Il mattino dopo, circa mille chilometri più a sud, in Iraq, in uno degli slarghi di Najaf che contornavano la moschea dell'Imam Alì, cugino e genero di Maometto e primo Imam per i musulmani sciiti, per loro il terzo luogo più sacro dell'Islam dopo la Mecca e Medina, Yussuf recalcitrava non poco verso suo padre, che insisteva per portarlo alla preghiera di mezzogiorno. In realtà i suoi dieci anni già ne consentivano la partecipazione al “giorno dell'assemblea”, ma l'Imam aveva stabilito che poteva ancora aspettare, a discrezione di suo padre, fino ai dodici anni. Il punto era che suo padre della “discrezione” consentita dall'Imam non voleva affatto saperne. Una serrata trattativa che vide l'intervento incisivo di sua madre e delle due sorelle più grandi, cui era riservata la sola preghiera del venerdì in privato, sortì l'effetto di giungere ad un equo compromesso. A mezzogiorno mancavano ancora quasi due ore e quel tempo sarebbe stato impiegato per gironzolare tra i chiassosi mercatini che popolavano l'area intorno alla moschea. Yussuf amava gironzolare tra quelle bancarelle colorate immerse in un'alluvione di grida, suoni e canti. E, ogni volta, stringeva la mano di suo padre sperando in un piccolo acquisto, magari un dolce. Amava moltissimo suo padre, era un padre severo ma giusto, era la sua guida. Il percorso tortuoso tra i mercatini venne abilmente prolungato da Yussuf, che riuscì nell'impresa non facile di confondere suo padre distraendolo con indicazioni e richiami continui a questa o a quella bancarella o venditore. Ovviamente suo padre conosceva bene i suoi trucchi “dilatori” e fingeva di assecondarlo. Anche lui amava moltissimo quel figlio maschio che Allah gli aveva donato. Questa volta andò oltre, simulando una sete improvvisa si fermarono davanti ad un banco di vendita di bibite e dolci tradizionali. Yussuf lo guardò con quei grandi occhi scuri, tra padre e figlio era ormai divenuto impossibile fingere, e sorrise, sorrise con grazia, con affetto, con una dolcezza che trasmetteva un amore profondo. Mille chilometri a nord, i due droni di attacco erano pronti e riforniti sulla improvvisata pista di decollo nel Parco di Arevik. Il giorno era alto e due uomini con le cuffie osservavano lo schermo di un monitor. Il software di decifrazione rese velocemente intellegibile il messaggio. “ La spada è sguainata. La spada è impugnata. “ Era il segnale che attendevano. Sevan aveva preso il controllo dei droni. Gli uomini si sbracciarono in ampi gesti. Le squadre sgombrarono di corsa la pista e i motori del primo drone si accesero, imprimendo la spinta di rullaggio. Il decollo fu pressoché simultaneo e i due droni salirono in quota lasciandosi dietro una tenue scia di vapore. Solo qualche istante dopo il decollo, quel formicaio di uomini e mezzi si mise all'opera per smontare e far sparire ogni traccia. Il piano non prevedeva il rientro dei droni ad Arevik, sarebbe stato troppo rischioso. Autonomia permettendo, sarebbero ammarati nel lago di Sevan per affondarvi, anche se qualcuno ne dubitava a causa della grande distanza da percorrere. In fondo i droni, come ogni altro ordigno, veicolo, uomo e materiale, erano stati già pagati, la loro eventuale distruzione non avrebbe rappresentato un problema, anzi, la scomparsa dei droni avrebbe agevolato la cancellazione di ulteriori tracce che avrebbero potuto far risalire ai committenti. Il piano di volo dei droni prevedeva, per abbreviare il tragitto e risparmiare carburante, il sorvolo di circa cento chilometri di territorio iraniano. Dopo la crisi con Israele del 2023 la difesa aerea iraniana era divenuta piuttosto efficiente ed il rischio che i droni venissero intercettati era molto elevato. Dalla loro postazione di Sevan, i piloti decisero di effettuare una rapida deviazione sorvolando il lago di Urmia, per poi attraversare in brevissimo tempo il confine con l'Iraq e puntare a sud, per oltre 800 chilometri di volo, aggirando l'area di Bagdad per raggiungere l'obiettivo. A Najaf, ormai nelle vicinanze della moschea di Alì, Yussuf aveva quasi terminato di gustare il dolce, dissetandosi con suo padre. - E' l'ora, figlio, è l'ora della preghiera. Tra poco sarai un uomo ed è tempo per te di compiere i tuoi doveri di credente. Andiamo, sarà la prima volta per te, non sei curioso ? - Yussuf non rispose. Sentiva di aver esaurito le sue risorse, i suoi piccoli espedienti. Quel giorno sarebbe entrato nella moschea di Alì per la sua prima preghiera del venerdì. Giunti di fronte alla spianata che ne precedeva l'ingresso, venne investito da una intensa ondata di calore generata dalla enorme folla che si accalcava per entrare. Pensò che l'angelo dei bambini gli avesse lanciato un'esca, un appiglio che doveva ad ogni costo sfruttare. Suo padre, prendendolo per mano, prese a farsi largo tra la folla e vide Yussuf strattonato da ogni parte. Il bambino, dal canto suo, si giocò l'ultima carta, quella degli occhioni scuri imploranti. L'uomo si fermò per un attimo a riflettere. Yussuf capì di aver vinto quando trovò facilmente le parole. - Padre...c'è tanta gente. Ho paura. - Suo padre gli sorrise, mentre riceveva urti e spintoni continui. - Va bene, hai vinto anche stavolta. Torna pure a casa. - Tornare ? In quel caos di spallate maleodoranti ? No, stavolta avrebbe tentato di andare oltre. - Padre, non lasciarmi solo in questa folla, torna a casa con me. - - Ma non posso, Yussuf, è l'ora della preghiera... - Il bambino sfoderò ancora gli occhioni scuri imploranti, a cui nessuna forza del cuore poteva opporre resistenza. - E va bene, figlio mio. Ora ti porto fuori dalla folla e poi andrò alla moschea. Tu, però, torna subito a casa e non fermarti per strada, con nessuno. - - Si, padre, ti ringrazio. - Yussuf abbracciò suo padre con forza, aggrappandosi a lui, mentre l'uomo, esasperato dalla folla, decise di ricorrere a misure drastiche per non tardare all'importante appuntamento con la preghiera. Lo prese sulle spalle e lo condusse fuori dalla folla, fermandosi a prendere fiato davanti a un negozio di tappeti. Fu in quel momento che Yussuf, che avrebbe dovuto sentirsi sollevato dallo scampato pericolo, avvertì una sensazione di minaccia, un timore profondo, opprimente che lo spinse ad abbracciare suo padre. - Cosa c'è, Yussuf, qualcuno ti ha fatto male ? - - No, padre, è che...volevo solo ringraziarti, dirti... - - Cosa ? - - Dirti che....ti prego, padre, perdonami. Ti prometto che il prossimo venerdì sarò con te alla preghiera di mezzogiorno. - Il bambino si strinse ancora a suo padre con tenerezza, non riuscendo a liberarsi da quella sensazione, da quel presagio oscuro che lo tormentava. - Ora vai, figlio mio, torna a casa, altrimenti mi farai fare tardi alla preghiera. - - Si, padre, torna presto. Ti aspetto. - Suo padre avrebbe voluto dargli un bacio, ma la folla lo convinse ad affrettarsi. Disobbedendo a suo padre, Yussuf, rimase a guardarlo mentre veniva inghiottito dalla folla che, ormai, si era diradata davanti all'ingresso della moschea. Nel voltarsi per prendere la strada di casa, Yussuf alzò gli occhi verso le sagome lontane dei due alti minareti che affiancavano l'ingresso della moschea e il suo oscuro presagio si materializzò in due scie bianche che piombavano veloci verso l'edificio sacro. Per un brevissimo istante percepì un sibilo, poi il mondo intorno a lui esplose in una immensa palla di fuoco. Le violente esplosioni lo scagliarono contro la vetrina del negozio, che andò in frantumi ferendolo sul viso, sulle braccia e sulle gambe. La piazza venne invasa da una coltre di polvere e fumo nero, ma fu solo per pochi istanti. Altre due forti esplosioni, devastanti, e il mondo piombò nell'oscurità. Yussuf riprese i sensi e si scosse dal torpore appena cessato quando percepì il sangue sulle sue mani. Ripulì, con attenzione, gli occhi che bruciavano da un denso strato di polvere e riuscì a mettere a fuoco il mondo intorno a lui, o quello che ne restava dopo quella tempesta. Vide uomini intorno a lui che sollevavano corpi insanguinati, udì lamenti e grida laceranti, vide quello che una volta era un negozio di tappeti ridotto ad un cumulo di detriti, vide una gamba spuntare, all'altezza del ginocchio, da sotto una trave crollata. Poi prese consapevolezza di sé stesso, del suo corpo, che giudicò tutto sommato integro, libero da macerie. Era pieno di lacerazioni al volto, alle gambe e alle braccia, dalla fronte un rivolo di sangue gli scendeva sulla guancia destra. Si mosse piano, con paura, percepì che i suoi movimenti per rimettersi in piedi gli causavano un dolore sopportabile. Ci avrebbe pensato dopo. I pensieri. Quelli gli si riaccesero come una fiamma del camino sulla quale era stata gettata della benzina, con una vampa alta e improvvisa. Si rimise in piedi in maniera brusca, prese a respirare con affanno, si voltò verso quella che una volta era la piazza e si stropicciò gli occhi. La visione della realtà gli ritornò chiara, dolorosa nella sua durezza. La piazza si era trasformata in un luogo di morte e distruzione. La grande moschea di Alì, uno dei luoghi più sacri dell'Islam, i due alti minareti che le facevano ala come due giganteschi guardiani, non esistevano più. Yussuf vide rovine in fiamme e vide fumo e polvere che calavano lentamente, come un gigantesco sudario, su quella scena di desolazione. Strinse i pugni e urlò, con una voce strozzata dalla polvere e dalle lacrime, disperata. Urlò di rabbia e di disperazione. Urlò al di sopra di decine di altre urla, gridò impotente, gridò di dolore, urlò la sua solitudine, urlò alla sua stessa gola intrisa di polvere, ai suoi stessi occhi gonfi di lacrime, rossi di sangue. - Padre.... -
Rosario Del Vecchio
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