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Autore: Maria Franzè
Giugno bruciava
Romanzo storico
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Giugno bruciava
La terra bruciava sprigionando un fetore di sangue e di violenza.
Bruciava trafitta dal giallo sparato dal sole. Sotto il carico della fatica e del brontolio di stomaco allenato a essere vuoto, la gente bruciava senza lacrimare tra canti antichi, orlando di poesia la secolare tragedia della loro terra.
Giugno bruciava di giallo e grondava fumante di fiori di ginestra.
Era mezzogiorno e i contadini continuavano a lavorare:
Strappavano l'erbaccia che cresceva spontanea tra i filari dell'orto, mettevano sostegni alle piante, trapiantavano e l'avrebbero fatto fino alla fine del giorno, alzando la testa solo per controllare l'incontro della luce col buio. Osservavano con cura e attenzione quelle piante da cui avrebbero assaporato solo grami frutti.
L'abbondanza spettava di diritto a don Fortunato, proprietario invisibile di tutte quelle terre: boschi, montagne, fiumi e anche l'ossigeno che respiravano appartenevano a don Fortunato. Per chi si lamentava di così tanta ingiustizia subita, c'era chi rispondeva che padre e padrone hanno sempre ragione.
Visi squamati come pelle di serpente, con occhiaie e labbra spaccate, disegnati di rassegnazione, cantavano stormi di canzoni.
Gra, grac ciarlavano uccelli neri che solcavano l'aria.
Bimbi gracili, con la pancia prominente del rachitismo, aiutavano gli adulti a far fruttare la coltivazione.
Uno di loro a bocca aperta masticava dei semi cavati dalla terra, facendo vedere la metamorfosi progressiva del cibo. Un bambino staccò con un morso la testa a un lombrico e gli altri risero ahahahah.
Un'ape diede una lezione sul naso a una bambina che scoppiò a piangere ueeeeeeeee! Ueeeeeeeee! Un uomo dai grossi baffi
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neri si girò a guardarli con cipiglio minaccioso, smisero di ridere e la bimba di piangere.
Gruppi di ragazze salivano dai burroni più̀ leste di capre selvatiche, si arrampicavano lungo sentieri, dirupi e burroni, trasportavano acqua con l'orcio in testa.
Chi da destra chi da manca, chi dall'alto e chi dal basso avevano riconosciuto la sagoma e l'incedere da dea invitta di Giuditta che calava dalle pendici della montagna diretta a valle. Inconfondibili le due spesse trecce brune fissate a corona sopra la testa. La riconobbero, ma nessuno ebbe il coraggio di pronunciare il suo nome tranne i caprai che, incrociandola, le dissero “buongiorno” e “salute”, come se l'avessero incontrata il giorno prima.
Tutti gli altri rimasero per qualche istante a fissarla, immobili e in silenzio. Un silenzio inquietante accentuato dall'abbaiare dei cani e dal rumore del vento. Si scambiarono sguardi carichi di significato e fecero finta di non riconoscerla, continuando a sfaccendare a schiena curva. Sputarono fuori bestemmie, parole e parolacce, quando Giuditta svanì dal loro orizzonte.
La ricomparsa della donna, sparita cinque anni prima, li lasciò con la gola arsa e gli animi turbati. “Non si farà scuro per ‘sta disgraziata”, sospirò una donna piccola, poco più alta di una bambina. Un'altra che stava al suo fianco le intimò di stare zitta, “meglio la parola che non esce dalla bocca”, fu il suo consiglio. Qualcuno era timoroso e profilava una sicura sventura, perché nella notte aveva sentito cantare nei boschi la civetta foriera di disgrazie. Qualcun'altro aveva sognato la defunta madre di Giuditta tutta sorridente e sognare morti allegri era un brutto segno, preludio di eventi nefasti. “Il corpo riposa e l'anima fa la pazza”, provò a dire un uomo, il più alto di tutti, denominato La Pertica. Si girarono verso di lui, guardandolo con malevolenza: “fate male a non credere ai sogni. I sogni dicono la verità! E anche i morti dicono la verità, perché loro sanno tutto”, lo redarguì il più anziano di tutti. “Garibardi ha rovinato
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il mondo!” rincarò ancora, perché La Pertica era stato arruolato nell'esercito garibaldino.
I paesani, sparsi nei boschi e lungo strette strisce di terra e scale di legno o di pietra, erano scossi come se avessero visto un fantasma capace di fiondare lame sottili aguzze e invisibili, per ucciderli, con in mano una mistura malefica con cui spruzzare il cielo più splendido per creare le tenebre dell'aldilà.
Qualcuno, dal pertugio della finestrella ritagliata nella porta dell'abitazione, giurava di aver visto con i propri occhi la turba magna in processione, il ritorno dei morti, che suonava e ballava per le vie. Grida e mormorii si sparsero di bocca in bocca, per lo più sdentate, indicando col dito accusatore Giuditta considerata più pazza della luna piena. Solo voci incoerenti e sovrapposte, in uno sfondo di fame e di paura. Accompagnata da bisbigli e confessioni, Giuditta si allontanava, imboccando la via maestra del paese. A quel punto iniziarono a berciare le malefatte compiute dalla compaesana. Tutti avevano visto e sentito, tutti avrebbero potuto confessare e accusarla del crimine commesso, ma nessuno lo fece. Al dunque, all'arrivo dei carabinieri e della guardia nazionale, temuti e odiati come lo era il Regno d'Italia, dissero di non aver sentito e visto nulla.
Giuditta in abiti maschili era diretta a casa sua, sembrava temesse di non arrivare in orario a un appuntamento da come affrettava il passo man mano che si avvicinava alle casupole dell'abitato.
Giuditta bruciava di disperazione al pensiero che le avevano rubato pezzi d'infanzia, le avevano soffocato l'entusiasmo della gioventù, le avevano strappato la sua carne, le avevano sottratto il suo futuro. Si dannava l'anima. Le lacrime le laceravano la vista e le sfondavano il petto per quanto erano abbondanti mentre le annodavano la gola le sue stesse parole, pronunciate qualche giorno prima, voglio crepare! Quando crepo? Parole che le piegavano le gambe. Parole scaraventate con la violenza

di una cannonata in pieno viso. E poi vivi bene Giuditta! La raccomandazione di Peppe. Ma senza Peppe la vita non era più vita. Si sentì chiusa come in una botte vuota, priva d'aria. Invocò Peppe, muovendo impercettibilmente le labbra: Peppe la sua allegria che si espandeva rossa, goccia a goccia come un bicchiere di vino. Giuditta sapeva che non era umana, non era giusta la sorte che le era toccata e pregava. Pregava che si spegnesse presto quel fuoco che le bruciava le viscere. Pregava che sparisse quel peso sullo stomaco che non la faceva respirare. Pregava che arrivasse la fine di quella giornata, di quel tempo che la ingabbiava. Sapeva che nessuno poteva fare più niente, nessuno poteva più salvarla. Era sola come un filo d'erba nella tempesta. Le parole che avrebbe voluto urlare contro la vita che non sapeva più vivere rimasero impigliate in lei come un fiore in un rogo di paglia. Le rimaneva solo quella passeggiata nel suo passato e la determinazione a seppellirlo per sempre. Fu distratta da una donna accovacciata nell'erba per urinare che si rialzò veloce aggiustandosi la sottana, appena la intravide, e si allontanò lesta e guardinga come un furetto. Giunta alla prima casa del paese, si avvicinò a una donna anziana, con le gambe inferme, affette da malattie reumatiche, seduta all'ombra di una quercia davanti alla sua casupola di pietra, intenta a cullare un neonato dalla pelle gialla. Che micidiante, pensò la donna che dimostrava cent'anni di età ma che non superava i sessanta, fissando Giuditta che si fermò per salutarla. Lei si interessò al bambino, nato venti giorni prima. Apprese che la madre non aveva latte e non c'era altro rimedio per farlo sopravvivere che l'acqua calda e un nastro unto e sbrindellato di stoffa rossa contro il malocchio.
“Dateci latte di capra”, fece Giuditta all'anziana donna.
“Questa è bella, e chi ce l'ha la capra?!” rispose con un ghigno e la guardò come se fosse una morta non del tutto sepolta che avrebbe potuto contagiare i rimasti vivi. Non camperà, è un altro
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condannato a morte rifletté mentalmente Giuditta scuotendo la testa e si licenziò, dopo aver carezzato la testa del bambino che aprì gli occhi per un istante come attraversato da un'onda dolce e rigenerante. Fatto qualche passo, tornò indietro per allungare alla donna una manciata di ciliegie che aveva nella tasca e proseguì per la sua destinazione. La vecchia preoccupata e ansiosa rivolse lo sguardo al cielo per trovare indizi volti a comprendere il significato dell'arrivo di Giuditta. Le sembrò di scorgere dietro il sole nuvoloni molto minacciosi e aggressivi, alcuni talmente neri che le fecero paura, però non tirava un filo di vento e faceva molto caldo. Il cielo era terso. Ma la donna vedeva nascosti nuvoloni neri. Si issò da dov'era accovacciata, scaraventò per terra le ciliege e ci sputò sopra. Si chiuse in casa biascicando “proprio qui doveva tornare ‘sta figlia del diavolo!”
Tracciò una croce con la mano sulla testa del bambino per proteggerlo dal male.

Maria Franzè

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