che non erano mai le stesse. Ogni mattina accompagnavo mio fratello a scuola perché ero più grande di lui di quattro anni. Noi ragazzini vivevamo come su un'isola, non ci rendevamo conto delle implicazioni al di fuori dei nostri giochi, l'innocenza ci proteggeva, mescolando inconsapevolezza, panini con pane e zucchero insieme a qualche frutto che le mamme ci mandavano giù dalle terrazze in un cestino retto da una fune che reggeva oscillando e scendendo lentamente. Lo facevano a turno ed era una festa indovinare quale mamma e quale tipo di merenda avrebbe intervallato il pomeriggio come se fosse il pasto di lavoratori dei campi, giocare era un mestiere molto serio. Il cortile si estendeva per circa un chilometro, era più che altro un campo, un appezzamento, c'erano e ci sono tuttora alberi, strade cespugli, anche se con il passare del tempo l'edilizia ha livellato, fino quasi a farli scomparire, i due campetti dove giocavamo un tempo. La nostra palazzina era a due piani di un colore giallo ocra, comprendeva anche un seminterrato, dove c'era il nostro appartamento. Dentro questa isola, che era il mio quartiere nel quale c'era la mia casa, c'era il mio rifugio. La era la mia camera che di giorno faceva anche da sala da pranzo, li dormivo con mio fratello. Giocavamo spesso sdraiati per terra io e Mario, per cui mi ricordo bene il lampadario ad otto bracci di ottone bronzato, un'enciclopedia dei” I quindici, che era d'obbligo in alternativa a “The World book.” Nessun impianto stereo, solo la radio e la televisione. Ci inventavamo i giochi posizionando le sedie come struttura di una tenda di cui il tappeto faceva da soffitto, il pavimento era governato da un esercito di piccolissimi soldatini, sembravano tutti uguali, ma per noi due erano milizie e truppe ben differenziate, quello era il nostro campo gioco, ogni giorno c'erano conflitti a fuoco, prigionieri e vittime con teste mozzate che si rialzavano ad ogni cambio di scena. Era bello il mondo che non c'era ancora, quello dove tutto quello che accadeva era come un teatrino. Quando non ce la davamo di santa ragione, io e Mario andavamo d'accordo. Non mi è mai piaciuto il calcio, il mio interesse erano gli sport americani. Forse questa passione per il baseball è stata importata dai miei cugini canadesi. Erano loro a regalarmi magliette di personaggi famosi come i “Village People” o palle da baseball e a me affascinava questo mondo lontano che ho sempre sognato di vedere. Finalmente nell'83 ci andammo davvero a trovarli in Canada, Montreal, le cascate del Niagara, Toronto tutto quello che avevo solo immaginato ora era lì davanti ai miei occhi pieni, appagati e increduli. Stavo vivendo dentro un'enciclopedia animata e vera. Da allora ho vissuto su due piani di realtà, forse succede a tutti, ma io iniziavo a vivere la mia vita in un altrove. Quella vacanza mi lasciò come un respiro che non conoscevo, avevo dentro me, negli occhi come un caleidoscopio di immagini che non avrei più rivisto, ma che ormai erano mie e nei miei polmoni un alito di vita nuova. Mi sentivo come quando in punta di piedi si sbircia lo sconosciuto mistero oltre ad un muro alto che ti è concesso di vedere per poco. Poi quando ridiscendi ti porti via l'inafferrabile rubato per quel poco che però non dimenticherai mai più. Ero in prima elementare quando mia madre si accorse che avevo gli occhi storti. Io pensavo semplicemente di non andar bene a scuola, non sapevo che ci fosse un altro modo di vedere. In seconda elementare riuscii anche a farmi bocciare, mi ricordo che di asticelle, linee e bastoncini non me ne veniva uno uguale all'altro. Quando ci trasferimmo nella casa nuova ricordo che c'era un giardino immenso, lì la mia immaginazione cominciò a correre. Mi piaceva di quello spazio enorme il fatto che non si vedesse un preciso orizzonte, mi sentivo libero di non sapere fin dove potessi spingermi. Li cominciai a giocare a baseball, l'idea di scagliare la palla chissà dove, l'imprevedibilità, la sfida e la forza che dal braccio regolava il tiro mi attraeva. La mia forza era quella di un orso goffo potente e che non sa come regolare il minimo sforzo. Non me ne rendevo conto di quanta ne avessi fino al giorno in cui non feci male ad un ragazzo molesto che si accasciò sotto uno dei miei pugni. Quello era il mio primo e unico pugno, dopo non ne ho mai più dati perché avevo capito di non sapermi regolare. Non ho mai usato questa forza per prevaricare nessuno, a costo di essere consideravano un po' fifone, in romano si dice “un soggettone”, cioè un tipo bizzarro. Ero stravagante, devo ammetterlo, una volta mi costruii un paio d'ali con il sacco dell'immondizia nero che avevano come scheletro i rami del rododendro. Salito poi su un muretto per sperimentarle, caddi miseramente sull'erba mentre sentivo gli altri ridere di me. Da allora continuai a sognare da solo. Mia madre, rassegnata, mi aveva comperato una certa quantità di occhiali, uno dopo l'altro perché li rompevo giocando, portavo un filtro rosso sull'occhio sinistro e una benda sul destro che costringeva l'altro a lavorare meglio. C'erano cose che non capivo, mi sentivo diverso, mi prendevano in giro, ero grosso ma debole, per un maschio questo è una cosa strana. Mentre i miei compagni di giochi, scorrazzavano e ridevano, io avevo sempre paura di essere deriso, perciò socchiudevo gli occhi, fino a quando non riuscivo più a vedere le luci e mi isolavo per non sentire nemmeno più i suoni. Non ero un pavido, ma solo un sognatore, ho sempre pensato che dentro un sogno ci si può salvare. Ora gli anni sono passati e io sono cresciuto, come un seme che è stato seminato, il mio tempo ha spaccato la terra petrosa. Sono sempre stato immerso nei miei sogni, quel che era solo un pensiero, si trasformava in una apparenza che per me era veritiera, brillante e corretta. La prima ragazzina che mi piaceva aveva i capelli lunghi ed era esile e sorridente, calma e dolce. Mi piaceva di lei l'inconsapevolezza di essere bella, trovavo questo irresistibile. Non le ho mai detto tutto questo se non quarant'anni dopo. Sognavo di comperarmi un pezzo di terra e costruirmi una città solo mia con una moneta di scambio inusuale con cui avrei potuto comprarmi tutto, ma dove non c'erano necessità perché tutto era libero, non soggetto a condizioni a vincoli, né a mercificazioni. Da quel momento ho cominciato ad abitare in un mio altrove. Con Simone parlavamo delle ragazzine ma ero un “verniano” pensavo che Tutto ciò che qualcuno può immaginare, altri potranno trasformarlo in realtà.
Valter D'Angelillo
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