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Autore: Massimo Berti
I baci del buio
Thriller Psicologico
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I baci del buio
Lui mi veniva a prendere quasi ogni sera, sapeva che la mamma lavorava fuori, che faceva del bene a quell'oretta, alle persone anziane, dove hanno bisogno, che non stanno bene.
Ma a lui quel tempo bastava, sapeva anche che mio padre abitava in un altro mondo e che non c'era mai.
Entrava nella mia stanza e mi svegliava.
«Dai, che giochiamo un po' anche stasera», mi sussurrava con la delicatezza di chi vuol convincere un bambino che il male è bene. E mi portava di là, dove io però non mi divertivo perché non capivo mai il gioco, con quella videocamera sul tavolo che registrava tutto, quella dei filmini delle vacanze.
Mark voleva bene alla mamma, viveva con noi e lei sapeva che ero al sicuro, con lui, quando andava a lavorare la notte dall'altra parte del mare.
Di quei momenti ricordo che non provavo niente, sapevo che tanto prima o poi finiva, ricordo solo che lui respirava più forte, che sapeva di tabacco marcio e che odiavo quella puzza come quel deodorante che aveva e che non mi faceva respirare.
Mentre lui giocava con me, guardavo Tommy che mi osservava in silenzio, con quel suo bel collare luminoso, il mio orso di peluche enorme, il mio preferito e io, quando potevo, passavo sempre la giornata tra le sue grandi zampe e mi sentivo al sicuro, era il mio rifugio.
Guardavo dalla finestra anche l'uson da vicino e mi piacevano tutte quelle luci, sull'acqua buia, e gli archi neri sui muri bianchi illuminati, proprio dall'altra parte.
Poi il gioco finiva, Mark smetteva di respirare forte e tornava a essere il solito Mark, mi accarezzava e mi riaccompagnava nel mio letto, cantando una canzoncina dalle parole strane.
«Ormai sei grande, è un segreto tra noi, tra grandi! Mi raccomando!» – Mi ripeteva ogni volta prima di darmi il solito premio, quel cioccolatino col croccante dentro che piaceva a tutti i bambini.
Sapevo persino dove teneva la scatola e qualche volta, quando lui non c'era, gliene rubavo di nascosto qualcuno, lui non si accorgeva nemmeno.
Poi un giorno tutto è finito, non ricordo quando, o dopo quanto tempo; lui è scomparso, non ha più abitato con noi, non l'ho più rivisto.
Ricordo che mamma gli urlava e lo voleva via e l'ha cacciato di casa, ma non è stato per colpa mia che litigavano perché io quelle cose alla mamma non gliele ho mai dette, davvero.
Dev'essere stato per un altro motivo, che non si volevano più bene.
Però mentre lei lo sbatteva fuori tra gli urli, la scatola dei cioccolatini nel comodino ho fatto a tempo a rubarla! Ah sì! Con le sue sorprese dentro... C'era pure un disco lucido, con un buco in mezzo, io ci mettevo dentro il dito e lo facevo girare, lo usavo come specchio.
Ora però basta, che ne dici? Ti ho raccontato abbastanza, vero?
Mhmm... Era per farti capire chi sono, mi piacerebbe che mi riconoscessi, dopo tutti questi anni... Ma penso di no. Peccato.
E comunque di sicuro stai capendo cosa voglio da te.
Perché adesso sono grande e adesso faccio io il mostro.
Adesso sono io che sturpo, strupo. Come si dice? Ah, storpio, forse! No. Cavolo, quella parola non me la ricordo mai, è una parola difficile per i bambini!
Dai, aiutami a dirla bene.
Ah, dimenticavo che non puoi parlare, scusa.
Beh, insomma guarda qui sotto le mutandine che bella sorpresa ho per te! Non te lo aspettavi, eh? Ti farò tanto male.
Hai paura ora, vero? E tanta, anche, si vede.
E fai bene ad averne, perché sì, perché adesso comincio.
E adesso tu muori. 
*******

La luce del bagno balbettò il solito cicalio tentennante prima di illuminare con sicurezza la piccola stanza.
Funzionava così quella lampadina, da anni, sempre sul punto apparente di cedere, ma mai fulminata.
La prima immagine che gli apparve fu quella del proprio volto riflesso sullo specchio sopra il lavabo.
Era lui, non vi era dubbio, ma quanto diverso dal solito, con quegli occhi fissi sui propri e con tutto quel sangue addosso, irregolare negli spruzzi, su zigomi e orecchie, tra i capelli.
Non provava dolore, perché sapeva che quelle chiazze scure che andavano rapprendendosi non appartenevano a lui.
Lasciò cadere in terra la parrucca bionda che aveva stretta in mano, dai capelli lunghi e intrisa anch'essa di rosso.
Com'è semplice, pensò in quell'attimo, scalfire le difese di uomini, anche sospettosi, e abbatterne la prudenza con l'esca di poter soddisfare un qualche appetito che sappia di proibito.
E cosa, di più proibito, tra le fantasie erotiche ricorrenti per certi porci, se non l'approccio con un possibile transessuale? Sarà o no meglio di una donna? Ce l'ha ancora o gliel'avranno tagliato?
Idioti.
Sorrise con il pensiero all'idea di tanta dabbenaggine e restò paziente in attesa, qualche secondo, che i battiti del cuore decelerassero e che il respiro si normalizzasse. Solo allora abbassò lo sguardo per ispezionare tutto il resto del corpo, poi schiena e spalle, di nuovo attraverso la simmetria del vetro innanzi a lui, finché il perimetro della cornice lo avesse consentito.
Il sangue era anche sull'abito, sugli avambracci. E alcune macchie, di cui percepiva la presenza con la coda dell'occhio, non avevano risparmiato di tingere caviglie e scarpe.
Aveva appena ucciso, quella notte, ne era consapevole.
E la vittima aveva sofferto molto prima di congedarsi da questa terra, perché così lui aveva deciso, così aveva premeditato nelle settimane precedenti. Questo, e nient'altro, aveva stabilito che fosse l'orrido obolo da saldare.
Prese ulteriore fiato, socchiudendo gli occhi, stazionando nella quiete, quasi cercasse di ritrovare la migliore concentrazione e rivivere l'esaltazione.
Nessuno lo aveva notato, malgrado il sangue, perché il piano era stato perfetto, minuziosamente ipotizzato in ogni dettaglio e previsto in ogni possibile variabile.
Del resto, non era la prima volta che uccideva ed era una sua radicata convinzione che l'abilità di cui si era impadronito fosse ormai sfociata nel cosiddetto delitto perfetto. Peccato solo non potersene vantare con anima viva.
Lasciò che l'acqua corrente liberasse prima le mani, i polsi e poi il viso, che trascinasse quelle scorie di rosso verso il piccolo gorgo dello scarico, finché sul fondo del lavabo non rimasero che bolle azzurrastre di sapone.
A quel punto fu il turno degli indumenti, riposti con cura a mo' di fagotto all'interno di una cesta con coperchio, insieme alla parrucca. Non c'era ragione, in piena notte, di suscitare curiosità o, ancor peggio, sdegno da parte dei vicini con il rumore di una lavatrice in funzione all'improvviso.
L'indomani mattina avrebbe completato l'opera.
Fu quindi il turno della doccia, il cui getto avrebbe deterso in breve ogni residua traccia dell'accaduto dal suo corpo.
Provò un rinnovato senso di eccitazione, mentre l'acqua tiepida crepitava sul cuoio capelluto, ricadendo frizzante sul piatto ai suoi piedi.
Un'eccitazione che non era sessuale, ma la cui sensazione le si avvicinava parecchio: quella di chi aveva appena operato nel giusto e che si mescolava al ricordo fresco di quanto compiuto.
Ogni attimo si stava riattualizzando sensorialmente daccapo.
Rivide e rivisse tutto, tra i vapori che si aggrappavano densi alle vetrate del box: le grida della vittima, quelle di chi poteva urlare solo nel silenzio degli occhi sbarrati, visto il bavaglio che a malapena gli consentiva di respirare; le inutili richieste di pietà, implorate attraverso la tensione dei muscoli costretti all'immobilità da potenti lacci; i fendenti dell'acciaio che affondavano ovunque nella carne, tra le ossa, con la sadica, ripetuta perizia di chi non vuole ancora uccidere ma solo tormentare all'inverosimile; poi il colpo finale, ai genitali, quello mortale, quello che avrebbe generato il dissanguamento decisivo, con lui in piedi a osservare il porco agonizzare per minuti prima di spegnersi tra dolori e fiotti di sangue; zampilli sempre meno copiosi fino a cessare, fino a certificare lo svanire della vita.
Perché di un porco si era trattato e dei peggiori. E lui era stato solo il suo meritato giustiziere.
‘Un uomo di merda in meno su questa terra' – si stava ripetendo nel silenzio dei suoi pensieri mentre il getto dell'acqua cessava obbediente non appena agito sul relativo pomello.
Indossò l'accappatoio e frizionò frettolosamente con un telo i capelli umidi.
Appena in tempo.
«Papà, perché fai la doccia a quest'ora?»
‘Diavolo, mia figlia sveglia!'
Questo sì, non se lo aspettava: il volto della sua bambina appoggiato, assonnato, allo stipite della porta.
«Amore mio, come mai non dormi a quest'ora? Qualche brutto sogno?»
Le si avvicinò di corsa inginocchiandosi in modo che la pari altezza degli occhi fosse di potente aiuto nel non palesare supremazie o imporre soggezioni.
«Mi sono svegliata e tu non eri nel tuo letto» – piagnucolò smorfiosa la piccola, con un pugno a stropicciarsi l'occhio destro.
‘Merda, non era mai capitato. Jenny dorme dieci ore di fila come un sasso, da sempre, specie con le goccette di sicurezza'.
«Amore mi spiace, papà non riusciva a prendere sonno stanotte e ha prima fumato una sigaretta qui fuori e poi si è fatto una bella doccia» – replicò lui confortato dal fatto che, se non altro, da una furtiva occhiata panoramica all'interno della stanza da bagno, nulla fosse rimasto a vista, tantomeno chiazze di sangue sul pavimento o cose del genere.
«Ho sognato la mamma e mi sono svegliata impaurita».
«Tesoro mio, immagino lo spavento, ma sappi che papà non ti ha mai perso di vista nemmeno un attimo, in realtà».
Era stato invece molto imprudente, un dettaglio drammaticamente non calcolato, altro che delitto perfetto. La prossima volta avrebbe dovuto agire in modo ancora più accorto, perché la sua missione non era terminata e ci sarebbe stata una prossima volta.
«È stato davvero brutto, sai papà? Il sogno sulla mamma che non c'è più...»
«Lo so e capita spesso anche a me, ma ti prometto che non permetterò più che ti svegli senza trovarmi lì vicino, anche se stasera ero solo nella stanza accanto» – la prese in braccio e la strinse forte.
«La mamma mi manca tanto e io sono ancora piccola... A sette anni le bambine hanno bisogno della mamma. Quell'incidente con la macchina... È un sogno orribile e io lo faccio spesso».
«La mamma manca tanto anche a me, Jenny. Tantissimo. Ma stai sicura che lei ci guarda e ci protegge dal cielo. E non vorrebbe vederci tristi. Magari in questo momento è proprio qui, vicino a noi, anche se non possiamo vederla, sai? E ti sta accarezzando e baciando».
Spense la luce del bagno e, con la figlia in braccio, si avviò verso la stanza da letto, verso quel matrimoniale vuoto per metà ormai da tempo.
«Dormi con me stanotte, okay? Che ne dici, Jenny?»
La bimba annuì, con un cenno della testa saldamente riposta sulla spalla del padre.
«Papà...» – aggiunse, a stento, una volta coricata sotto il lenzuolo, con gli occhi già intrisi appieno di sonno.
«Perché tutti ti chiamano Lupo?» 
*******

La polizia era già al lavoro, quella primissima mattina, una come tante di quel maggio a New York, in quel quartiere riservato alla residenza dei soli ricchi dove l'eccesso riguardava spesso lo sfoggio ma mai la morte violenta.
L'allerta era arrivata da una signora che, seppur in preda al panico per lo spavento, era riuscita comunque a sillabare al 911, tra gemiti di pianto, gli estremi dell'indirizzo.
Il caso aveva voluto che una pattuglia della NYPD fosse di stanza proprio sulla Central Park West. Per cui, nel giro di qualche decina di secondi, le confortanti luci rosso blu alternate avevano raggiunto ululanti la lussuosa villetta a tre piani che si affacciava poche traverse più avanti, sulla 89th West Street, unica costruzione di colore bianco avorio tra le altre a schiera marroni o grigie.
Gwen, la signora dai tratti gentili e asiatici, non più giovanissima, che aveva effettuato la telefonata, tremava ancora come una foglia davanti agli agenti, avvolta in una coperta offertale da un vicino e confortata dall'abbraccio di alcuni passanti.
Erano stati proprio questi ad averla soccorsa e assistita mentre, terrorizzata e priva di autocontrollo, stava rischiando di essere investita dalle auto in transito; e che avevano indicato ai poliziotti la via di accesso all'abitazione, ancora spalancata. La donna, come ogni mattina, vi si era recata per le usuali faccende domestiche.
Nel giro di pochi minuti, le Chevrolet bianco-azzurre a presidio della zona si erano moltiplicate e il quartiere brulicava in quel momento di divise blu scuro e di recinzioni in nylon a transennare di bianco-rosso la scena del crimine.
Curiosi armati di ipotesi fantasiose sull'accaduto e di cellullari alla ricerca di possibili scatti scoop si stavano addensando senza capire cosa fosse successo ma intuendone una evidente gravità.
Da una delle tante auto di servizio, accorse sul posto, scese anche Helena Ford, la detective incaricata di seguire il caso.
Notò anch'ella la domestica asiatica che immaginò avesse effettuato la macabra scoperta. Ritenne superfluo rivolgerle in quel momento qualsiasi domanda. Era palese, dal colorito nient'affatto rassicurante e dallo sguardo fisso sul vuoto innanzi a lei, che la poveretta fosse ancora sotto choc.
Helena si schiaffeggiò una guancia, una volta fuori dall'auto, alla ricerca, vana, della prima zanzara di giornata.
Imprecò la propria stizza contro la calura di quella caliginosa mattina, con un sudore appiccicoso che la tormentava e che non pareva trovare vie di fuga tra le pieghe della divisa d'ordinanza.
Diede un'occhiata d'insieme dall'esterno, masticando un chewing gum, mentre lo scrupoloso agente addetto alla sua scorta attendeva educato il da farsi.
Fotografi e curiosi non la degnarono di attenzione. Certo, una donna non può essere un capo, sogghignò la poliziotta tra sé.
Grassoccia e di bassa statura, il viceispettore Helena Ford era invece una detective quarantenne arguta e abile tanto quanto il disordinato aspetto dei suoi capelli riccioluti e fitti e la sua uniforme senza una piega precisa mai avrebbero lasciato stimare.
Sempre pronta a ironizzare sul color carbone della propria pelle, sapeva incutere al bisogno soggezione ai colleghi della squadra che dirigeva e ne riceveva non di rado sincero e spontaneo apprezzamento, quello dovuto a chi dimostra coi fatti di trovarsi obiettivamente spesso un passo avanti.
Smise con una smorfia ironica di autocelebrarsi e tornò a concentrarsi sull'esterno dell'edificio.
L'ampia scalinata distingueva la palazzina dalle altre, al di là della diversità del colore della facciata. Era sinusoide sino al piano rialzato e non diretta, prova evidente di ulteriore distinzione sociale in quel quartiere probabilmente secondo soltanto, per valori immobiliari, alle prime file sul grande parco.
La centrale, con sede a Tribeca, sulla Leonard Street, cui la poliziotta apparteneva, non sarebbe stata in realtà competente per un caso di omicidio avvenuto nei pressi di Central Park, ma quel nuovo delitto sembrava avere tutte le caratteristiche dei tre omicidi precedenti, recenti e ancora irrisolti.
E siccome il primo di essi era avvenuto pochi mesi prima in un noto hotel ai margini del Financial District, quello sì, di certa competenza territoriale del bureau di Tribeca, ecco che anche gli altri, per collegamento e attrazione, avevano imposto il coinvolgimento della medesima squadra investigativa.
Ne avrebbe fatto volentieri a meno, Helena, specie considerando che si era insediata in quel ruolo solo da un paio di settimane, da che il vecchio Clay Morrison aveva salutato tutti e festeggiato la pensione, lasciandole quel dannato mucchio di patate bollenti.
Non sapeva granché dei delitti precedenti, ma il suo sesto senso le faceva temere che stavolta, malgrado la corposa iniezione della consueta autostima cui regolarmente faceva ricorso nei casi più spinosi, la rogna che si apprestava ad affrontare le sarebbe rimasta indigesta.
‘Merda...' – sputò il chewing gum in una carta e decise di avviarsi verso l'interno. Oltrepassò, dalle spalle e con malcelato fare di stizza, le file di fotografi che all'unisono, immaginando un qualche elemento di novità, presero a sparare raffiche strobo di flash verso la facciata dell'edificio per ritrarre quella donna in uniforme mentre vi accedeva. Da come i colleghi in divisa le facevano strada, doveva trattarsi allora, sì, sicuro, di un pezzo grosso.
Ancora il killer dei vecchi in azione! E la polizia che fa? Questo sarebbe stato probabilmente il titolo sui principali quotidiani di lì a poche ore e il giorno dopo.
E i talk show si sarebbero scatenati già la sera stessa, ci sarebbe stato davvero da giurarlo, visto che il morto, Gerard Pearson, oltre che smisuratamente ricco, come i suoi predecessori, era stavolta anche un ex politico ben noto all'opinione pubblica.
Il via vai di camici bianchi e mascherine degli agenti in guanti di lattice e copri-scarpe era continuo e, non appena nell'atrio principale dell'abitazione, Helena intuì dove si trovasse il cadavere: nell'ampio soggiorno che le si affacciava sulla sinistra.
Il giovane agente che l'aveva accompagnata continuava a non proferire parola e, rispettoso, attendeva istruzioni. Ma era palese, dal suo colorito sempre meno roseo e dal continuo deglutire in un'abbondanza di sudore, che non avesse dimestichezza con i cadaveri e che quel brutale caso, perché brutale era stato di sicuro, potesse anche essere il primo ammazzamento in assoluto cui quella recluta stava per assistere.
«Aspettami qua – gli ordinò Helena, comprensiva, che nemmeno ne conosceva il nome – e assicurati che nessuno di quei coglioni lì fuori si infili con una macchina fotografica o un cellulare anche a costo di sparargli» – scherzò in un rassicurante strizzare d'occhio.
Il ragazzo accennò un sissignore di immediata obbedienza ed Helena ne colse il sollievo prendere una boccata d'aria con il pallore che cessò quasi all'istante.
Lei, invece, di cadaveri e di morti ammazzati nei modi più disumani ne aveva visti già molti e riusciva sempre a mimetizzare, con esperienza e forzata disinvoltura, il senso di disgusto e di raccapriccio che comunque l'assaliva.
Tranne quando si trovava in presenza di piccole vittime, angeli innocenti sacrificati dalla furia suprema e folle di adulti mostruosi che nulla hanno a che spartire col genere umano. O di donne indifese, tradite per lo più dai propri stessi compagni di vita, da coloro che avrebbero dovuto proteggerle; martoriate quasi sempre per la vigliacca gelosia di cui si nutrono gli impotenti pavidi e psicotici. In questi casi, che rabbia, angoscia e desiderio di immediata vendetta non esondassero, prendendo il sopravvento su freddezza e obiettiva professionalità dell'analisi, le riusciva di rado. E chi le stava vicino se ne accorgeva.
Quel giorno, tuttavia, per la detective riccioluta fu diverso.
La scena cui infatti dovette assistere non appena affacciatasi sull'ampio salone, illuminato dai fari led della scientifica fino a far risaltare i singoli granelli di polvere, mise a disagio anche lei. Quella vista, dovette ammettere, era la più rivoltante cui avesse mai assistito durante sua carriera nella Omicidi.
Il sangue era ovunque, sul pavimento, su buona parte delle pareti e delle suppellettili, come se, prima di rapprendersi componendo una macabra rappresentazione astratta, fosse sgorgato in gran quantità e in ogni direzione fino all'ultimo spruzzo, spinto dalla pressione di un cuore all'esasperazione.
Il ronzio delle mosche era fastidioso quanto l'acufene dopo una notte in discoteca e il volteggio disordinato di quei dannati insetti indicava se non altro con chiarezza la posizione precisa del cadavere.
I flash delle varie Nikon e Canon gareggiavano nel memorizzare immagini digitali di ogni angolo della sala e alcuni agenti, che parevano contenere a malapena conati di vomito imminenti, rivolsero a Helena un faticoso cenno di saluto appena la scorsero.
Quello che restava di Gerard Pearson, settantacinque anni, giudice di nota fama, avvocato, seppur ormai non più in attività, era un corpo che nemmeno i suoi parenti avrebbero riconosciuto. Schegge di ossa e brandelli di carne erano disseminati d'intorno, tranciati di netto dal resto del tronco o rimasti ad esso attaccati per la casuale imperfezione del fendente.
Perché di fendenti si era certo trattato, un'arma da taglio dalla lama spessa, un pugnale, un'accetta. Per quel che Helena ricordava dei suoi studi in medicina legale, osservando seppur superficialmente le ferite, grandi dubbi al riguardo non potevano essercene.
Deterse la fronte con il polsino della giacca di ordinanza, ponendo temporaneo riparo al sudore e all'ansia.
Si avvicinò al corpo attenta a non contaminare la scena e desunse che l'uomo dai capelli grigi chino sul cadavere non potesse che essere l'anatomo-patologo di turno.
«Buongiorno dottoressa» – le si riferì lui non appena ne scorse la sagoma alle sue spalle con la coda dell'occhio.
«Cosa può anticiparmi dottore, per quel che vede?»
«Morto durante la notte, considerando rigor mortis e umidità, direi le due, le tre del mattino... La scoperta è stata fatta alle otto dalla donna delle pulizie».
‘La tipa asiatica seduta fuori' – fu il pensiero di Helena.
«Morto molto male – riprese il medico avvicinando lo sguardo e una piccola torcia dalla luce intensa a taluni dettagli sul cadavere – ha sofferto parecchio, apposta. L'assassino lo ha legato, imbavagliato e ha poi infierito con un'arma da taglio, parrebbe un pugnale da subacqueo o qualcosa del genere, dalla lama molto robusta. L'arma non l'abbiamo ancora trovata. Sta di fatto che gli ha procurato dolori estremi ma è stato ben attento a non ledere organi vitali finché non ha deciso di finirlo, dopo molti minuti».
«Diavolo...»
«Può dirlo forte... Gli schizzi di sangue sono ovunque perché la vittima, anche se legata, è riuscita comunque a trascinarsi. L'assassino la seguiva e insisteva... Fino ai colpi mortali».
«Come nei tre delitti precedenti?»
«Sì. La causa della morte è stata senz'altro dovuta ai ripetuti fendenti alle femorali e, naturalmente, all'evirazione».
«L'evirazione...» – anche qui proprio come gli altri.
«Un taglio netto di pene e testicoli, ma usando questa fascetta» – indicò un pezzo di metallo annodato stretto e ancora appiccicato a lembi rossi sotto l'inguine.
«Una fascetta da elettricista stretta con un tiro netto, fino a strappare» – Helena percepì il gelo di quelle sue stesse parole. Non era un uomo ma non ebbe difficoltà a immedesimarsi.
«Da idraulico, direi. Quelle da elettricista sono di plastica, questa è di metallo, più spessa, ha stretto e tagliato la carne allo stesso tempo. Direi che è morto dissanguato dopo questi ultimi colpi».
«E immagino dove siano... sì, insomma, pene e testicoli».
«Al solito. Infilati nella cavità orale una volta morto – dichiarò il medico legale – non li abbiamo ancora rimossi».
Helena spinse il palmo della mano in avanti e chiuse gli occhi, a voler sottintendere, con quel moto istintivo dell'arto, di credere sulla fiducia a quanto rivelato, che non avvertiva la necessità di verificare di persona.
«Beh – il medico, prese atto e proseguì – c'è comunque una novità rispetto agli altri tre casi, sebbene naturalmente servirà tempo per essere più precisi».
Helena diede di nuovo luce alla vista e lo incoraggiò in tal modo a proseguire, incurante della mosca che stava familiarizzando anche con lei, come se il cadavere galleggiante nel sangue già non costituisse un pasto appropriato.
«Direi che ci sono tracce di sperma nell'ano e appena al di fuori» – asserì il medico, sempre rimasto calmo, abituato com'era a quegli orrori.
«Negli omicidi precedenti non ne era stato trovato?» – Helena non aveva preso parte a quei casi seguiti da Morrison, il predecessore. Ne conosceva taluni dettagli ma non la completezza.
«No, nei casi precedenti no. Vi era stato lo stupro con un arnese ruvido e tagliente, il sangue aveva fatto da lubrificante per la penetrazione successiva, quella vera, prima dell'evirazione e dei fendenti mortali. Ma nessuna traccia di eiaculazione. In questo caso invece la penetrazione carnale pare sia avvenuta subito, non preceduta da un oggetto e che l'aggressore sia giunto all'orgasmo».
Helena ringraziò con un cenno. Ne aveva abbastanza e doveva prendere aria.
Guardò per l'ultima volta la smisurata grandezza di quei locali, colmi di preziosi arredi e dipinti, guarniti da specchi a tutta parete abituati spesso negli anni passati a riflettere i luccichii di affollate serate mondane. Enormi spazi, ora, per un uomo rimasto solo e che da solo aveva trovato la morte per mano di un suo simile come peggio forse non è dato immaginare.
Del potente Gerard Pearson, influente e temuto come pochi solo fino a qualche anno prima nella New York che contava, restava solo un corpo completamente nudo, avvolto nel suo stesso sangue e intriso di urina non trattenuta per il terrore durante le torture; legato, ridicolizzato e umiliato come forse nemmeno ai tempi dei barbari si sarebbe punito il peggiore degli abietti su questa terra.
‘Perché di punizione si è trattato, vero Helena? Questa non ti pare un'esecuzione?' – Chiese la detective a se stessa riguadagnando la confusione e l'ossigeno della strada, liberatasi anche dai fastidiosi copri-scarpe.
Ex giudice, ex avvocato, ex politico: in tanti avrebbero potuto volere la sua morte per vendetta.
Si sarebbe trattato di una deduzione logica, se non fosse stato per i tre delitti precedenti, identici nella mostruosità della messa in atto'.

Massimo Berti

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
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