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Autore: Dionigi Cristian Lentini
L'uomo che sedusse la Gioconda
Romanzo Storico
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L'uomo che sedusse la Gioconda
Il vento gelido di quella sera invernale non sferzava i merli del Castello di San Giorgio quanto il vento della passione imperversava nelle sue vene pulsanti.
Era il mese di Novembre dell'Anno Domini 1482, Mantova era gelida, deserta... e Beatrice era sdraiata sul letto della sua stanza con lo sguardo trasognato, fisso sulle aquile imperiali del soffitto... ed una ritrovata immaginazione saturante la mente... indicibili pensieri che per una madonna del suo rango sfioravano l'indecenza. Sapeva che quando il chiacchiericcio della servitù dei Gonzaga avrebbe lasciato il piano nobile, lui, quell'affascinante diplomatico ormai signore del suo senno, sarebbe arrivato, incurante se non profittante della sconsiderata assenza del di lei cugino e promesso sposo (il marchesino, con suo padre, combatteva da due giorni sotto le mura di Ferrara alla strenua difesa del casato estense, minacciato dai veneziani del conte Roberto di San Severino).
Accadde infatti che Girolamo Riario, avido signore di Imola e Forlì, forte dell'alto patrocinio di suo zio Sisto IV, con il dichiarato obiettivo di impossessarsi in breve tempo del Ducato di Ercole d'Este, era riuscito a persuadere il doge di Venezia della necessità di muovere guerra a Ferrara, rea di minacciare da qualche tempo il monopolio del commercio del sale nel Polesine.
La Casa d'Este, certamente più raffinata che militarizzata, era non casualmente imparentata con il re di Napoli (Ercole aveva sposato la figlia di Ferdinando d'Aragona, Eleonora) ed aveva saputo tessere alleanze con le limitrofe signorie italiane, tra le quali anche quella di Ludovico Maria Sforza detto il Moro, al quale il duca di Ferrara aveva promesso in sposa in tempi non sospetti una delle sue figlie.
Così l'intera penisola fu presto divisa in due blocchi l'un contro l'altro armati: da una parte lo Stato Pontificio con Sisto IV, Imola e Forlì con il Riario, la Repubblica di Venezia, la Repubblica di Genova, il Marchesato del Monferrato e la Contea di S. Secondo Parmense; dall'altra il Ducato di Ferrara di Ercole d'Este, il Regno di Napoli di Ferdinando d'Aragona, il Ducato di Milano di Ludovico il Moro, il Marchesato di Mantova di Federico Gonzaga, il Ducato di Urbino con Federico da Montefeltro, la Signoria di Bologna dominata da Giovanni Bentivoglio e la Repubblica di Firenze con Lorenzo de' Medici.
Dopo l'estate le truppe veneziane erano in netto vantaggio: avevano conquistato Rovigo, assediato Ficarolo, preso Argenta e adesso stringevano d'assedio anche Ferrara. La situazione era diventata per gli Estensi ancor più critica da quando in settembre era morto per febbre malarica il condottiero più esperto della coalizione anti-veneziana: il famigerato Federico da Montefeltro.
Inexpectate, il pontefice, che nel frattempo aveva sconfitto i napoletani a Campomorto, decise improvvisamente di porre fine da parte sua alle ostilità, venendo a trattative con il re di Napoli. Ludovico il Moro infatti, lavorando di diplomazia, era riuscito a convincere i più vicini consiglieri del Santo Padre che la veloce espansione della Serenissima nell'Italia settentrionale rischiava di essere pericolosa e minacciosa tanto per Milano quanto per Roma; pertanto, continuare quella dispendiosa guerra solo per assecondare le folli ambizioni del Riario, non era affatto conveniente per nessuno.
Peccato che Venezia, ad un passo dalla vittoria definitiva, non aveva ovviamente alcuna intenzione di mollare la presa, anzi voleva chiudere la partita, prima che l'inverno diventasse ancor più rigido.
Quel pomeriggio infatti i lagunari, approfittando di un'incauta mossa degli avversari, avevano deciso di sferrare un nuovo attacco da nord a danno della guarnigione di Francesco Gonzaga, il quale cercava come poteva di resistere alla forza d'urto avversaria, concentrato più che mai sulla strategia difensiva e del tutto ignaro di quanto stesse per accadere nelle incensate stanze del suo bel palazzo...
Due soli tocchi sulla porta: parvero alla giovane spasimante rintocchi in una campana, come il greve pendolo della sua mente che ora oscillava tra l'estremo pudore e l'estrema audacia.
Non quello sprezzante del periglio del suo marchese tra le balestre e gli archibugi bensì il vero coraggio fu quello di impugnare quella chiave, di girarla e di permettere al suo amante di varcare quella soglia, ultimo baluardo di un cuore già profanato.
Mentre il fuoco del camino allungava l'ombra dell'uscio che si apriva nella stanza, e l'impavido cavaliere vi penetrava, Beatrice si voltò di scatto lasciando sensualmente cadere sul pavimento una perla del suo copricapo.
- Dimmi che non è peccato - supplicò.
Lui lentamente si chinò, raccolse il pendente, le cinse i fianchi e sfiorandole con le labbra il collo le sussurrò la prima, l'unica frase di quella notte:
- Lo è certamente. Ma non commetterlo sprecando questo momento lo sarebbe ancor di più. -
In quell'istante chiuse gli occhi ed ignara dell'amara notizia che all'indomani sarebbe giunta dal campo di battaglia, si voltò dolcemente e si abbandonò alla passione. E mentre il suo promesso veniva umiliato dalla cavalleria veneziana, lei, amazzone in sella, si esaltava, libera per una notte di essere se stessa.
Così, quando anche l'estremo strepito di spade nel campo cessò e l'ultimo ceppo di legna nella stanza si consumò, la nuova aurora non venne a notificare la sempre più imminente caduta di Ferrara ... ma solo l'ennesima conquista di Tristano Licini dei Ginni.

Tristano era un distinto ventiduenne, brillante, colto e raffinato; la costituzione snella e le proporzioni del fisico gli conferivano quello che si diceva - un bell'aspetto - ; nonostante la giovane età, era già un autorevole diplomatico dello Stato Pontificio e pertanto era ben inserito in tutte le corti italiane. Tuttavia non aveva una sede fissa, veniva di volta in volta inviato dalla Santa Sede in missione presso le Signorie della penisola (e non solo), a volte all'insaputa degli stessi ambasciatori ufficiali, per le questioni più delicate, riservate, spesso segrete. Tutti i Signori e notabili interlocutori sapevano che parlare con lui equivaleva a conferire direttamente con il Santo Padre, tuttavia non aveva alcun titolo nobiliare, il suo passato era a tutti ignoto, il suo nome non compariva mai in alcun documento ufficiale, vestiva di gran lunga meglio di molti conti e marchesi ma sul suo petto non comparivano onorificenze e blasoni, mostrava disponibilità quasi illimitata di denari ma non era figlio di alcun banchiere o mercante, si muoveva con disinvoltura nello scacchiere politico ma non lasciava mai tracce, scriveva ogni giorno la Storia ma non compariva mai in nessuna delle sue pagine ... era dappertutto eppure era come se non esistesse.
Nei suoi primi tre lustri di vita era cresciuto nella provincia bergamasca, al confine con i territori della Repubblica di Venezia, dove aveva ricevuto una buona formazione culturale ed un'anticonvenzionale educazione sentimentale e sessuale. Orfano di padre e da poco più che adolescente anche di madre, viveva con suo nonno, un nobile vecchio e stanco ormai in decadenza che nonostante tutto vantava sempre con orgoglio un casato di origine federiciana che all'epoca delle Crociate si era imparentato con membri di famiglie toscane tanto blasonate quanto ormai praticamente estinte; l'anziano conservava comunque un certo rispetto nel borgo e nel contado, cosa che veniva riflessa anche sul giovanissimo Tristano. In età scolare fu affidato alle cure dei domenicani prima e dei francescani poi, rivelando sin da subito una certa propensione per la logica e la retorica, nonostante ogni domenica mattina facesse infuriare i suoi religiosi precettori preferendo l'angelica visione dell'arrivo delle giovani novizie in chiesa allo studio dei classici, greci e latini. A volte lo si vedeva incupito forse per l'assenza genitoriale ma mai scontroso, aveva un temperamento vivace ma sempre composto, un'aria sveglia ma mai impertinente ed una faccia pulita che lo facevan benvolere da tutti nel borgo, soprattutto dalle signore.
Aveva appena compiuto 12 anni quando un episodio che poi riaffiorerà frequentemente nei suoi sogni di adulto gli dischiuse un nuovo mondo, qualcosa di ben lontano dalle regole monastiche a cui era abituato e dalle virtù cardinali che leggeva ogni giorno sui libri: era un caldo pomeriggio di inizio estate, le porte e le vedute dello scriptorium della biblioteca erano spalancate per consentire alla corrente d'aria di rendere meno pesanti quelle letture; Tristano aveva in mano un tomo su Sant'Agostino da Ippona da cui era particolarmente affascinato e, sistematosi su un'isola vicino alla finestra, si apprestava ad immergersi nelle gravose carte quando notò in strada uno strano movimento per quell'ora: Antonia, vedova inconsolata, dal sagrato della chiesa avanzava con passo celere nella via deserta trascinando quasi a strattoni sua figlia che poverina aveva imparato a camminare da non più di un paio d'anni. La giovane e sfortunata sembrava avere fretta di arrivare non vista a destinazione; dopo poco, sempre più con fare circospetto, deviò leggermente sulla destra la sua traiettoria e, non appena giunta all'altezza dei locali dello speziale, vi entrò. Immediatamente dopo, il titolare, sporgendosi con la testa dall'uscio, diede velocemente un'occhiata a destra e sinistra e rientrando serrò la porta che si rispalancò solo mezz'ora dopo per far uscire madre e figlia. Tale dinamica si ripeté pressoché identica nei giorni di sabato seguenti, tanto che la tentazione di approfondire l'indagine divenne per l'adolescente irrefrenabile. Fu così che architettò di nascondersi in una vecchia cassapanca che un bracciante di suo nonno usava per la fornitura di otri d'acqua di sorgente alla moglie dello speziale, una ricca signora che con le sue due figlie preparava per il laboratorio del consorte distillati, idrolati e profumi. Non appena il carico fu pronto, Tristano lo svuotò dell'equivalente del suo peso e vi si introdusse rannicchiato lasciando che il manovale caricasse il tutto sul carro e completasse ignaro il suo trasporto direttamente nella drogheria com'era solito fare. Una volta lì, nascosto nel suo cavallo ligneo, come Ulisse a Troia, aspettò il momento in cui l'aiutante erborista si allontanava per remunerare il commesso ed uscito dalla cassapanca si nascose tra i vari sacchi di cereali e graminacee che riempivano la stanza. A quel punto bisognava solo aspettare... Ed infatti, poco dopo che il campanile della chiesa rintoccò la Nona, la bella Antonia, con la sua piccola, puntuale fece il suo ingresso nella penombra; ad attenderla sull'ingresso lo spasimante alchimista che come lupo sulla preda le si avventò al generoso petto, spingendo la donna sull'anta fissa del portone; e mentre con la mano destra sprangava la parte mobile dell'uscio, con la sinistra frugava sotto la veste dell'avvenente signora, la quale, abbandonando la mano della piccola, si disfaceva nel contempo della cuffia che un attimo prima le raccoglieva i lunghi e ramati capelli. Il signorino sbirciava incredulo a quanto stesse accadendo in quell'estasi di erbe medicinali, spezie, radici, candele, carta, inchiostri, colori... Dopo le prime effusioni, lo speziale mollò la presa e concesse giusto il tempo alla giovane madre di sistemare meglio la bambina su un seggiolino con una bambola di pezza e paglia, poi la prese per mano e, mentre la conduceva nel retrobottega, con sarcasmo le chiese: - Dimmi, che hai raccontato oggi in confessionale a don Berengario? - . L'impeto tra i due riprese più di prima: ai risolini e ai sussurri seguirono i gemiti; appena l'audace spione scostò con due dita la tenda, vide i due amanti fornicare peccaminosamente tra erbe, sementi, profumi, acque aromatiche, oli, unguenti...
Iniziò così la sua educazione sessuale, che ben presto corroborò, come ogni disciplina che si rispetti, con la teoria (procurandosi alcuni testi considerati dai suoi precettori proibitissimi) e con la pratica (provocando turbamenti e ripensamenti a qualche giovane novizia).
Il suo vero primo rapporto completo con una donna lo ebbe con Elisa di Giacomo, la figlia maggiore di uno stalliere che lavorava nella tenuta. Due anni più grande, la bella Elisa accompagnava volentieri Tristano in lunghe passeggiate per i sentieri di montagna, ammaliata dai suoi racconti, dai suoi progetti... e spesso i due finivano inevitabilmente ad amoreggiare in un capanno o in un rifugio della zona.
Erano infatti appartati insieme quel giorno di vendemmia in cui un manipolo di soldati stranieri a galoppo piombò in un baleno nel bel mezzo della festa, oltrepassò braccianti ed astanti allarmati e arrivò davanti alla rurale alcova, circondandola. Il più alto in grado, in un'armatura scintillante come da quelle parti non si era mai vista, smontò da cavallo, si levò l'elmo e, sfondando con un piede la porta, nell'imbarazzo più totale degli attoniti piccioncini, irruppe

Dionigi Cristian Lentini

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