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Autore: Silvia Corradi
Un segreto nel buio
Giallo
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Un segreto nel buio
L'autunno con il suo arrivo aveva fatto cadere le foglie dagli alberi rendendo la terra umida e fangosa. All'orizzonte grandi nuvoloni grigi e cupi minacciava      pioggia. Il cielo arrabbiato stava per scagliare la sua ira sulla città rendendo quel luogo ancora più oscuro.
In una casa diroccata e silenziosa, situata nel mezzo della fitta foresta, si trovava una ragazza. Stesa su uno lurido materasso in una delle tante stanze fatiscenti della casa. Si girava nel vano tentativo di trovare una posizione più comoda, ma più si muoveva più l'umidità la colpiva come una scossa di elettricità lungo tutta la schiena. Anche il solo semplice gesto di respirare le faceva provocare uno spasmo di dolore. L'aria pungente che aspirava dal naso le entrava nei polmoni travolgendola come un treno in corsa. Ogni minimo spostamento era un dolore lancinante che soffocava con un gemito seguito da una lacrima che fatica a scendere.
Indossava una felpa logora e un paio di jeans così grandi che a ogni movimento deve tenerli con la mano per non farli scendere. Ai piedi un paio di calzini sporchi e bucati. Niente scarpe. All'inizio le aveva, poi lui gliele portò via.
A un tratto provò ad aprire gli occhi e con grande fatica cercò di mettere a fuoco ciò che la circondava per scoprire il luogo in cui era rinchiusa. Nell'angolo di sinistra, legato con una catena a un palo, c'era un secchio di ferro. L'odore di urina proveniente da quel punto della stanza le diede subito un senso di vertigine. Il tentativo fallito di scacciare quel disgusto le procurò un rantolo forzato che le fece socchiudere gli occhi per pochi istanti. Quando subito dopo li riaprì, il suo sguardo si posò sul lato opposto dove stazionavano due ciotole. Entrambe vuote.
Al centro della stanza una scalinata conduceva all'unica porta che però era chiusa dall'esterno. Una volta lui l'aveva lasciata aperta, magari per sbaglio o forse per vedere come lei avrebbe reagito. In quel momento non si era chiesta se fosse un test per vedere la sua reazione. Non le interessava saperlo. Voleva andarsene. Attese qualche istante, poi vedendo che non tornava a richiuderla si fece coraggio e con uno scatto salì le scale e uscì di corsa.
Non fu una fuga lunga e combattiva. La trovò praticamente subito lasciandola senza cibo e acqua per un tempo che a lei sembrò infinito. Fu la prima e unica volta che ci provò. Tentare di scappare adesso sarebbe stato un suicidio. E più il tempo passava, più si sentiva debole e disillusa. Sapeva di non avere alcuna possibilità di uscire da quel buco schifoso e rimanere inerme in attesa le sembrava l'unica soluzione. 
Con il passare dei giorni però si rese conto che stava accadendo qualcosa di strano. Non lo vedeva da troppo tempo e iniziava ad avere veramente fame. Lo stomaco le si contorceva e iniziava anche ad avere le allucinazioni. Sentiva dei cani abbaiare in lontananza, cosa praticamente impossibile. Sapeva che in quel posto sperduto nel bosco c'era solo lei e una foresta infinita.
Pensò che forse lui si era stancato della sua presenza e aveva deciso di lasciarla lì a morire di stenti, questa volta per davvero. La lasciava senza viveri solo se non gli obbediva, come una sorta di castigo. Dal tentativo di fuga però si era comportata bene ed era stata buona e tranquilla per evitare di farlo innervosire. Quindi perché punirla?
Non aveva un orologio e non essendoci finestre o altri spiragli da dove la luce del sole potesse entrare, non aveva idea di quanto tempo fosse passato. Potevano essere passati alcuni giorni o forse settimane. All'inizio aveva provato a stabilire l'orario in base ai pasti. Le portava del cibo due volte al giorno quindi aveva ipotizzato che potesse essere pranzo e cena. Poi, dopo aver tentato la fuga, ogni possibilità di deduzione del tempo trascorso, svanì. Nel momento in cui era ritornato con il cibo, aveva così fame da dimenticarsi di tutto decidendo una volta per tutte di obbedire senza batter ciglio.
I giorni passavano senza che succedesse alcunché. Non le chiedeva di fare niente, non le parlava nemmeno. Ma allora a quale scopo tenerla prigioniera? E perché proprio lei? Non apparteneva a una ricca famiglia e se pensava a un possibile riscatto si sbagliava di grosso. Non aveva mai conosciuto i suoi genitori. Era cresciuta in una casa famiglia nel Connecticut, e una volta compiuti diciotto anni era andata a vivere a New York.
Viveva una vita semplice. Faceva due lavori per poter pagare affitto, bollette e cibo. Lavorava da Starbucks durante il giorno e la sera come cameriera in un ristorante italiano a Little Italy. Tre volte a settimana seguiva anche dei corsi di studio. Non era mai riuscita a finire il college e con quelle lezioni avrebbe provato a laurearsi. Voleva una vita migliore, un lavoro migliore e una casa calda dove potersi rilassare alla fine della giornata. Quella in cui viveva adesso si trovava a West Brooklyn e la divideva con altre due ragazze. La laurea le avrebbe aperto nuove possibilità di lavoro nel campo della moda. Le piaceva disegnare e aveva già creato alcune bozze di abiti e accessori. Le sarebbe piaciuto un giorno poter concretizzare quei disegni. Era chiaramente un sogno e adesso che si trovava rinchiusa in un lurido scantinato, quell'idea si allontanava sempre di più. Come aveva fatto a cacciarsi in una tale casino? Era stata colpa sua? Aveva fatto un torto a qualcuno? Cosa poteva aver mai fatto di così terribile da poter meritare quella fine? Non riusciva a spiegarselo.
L'unica cosa che sapeva però è che probabilmente nessuno l'avrebbe cercata. Perché avrebbero dovuto? Il pensiero che le uniche persone che si sarebbero accorte della sua assenza sarebbero stati i colleghi di lavoro, la intristiva. Non c'era un fidanzato che l'aspettava a casa. Aveva frequentato un ragazzo per qualche mese, poi lui l'aveva lasciata e da quel momento non aveva avuto altre relazioni. Era delusa per come si fosse conclusa quella relazione, ma con il tempo si era resa conto che in fondo il sentimento che c'era tra loro non era poi così forte.
Adesso rinchiusa in quel buco si sentiva spacciata. Rinchiusa da un uomo che non aveva mai visto prima. Un uomo che l'aveva rapita all'improvviso, narcotizzandola per poi scaricarla in quella gabbia senza luce. Da quel giorno per lei era iniziato l'incubo.
 
Un leggero spiraglio di luce entrò dalla finestra della camera illuminandole il viso. Il suo sonno era pesante, profondo e quando la sveglia suonò la fece sobbalzare. D'istinto allungò una mano per spegnerla e quando smise di suonare si girò dall'altra parte per riprendere sonno. Pochi istanti dopo però un nuovo e incessante segnale, diverso da quello precedente, invase la stanza. Compì lo stesso gesto e spense anche il secondo allarme. Non aveva alcuna voglia di alzarsi, ma quando anche il campanello di casa iniziò a farsi insistente capì che non aveva scelta.
Con la vista offuscata dalla nottata appena trascorsa e i piedi striscianti, si diresse verso l'ingresso.
- Sto arrivando! - urlò la donna.
- Lo sai che ore sono? - le chiese un ometto calvo e tarchiato che si trovava davanti non appena aprì la porta. 
- No... io... - biascicò.
- Sono le otto e trenta del mattino e tu sei ancora in pigiama. Abbiamo      appuntamento con Hernandez e sai che non gli piace aspettare. -
- La riunione è alle dieci, perché tanta fretta? - domandò la donna stropicciandosi la faccia.
- Il vice direttore esporrà un caso importante. Dobbiamo essere i primi ad arrivare. -
- Va bene, dammi dieci minuti per prepararmi. Farò colazione in ufficio. -
Con un gesto frettoloso della mano lo invitò a      entrare e senza voltarsi si precipitò nell'altra stanza. In un attimo dal bagno iniziarono ad arrivare il suono dell'acqua che scorre e altri rumori frettolosi. Nel frattempo l'uomo perlustrò la casa con lo sguardo nella vana ricerca di un posto dove sedersi. Era abituato al suo disordine, ma in quel momento la confusione nella casa era ai massimi storici. Non c'era una sola cosa al suo posto. I vestiti erano sparsi tra il divano e le sedie. Nel lavandino giacevano accatastati l'uno sull'altro i piatti sporchi e accanto ad essi un vecchio cartone di pizza semi vuoto. Il bidone dei rifiuti era così sazio da non riuscire a tenere sopra di sé il coperchio.
Alla vista della confusione che regnava nell'appartamento, l'uomo stava per avvicinarsi al sacco dell'immondizia per soccorrerlo, quando la donna lo raggiunse.
- Smith, sono pronta. Andiamo? - disse, affannata. 
- Miller, la tua casa è un casino. Come fai a vivere così? -
- Mi dispiace, ma io non ho una moglie come te che riordina la casa mentre sono al lavoro. Vivo da sola e quando ho tempo metto in ordine - gli rispose strizzando l'occhio - forza, andiamo. Non vorrai mica arrivare in ritardo! - esclamò uscendo.
Una volta in taxi iniziarono a riflettere pensando a quale potesse essere il caso tanto importante che il vicedirettore voleva proporre a entrambi. I due erano colleghi da quasi tre anni e anche se avevano idee di vita diverse, in ambito lavorativo andavano molto d'accordo. Erano amici e complici.
Greg Smith marito e padre devoto, nonché grande giornalista investigativo. Per anni aveva lavorato presso un piccolo giornale di provincia, dove si occupò di semplici casi di rapina. Un giorno però gli venne affidato un caso importante e scrisse un pezzo riguardo un omicidio su cui lui stesso aveva indagato insieme alla polizia. L'articolo finì tra le mani di Diego Hernandez, vice direttore del New York Daily News famoso quotidiano della grande mela e da quel momento iniziò la loro collaborazione. Fu presto coinvolto in casi di grande spessore, omicidi efferati che gli diedero fama e rispetto da parte di molti colleghi. Per anni si era dato da fare, chino sulle pagine di cronaca, passando notti in bianco sopra fogli d'inchiostro nero. Ora però si sentiva vecchio e vedere che il digitale stava prendendo il sopravvento, gli fece capire che era arrivato il momento di lasciare spazio ai giovani. Si disse che sarebbe andato in pensione, ma solo nel momento in cui avrebbe trovato una persona così in gamba da prendere il suo posto. L'avrebbe scelta lui, personalmente. Così un giorno incontrò Elisa Miller. Un vero disastro. La conobbe nell'archivio del giornale, nella sezione di criminologia. Entrambi stavano facendo delle ricerche. Lei circondata da riviste, fogli e carte di merendine. Lui preciso e ordinato in un angolo della scrivania. Non potevano essere più diversi, ma qualcosa in quella ragazza lo aveva attirato nella sua direzione.
Ogni tanto gli capitava di avere una sorta di sesto senso. Gli capitava spesso mentre era nel pieno delle sue indagini, ma a volte gli succedeva anche con le persone. Non sapeva spiegarlo. L'unica cosa che però sapeva era che doveva parlare con quella ragazza. In quell'occasione le si avvicinò e si presentò. Parlarono a lungo e alla fine di quell'improvvisato colloquio di lavoro, lui le chiese di collaborare. Elisa non se lo fece ripetere due volte. Lavorare con Greg Smith era un privilegio, soprattutto per una neo laureata con una grande voglia di imparare.
Alla fine lui non andò più in pensione, anzi, l'affiancamento della giovane gli diede una carica in più. Tre anni dopo divennero una coppia giornalistica di tutto rispetto.
- Cosa sai del nuovo caso? - chiese Elisa.
- Praticamente niente. -
- Non mi dire che Hernandez non ti ha anticipato niente al telefono? -
- Niente di niente. - disse sorridendo Greg.
- Non so come mai, ma non ti credo. -
Lui si prese qualche secondo per riordinare i pensieri, poi si voltò verso di lei.
- Elisa, devo dirti una cosa. -
- Quando mi chiami per nome c'è qualcosa che non va. Avanti, spara! -
- Dopo questo caso andrò in pensione. -
Elisa incrociò il suo sguardo e in un attimo scoppiò a ridere.
Era abituata a sentire quella frase prima di iniziare un nuovo caso. Anni passati ad ascoltare quelle stesse parole che poi non si concretizzavano mai. Ormai lo vedeva come una sorta di gesto scaramantico. Andrà tutto bene e quando il caso si concluderà andremo tutti a festeggiare. Dopotutto le piaceva sentirgli pronunciare quelle parole. Se non le avesse detto forse gli sarebbe mancato qualcosa.
In quell'occasione però percepì qualcosa di diverso. Lui non aveva riso insieme a lei, anzi era rimasto in silenzio con un velo ombroso sul volto.
- Elisa, questa volta faccio sul serio - disse - Mia moglie mi ha dato un ultimatum. Sono anni che le faccio le stesse promesse, parole che poi non mantengo. Le aveva assicurato una casa in Florida dove poter stare insieme, dove i nostri nipoti avrebbero trascorso le vacanze. Questa deve essere la volta buona, altrimenti rischio che lei se ne vada davvero in Florida, ma senza di me. -
Nel taxi calò il silenzio. I due si fissarono negli occhi per qualche minuto senza dire niente. Lo sguardo calmo e sicuro negli occhi di Greg colpì in pieno le certezze di Elisa. Voleva davvero chiudere quel capitolo della sua vita. Ne avrebbe aperto uno nuovo in un posto dove fa sempre caldo e il sole splende per undici mesi l'anno. Chi poteva biasimarlo?
Elisa attese un istante, poi provò a dire qualcosa, ma aveva la gola secca. Si schiarì la voce e nel pronunciare quelle parole si rese conto che le note le uscivano tristi come in una canzone d'addio.
- Non so se posso farcela. Sei sempre stato un punto di riferimento per me. - disse Miller.
- Certo che ce la fai. Hai idea di quante cose hai imparato in questi anni? -
- Ma...io... -
Elisa provò a biascicare qualcosa, quando il taxi si fermò.
- Siamo arrivati. Approfondiamo l'argomento in un altro momento, ok? - disse Greg con un sorriso incoraggiante posandole una mano sull'avambraccio.
Lei rispose con un cenno del capo tentando di ricambiare quel sorriso.
Scese dal taxi con lo sguardo chino e mentre camminava tra i corridoi della redazione, Elisa non riusciva a smettere di pensarci. Smith lo aveva sempre considerato come un secondo padre. Colui che le aveva insegnato tutto a livello lavorativo. E se solo quel giorno non fosse arrivato e l'avesse trascinata via da quella scrivania disordinata, a quest'ora probabilmente starebbe scrivendo necrologi sull'ultima pagina di un quotidiano di provincia. Ogni caso a cui avevano lavorato insieme erano stato per lei un enorme fonte di insegnamento. Con il  solo pensiero che quello sarebbe stato l'ultimo, una sensazione di vuoto la travolse.    

Silvia Corradi

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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