Bologna, 7 agosto 1321, domenica.
Jacopo Lamberti sentì una mano posarsi sul suo braccio. — Anche tu qui a goderti un po' il fresco sotto gli alberi? Jacopo si voltò sorpreso, aveva riconosciuto quella voce. — Matteo! — rispose contemplando il giovane slanciato che non vedeva dai tempi in cui aveva abbandonato gli studi. Sotto le fronde dei rari alberi rimasti nel centro cittadino, nella piazzetta della cattedrale di San Pietro, il calore del sole sembrava appena più sopportabile rispetto a dove lui abitava. Jacopo si alzò in un balzo dalla panca di marmo, vestigia forse di un tempio pagano, contento di riabbracciare l'amico. Poi l'allontanò da sé, rimirandolo di nuovo compiaciuto. Matteo non era cambiato, l'espressione irradiava sempre la stessa insuperabile fiducia e simpatia di due anni addietro. Assomigliava a un cavaliere, anche per le sue origini non italiane, ma francesi benché fosse nato e cresciuto a Bologna. I suoi capelli biondi avrebbero suscitato l'invidia di ogni dama desiderosa di conferire alla sua chioma un colore come il suo. Il taglio a scodella, all'ultimo grido, si accompagnava al viso perfettamente rasato, liscio come quello di un infante. E il suo apparire elegante, motivo per cui certe volte lo aveva canzonato, si completava in un farsetto corto, su una camicia sottile, stretta in vita dalla cintura, e in un paio di calzebrache aderenti lunghe fin al ginocchio per andare incontro al caldo. Jacopo gli diede un leggero buffetto sul petto: — Quanto tempo è passato! Ricordi i danni che combinavamo insieme? Matteo sorrise: — Bien sûr! Come scordare il più grande impiastro dal cuore d'oro che abbia incontrato? Tu e Niccolò siete stati gli unici a partecipare al funerale di mia madre. — Tutti abbiamo perso qualcuno — lo confortò Jacopo, rammentando quanto Matteo le fosse affezionato. Del padre, sapeva solo che era morto prima ma non in quali circostanze. — Già — annuì Matteo, poi fece correre lo sguardo sulle strade intorno, colme di persone malgrado l'arsura esagerata. — I preti dicono che quest'estate infernale è colpa nostra ed è il segno che la fine del mondo è vicina. Tu come la vedi? Jacopo si strinse nelle spalle. — Lo sai, non sono un tipo intelligente. Però credo che verrà l'inverno, come ogni anno. Nello sguardo di Matteo Jacopo colse un'ombra, ma non pareva legata a quelle paure. C'era dell'altro e non era da lui. Con aria dubbiosa si grattò la testa. — Che fai di bello? Matteo lo guardò in ansia. Sembrò avesse voglia di dirgli qualcosa, ma non riuscì a trovare il modo di far uscire le parole. — E tu? — domandò, non avendo di meglio da offrirgli. Questa volta, fu Jacopo a sorridere. — Circa un mese fa, sono stato nominato Vicario di Giustizia, alle dipendenze del Capitano del Popolo. Ora mi occupo di far rispettare le leggi. — Se non erro, bisogna essere guelfi iscritti a un'arte — ribatté Matteo. — Tu non appartieni a nessuna Società, come hai fatto a farti eleggere? — Mio padre sedeva nel Consiglio degli Anziani, quindi soddisfo il primo requisito. Per il secondo, invece, a decidere per me sono stati i fatti. Matteo incrociò le braccia in chiaro gesto di sfida. — Oh bella, questa la voglio proprio sentire. — D'un tratto, sembrò lo stesso tipo scanzonato e irriverente che Jacopo conosceva. Se c'era qualcosa che lo differenziava dalla maggioranza del persone era proprio quella. A Jacopo era sempre piaciuto. — Rammenti questa primavera, quando fu condannato e poi giustiziato Juan de Valencia, lo studente accusato di aver rapito la figlia di uno dei capofila dei guelfi neri di Bologna? Matteo spostò il peso sull'altra gamba. — Sì, scoppiò la rivolta. Gli studenti minacciarono di lasciare gli studi in città e di trasferirsi altrove. Il pretore, che decretò la pena, dovette scusarsi e il Podestà penò non poco per far rientrare i tumulti. — Ecco — confermò Jacopo. — Io faccio parte di quegli accordi. Le associazioni degli scolari non si fidavano, per cui pretesero un esterno agli uffici pubblici che li rappresentasse. Qualcuno, non so chi, fece il mio nome, e quindi eccomi qui. — Perché tu studiavi astrologia criminale allo Studium? — Precisamente, e perché avevo scovato il ladro dei libri di grammatica ed epistole del maestro Giovanni del Virgilio. — Quella storia fece molto rumore, fu un altro maestro? — Sì, un suo rivale, un repetitor di lettere e grammatica. Matteo fischiò piano, in assenso. — Fu un bel risultato! Jacopo si limitò ad annuire ma ne era ancora soddisfatto. Per alcuni aspetti era risultata la sua investitura ufficiale. Gli tornarono in mente molte immagini dell'ultimo anno che frequentava lo Studium e di quando seguiva le assemblee degli studenti di filosofia, medicina, notariato e retorica negli accesi incontri nel convento della basilica di San Francesco. Altri gruppi si riunivano in San Domenico, e altri ancora, in maggioranza stranieri, avevano scelto invece San Procolo. A quei raduni aveva conosciuto Matteo e anche Niccolò. Entrambi erano allievi del magister Mondino de' Liuzzi. Matteo diede un'occhiata nervosa in giro. Era la seconda volta e Jacopo non poté far a meno di notarlo. Accanto a loro, la gente continuava ad andare e venire lungo le vie trafficate. Era un pomeriggio di un giorno di festa, si trovavano non lontani dal centro cittadino, normale che vi fosse quella folla. Ognuno vestiva in modo pratico, in base alle sue finanze. Dall'abbigliamento, era evidente il diverso decoro tra poveri e ricchi. Ciò nonostante, quest'ultimi, volendo dar sfoggio di distinzione, erano anche quelli che pativano di più il bollore. Gli appartenenti al popolino non si facevano problemi di girare mezzi svestiti, o comunque con gli abiti di sopra molto aperti. I benestanti invece, per non prendere troppo sole sulla pelle, passeggiavano piuttosto coperti e sotto quei loro vestiti costosi dalle stoffe e dalle finiture pregiate, cariche di orpelli, dovevano sudare come somari legati a una macina del grano. Quelli che sembravano concludere i migliori affari erano tuttavia i ragazzini, seminudi dalla cintola in su, che giravano con due secchi appesi a un bastone sulle spalle e chiamavano coloro che volevano dissetarsi, ovviamente dietro compenso. Jacopo scosse la testa per niente stimolato, sotto un cielo azzurro compatto che sembrava opporsi a qualunque nuvola. L'acqua nei secchi doveva essere stantia come urina e ne aveva forse lo stesso sapore dato che non esistevano sorgenti in città e i modi per rinfrescare i liquidi erano del tutto inutili. L'unico rimedio era trovare un po' d'ombra, come aveva fatto lui, in attesa che il tempo passasse e venisse il tramonto. Questo, finché non era giunto Matteo coi suoi imbarazzi. — Per rinfrescarci dovremmo fare un bel tuffo nel Reno! Ci fu una pausa. Matteo non raccolse la sua esortazione. Ai vecchi tempi, avrebbe aderito al volo, senza pensarci. D'un tratto apparì assente, come se la testa fosse altrove, tuttavia si riscosse, perché si era accorto che lo stava fissando preoccupato. Restò immobile, il volto incupito. — Forse un'altra volta. Però, mi ha fatto piacere vederti. Jacopo non fu felice della risposta ma gli strinse la mano. — Certo, per qualsiasi cosa possa servirti sai che ci sono. Matteo ricambiò la sua stretta, ansioso solo di andarsene. Jacopo pensò di avere detto o fatto qualcosa di sbagliato. Matteo si scusò. — Mi spiace di non poter restare però è un brutto periodo per me. Anzi, uno dei peggiori a dirla tutta. Dietro a loro, due anziane popolane avevano adocchiato la panca rimasta libera e avevano provveduto a sedersi, senza tante cerimonie, continuando a conversare tra loro. Jacopo colse la scena con la coda dell'occhio tuttavia era Matteo a dargli da riflettere. Qualcosa gli guizzò nella mente. Continuò a stringere il palmo dell'amico senza mollarlo. — Davvero, devo andare! — insistette Matteo, provando a liberarsi, ma Jacopo non lasciò la presa che lo attanagliava. — Non me la dai a bere — lo ammonì. — Cosa succede? Matteo lo scrutò con espressione impaurita. Jacopo notò che non riusciva tenere fermi i piedi dentro ai calzari a punta. Sembrò un animale preso nella tagliola di un cacciatore. — E va bene — gli disse poi remissivo, chinando il capo. Jacopo sciolse la stretta. Il volto di Matteo era tirato sotto i capelli accuratamente tagliati, e gli occhi ora gli apparivano infossati come per una grande stanchezza cosa che prima non aveva colto. Pure i suoi abiti sembrarono più ampi del dovuto come se Matteo si cibasse poco e male, e oltretutto da tempo. — Jacopo, sono in pericolo! Qualcuno mi sta seguendo, forse da giorni. Non so chi sia ma so che vuol farmi del male, e magari anche uccidermi. Jacopo lo tirò in disparte, sorpreso da quella rivelazione. — Ma di che stai parlando? Perché qualcuno ti vorrebbe morto? Cosa hai fatto? Matteo lo scrutò con occhi ansiosi, sempre più impauriti. — Non qui. C'è troppa gente, e troppi orecchi indiscreti. ...
Francesco Grimandi
Biblioteca
|
Acquista
|
Preferenze
|
Contatto
|
|