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Autore: Tommaso Carbone
L'angelo sterminatore
Giallo
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L'angelo sterminatore
Febbraio 1943

Ospedale Santa Maria delle Grazie


L'infermiera, una donna grassa con la faccia bianca come l'impasto del pane su cui risaltavano le labbra vermiglie e carnose, spingeva sbuffando il carrello dei medicinali nel corridoio illuminato dalla luce fioca delle lampade.

Si fermò davanti alla porta.

Cinque donne dormivano profondamente, il respiro regolare. Una ragazza di circa vent'anni con un pancione enorme passeggiava avanti e indietro reggendosi i fianchi con le mani.

L'infermiera si diresse verso il fondo della stanza.

- Ciao - .

- Come va? - le chiese l'infermiera che si era seduta al bordo del letto.

- Credo che ci siamo - disse Antonietta sollevandosi sui cuscini che la sostenevano. - Sento delle fitte sempre più forti e ravvicinate - .

- Sono iniziate le contrazioni - disse asciugandole la fronte imperlata di sudore. - È la prima gravidanza? - .

La donna annuì.

- Vedrai che andrà tutto bene. Ora devo finire il giro. Passo più tardi. Hai un bel pancione. Non è che troviamo una sorpresa? - disse strizzando l'occhio.

Antonietta le sorrise.

- In famiglia ci sono stati alcuni parti gemellari - .

- Se le contrazioni dovessero aumentare, chiamami - .

- Grazie - .

- Di niente. Ciao - .

- Ciao - .

L'infermiera si alzò con uno sforzo accompagnato da un lamento e riprese il giro.

Antonietta rivolse lo sguardo al crocifisso appeso alla parete di fronte. Si segnò e iniziò a pregare supplicando la Madonna affinché l'aiutasse a superare la paura del parto e il bambino nascesse sano.

Sarebbe diventata mamma.

Non vedeva l'ora di abbracciare il suo bambino.

Aveva tanto fantasticato e fra poco il sogno si sarebbe avverato.

Durante la gravidanza aveva accumulato un bel corredino.

Sua madre l'aveva aiutata a ricamare e cucire tutto l'occorrente. Gli zii le avevano regalato una culla di vimini che era appartenuta al loro bambino morto all'età di due anni per la malaria. L'immagine del bambino sorridente nella foto color seppia sul medaglione che la zia portava al collo la rattristò.

Per sfuggire all'angoscia che si era insinuata serrandole la gola cercò di pensare a come sistemare la cameretta. Appena messi da parte i soldi necessari avrebbe chiesto al falegname di realizzare un armadio in cui conservare la biancheria, gli abiti e le coperte che aveva stipato provvisoriamente nella cassa del corredo matrimoniale.

Chiuse gli occhi e tentò di addormentarsi. Verso le undici la stanchezza ebbe il sopravvento e sprofondò in un sonno inquieto e intermittente.


Mario Russo infilò la mano nella tasca interna del cappotto e prese il pacchetto di Popolari, estrasse una sigaretta e accostò il cerino. La fiamma gli illuminò il viso stanco e segnato da due profonde rughe agli angoli della bocca. Espirò una nuvola di fumo dal naso e aspirò un'altra boccata. Agitò la mano per spegnere il fiammifero.

Stava per diventare padre.
Un'altra bocca da sfamare, altre spese.

Avrebbe lavorato di più.

Se fosse nato un maschio.

Gli avrebbe insegnato un mucchio di cose.
Contava di mettersi in proprio e se le cose fossero andate nel verso giusto, avrebbe avuto un'impresa edile sua. Aveva messo da parte un discreto gruzzoletto che avrebbe utilizzato per comprare gli attrezzi e il materiale da costruzione. Era un muratore capace e svelto in grado di tirare su muri, camini e forni perfetti. Tre dei manovali che lavoravano con lui gli avevano assicurato che lo avrebbero seguito. Lanciò la sigaretta con un colpo dell'indice rimanendo a fissare le scintille prodotte dalla brace nell'oscurità.

La notte era umida e fredda.

Insaccò la testa nel bavero, infilò le mani nelle tasche del cappotto e si avviò verso l'ospedale, un edificio secentesco imponente e tetro con la facciata grigia e le finestre con le grate, risalenti al periodo in cui era adibito a carcere.

La ghiaia del viale alberato crepitava sotto le suole.
La luna pallida galleggiava su un mare di piccole nubi opalescenti.

Nell'ospedale c'era un piacevole tepore. Si sfregò le mani e si diresse verso il termosifone.

L'attesa sarebbe stata lunga.

Sua madre gli aveva detto che a volte le doglie potevano protrarsi anche per un giorno intero.

Si sedette a una panca nell'androne. C'era un silenzio innaturale interrotto di tanto in tanto dai passi dei medici e delle infermiere che risuonavano sul pavimento in graniglia.


Una fitta dolorosa come una coltellata la ridestò da un sogno cupo e incongruente. Stava pulendo la cucina quando in casa erano entrati due sconosciuti, si erano seduti a tavola e avevano chiesto da mangiare. Gli aveva servito un piatto di maccheroni e un bicchiere di vino. I due uomini si erano alzati e senza neppure salutare si erano diretti alla porta. Quello più anziano si era girato e le aveva sorriso. Solo allora si era accorta che era suo padre morto in guerra sul fronte greco.

La pioggia scrosciava sulle finestre, fitta e obliqua. Un fulmine illuminò la stanza con un crepitio lacerante. Non ce la faceva più a stare nel letto. Si alzò e andò alla finestra. La nebbia infittiva l'oscurità formando un alone intorno ai lampioni. Tutto era sfumato, gli alberi, le siepi, le case. Si avviò lungo il corridoio.

Chissà dov'era Mario.

Sperava che gli avessero permesso di restare nella sala d'attesa dell'ospedale.

A metà del corridoio sentì come un tonfo.

Un liquido caldo le colava tra le gambe.

- Infermiera - gridò terrorizzata appoggiandosi alla parete.

Ai suoi piedi si era formata una pozza d'acqua.

L'infermiera grassa corse verso di lei con passettini goffi e impacciati. Quando la raggiunse aveva il fiatone.

- Non preoccuparti - le disse vedendo la paura dipinta sul viso contratto da una smorfia di dolore. - Non è niente di grave. Si sono rotte le acque. Appoggiati a me - .

L'infermiera le cinse il fianco con una mano e la riaccompagnò nella stanza.

- Stenditi, vado a chiamare il dottore - .


Albeggiava, la pioggia era cessata, le nuvole si erano diradate. Uno squarcio bluastro si era aperto nel cielo livido. Dalla finestra entrava una luce smorta che permetteva appena di distinguere i contorni degli oggetti.

Venne svegliato da un urlo straziante.

- Antonietta - disse Mario con la voce impastata di fumo.

Aveva le ossa indolenzite e il braccio destro paralizzato dal formicolio. Si strofinò gli occhi, si stirò ed emise un silenzioso sbadiglio.

La sentì urlare di nuovo.
Si fece il segno della croce e invocò l'aiuto di San Rocco.

Lo stomaco brontolava.
Un grumo acido gli risalì lungo l'esofago e gli bruciò la gola.
La porta del reparto era aperta, ma non ebbe il coraggio di entrare. Aveva paura che lo rimproverassero per essersi intrufolato in un reparto femminile a quell'ora e senza aver chiesto il permesso. Iniziò a passeggiare avanti e indietro. I pensieri ripresero a volteggiare nella testa come tanti corvi neri. Si disse, per farsi coraggio, che tutto sarebbe andato bene. Nel giro di qualche giorno sarebbero tornati a casa. L'indomani doveva tornare assolutamente in paese. Non poteva permettersi di assentarsi ancora dal lavoro, soprattutto adesso che le spese sarebbero aumentate.

Scartò l'involto con il resto del panino con la frittata. Lo divorò. Ripiegò la carta oleata e se la rimise in tasca.

Lo stomaco si era acquietato.

Un urlo straziante lo fece sussultare.

Riprese a passeggiare.

Era giunto in fondo al corridoio quanto la sentì gridare di nuovo.

Non ce la faceva più a stare lì dentro.

Uscì a prendere una boccata d'aria. La mattinata era fredda. La nebbia saliva lentamente dal terreno e rimaneva a fluttuare come un morbido panno tra gli alberi. Si diresse alla fontana e bevve avidamente l'acqua ghiacciata. Si pulì la bocca con il dorso della mano. Un sole anemico fece la sua comparsa tra un velo di nubi sfilacciate che si muovevano veloci spinte dal vento. Si accese una sigaretta, aspirò con voluttà. Fu scosso da una tosse stizzosa. Si sedette a una panchina e respirò l'aria fresca del mattino che odorava di terra e foglie marce.

Tommaso Carbone

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