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Autore: Simona Federico
Il Padrone
Romanzo
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Il Padrone
Mimmo stava percorrendo via Carlo Poerio e aveva allungato di pochi metri il percorso per passare sotto le finestre del negozio dove lavorava la sua fidanzata e farle un saluto. In verità, conoscendo la sua proverbiale gelosia, immagino per controllare se fosse a lavoro. Marta era una sartina, aveva imparato il mestiere da sua madre che prima che il diabete le indebolisse la vista cuciva per le signore eleganti della Napoli bene nella piccola sartoria adibita in casa. A volte anche a Marta il lavoro veniva commissionato. Era davvero molto brava anche nel ricamo e il suo sogno era aprire una piccola attività tutta sua, magari dopo il matrimonio con quel pezzo di giovane un po' burbero, possessivo peggio di un siciliano, che faceva a botte con tutti quelli che osavano anche solo guardarla con un po' di insistenza. Amoreggiavano da alcuni mesi, nascondendosi dalle occhiate indiscrete e insistenti delle pettegole del quartiere che trascorrevano le sere d'estate sedute fuori all'uscio dei bassi. Dopo poche settimane Mimmo aveva voluto presentarsi alla famiglia e, come si diceva a suo tempo, - fidanzarsi in casa - , sognando il giorno del matrimonio e tanti bambini vispi e allegri. Marta corse dietro la macchina per cucire, lui proseguì a piedi cercando di organizzare nella mente gli impegni delle prossime ore. Avrebbe fatto sicuramente tardi quella sera in cui c'era da fare l'inventario delle merci, ma i genitori di Marta conoscevano Don Alberto e ne avevano stima e poi di quei tempi un posto di lavoro sicuro era oro colato e non si doveva stare troppo a sottilizzare sull'orario. L'avrebbero aspettato per cena come sempre.
D'un tratto la sua attenzione fu distolta da un vociare confuso. Proveniva da una certa distanza ma non riusciva a scorgere cosa fosse perché il palazzo ad angolo e, sul marciapiede, le cianfrusaglie esposte all'esterno della bottega del rigattiere ne impedivano la vista. Il vociare si faceva sempre più forte e le parole più nitide. Distinse delle urla, il pianto di una donna anziana, un uomo che con voce alterata, spezzata a tratti dai singhiozzi, continuava a ripetere tra le lacrime: - io vi giuro, dovete credermi non l'ho visto, è sbucato all'improvviso! Non l'ho visto, ha svoltato. È stato un attimo! Dio mio aiutami... mio Dio! -
- Mio Dio! - continuavano a ripetere tutti e nessuno osava toccarlo perché era evidente a tutti che non c'era più nulla da fare.
- Chiamate aiuto! -
- È troppo tardi non vedete? -
- Chiamate un medico! -
- Aiutatelo! -
- Le guardie, svelti chiamate le guardie! -
Man mano si era radunata una folla sconvolta. Qualcuno era corso a chiamare le guardie e un medico. Mimmo avanzò adagio, facendo attenzione a non calpestare i chili di frutta riversi, spiaccicati sulla strada, finché impallidì alla vista del rivolo di liquido rosso che scorreva vischioso e, lento, gli lambiva le scarpe. Si avvicinò piano e per poco non svenne. Quella bicicletta grigia quasi piegata, accartocciata come un cartone bruciato, sembrava lanciata ai piedi della ruota di legno cerchiata in ferro di un carretto che si era leggermente inclinata a causa dell'urto. Il metallo era increspato, contorto come fosse latta. Il piccolo ronzino che lo trainava era stranamente calmo e qualcuno lo teneva per le briglie.
Poco più in là una scarpa slacciata e, riverso sul selciato in una pozza di sangue, di profilo, il volto esanime di un bambino nascosto a malapena dai riccioli chiari spruzzati d'oro, inzuppati di sangue e polvere. Sulla tempia destra uno squarcio fin quasi all'orecchio e una striscia doppia di sangue, che sembrava aver disegnato intorno alle guance fino alle labbra socchiuse uno strano ghirigoro. Il corpo era rannicchiato in posizione fetale, come si mettono i bambini quando si infilano nel letto della mamma nelle fredde notti d'inverno. Doveva essere stato sballottato dall'urto sbattendo violentemente la testa sul marciapiedi, come testimoniava la grossa macchia vermiglia che ancora colava lungo il bordo; la bicicletta che usciva spedita, forse troppo veloce per la fretta, dal vicolo laterale frenando bruscamente, immagino per lo stupore nello scontrarsi col carretto del fruttaiolo alla sua sinistra, doveva essere inciampata nel piccolo avvallamento che i basoli formano con il tombino, perdendo il controllo del manubrio.
- Lasciatelo! - intimò Mimmo brusco con voce spezzata, la gola d'un tratto arsa come se non bevesse da giorni. Si fece spazio tra la gente impietrita la quale, intuendo che doveva essere un parente o un amico, si spostò al lato a formare una piccola arena, una sorta di anello di protezione. Mimmo si inginocchiò e per lo shock non riusciva nemmeno a piangere. Sentiva le vene delle tempie pulsare violentemente, gli occhi duri come una lastra di marmo, il respiro corto e la mente annebbiata. Lo chiamò inutilmente più volte, gli tastò il polso, ne ascoltò il respiro ma era troppo tardi, Nicolino non poteva più rispondere. Allora con delicatezza, gli prese con la mano tremante la testa imbrattata e sentì un ultimo rantolo poi più nulla. Rivoli di sangue ancora caldo scorrevano densi e lenti lungo il suo braccio. Dovette fare uno sforzo sovrumano per non vomitare lì per terra di fianco a lui; cacciò il fazzoletto che portava in tasca e lo pose sulla ferita, più per nasconderla che per proteggerla.Controllò un'ultima, disperata volta che non ci fosse più nulla da fare e, senza neanche guardare il vecchio involontariamente responsabile, che sconvolto e stralunato aveva abbandonato a terra il carretto e continuava con voce ormai rauca a chiamare aiuto, lo portò con sé proteggendolo con la sua camicia, perché nessuno potesse profanare la sua immagine con lo sguardo. Mentre avanzava a torso nudo lento e confuso come un automa verso il negozio, gli scorrevano davanti agli occhi le immagini di papà molti anni addietro, il primo giorno in cui si era presentato per chiedergli di essere assunto come garzone, poco più che sedicenne.
- E vediamo... che sai fare? - gli chiese lui serio come sempre quando si trattava di lavoro.
- Tutto quello che volete signore, io imparo in fretta e ho bisogno di lavorare per aiutare la mia famiglia. Mettetemi alla prova, la fatica non mi spaventa. -
- A chi appartieni? -
- Sono il figlio di Pasquale o sicc o' conuscite? -
Mio padre si era ricordato di Pasquale o' sicc. Il soprannome ironico gli era stato affibbiato dalla gente del quartiere per la grossa stazza: un pover'uomo che la guerra aveva reso, come molti altri, invalido con tre figli, di cui due femmine da crescere e maritare. L'unico reddito della famiglia era quello della moglie che vendeva fiori al mercatino. Si incontravano talvolta nella piazza fuori la chiesa della Vittoria mentre fumavano una sigaretta, aspettando che le mogli ricevessero la comunione, e scambiavano qualche parola. Gli sembrava un uomo gentile, educato e rispettoso, una famiglia semplice e perbene.
- Va bene mi piaci, vai dietro la bottega e chiedi di Peppe, digli che ti mando io e ti troverà da fare. Per la paga parliamo dopo, comunque non ti preoccupare che qui non si è mai lamentato nessuno e se ti comporti da persona seria ti premio. -
Il tono autorevole non celava una immediata simpatia; dal primo incontro si era instaurato tra loro un legame speciale, nonostante la formale distanza di ruoli, e una affinità che mio padre non aveva con nessun altro. Si capivano al volo e lui amava la schiettezza e la semplicità di quel ragazzone che superava di alcuni centimetri il metro e ottanta, un gigante per i tempi, robusto e nero di pelle e capelli, riccioluto come un saraceno, Mimmo o' Sarracin come era soprannominato, che lavorava sodo spesso oltre l'orario, senza mai un lamento, e lo stimava come e più di un figlio. Mimmo lo conosceva meglio di chiunque altro, meglio anche di suo fratello.
Aveva davanti agli occhi come un film i giorni passati a lavorare insieme, le sere fino a tardi a fare l'inventario, le partite a scopa e tre sette in cui egli perdeva sempre e poi sbraitava per mezz'ora, accusandolo di avere imbrogliato perché non poteva accettare, orgoglioso com'era, di perdere la partita con un giovanotto.
- Ti vedo che ci tieni a quella ragazza che cuce, mi sono informato. La madre è ebrea e il padre cristiano, gente perbene, se fai le cose serie non preoccuparti che io ti dò una mano a sistemarti. Devi mettere su famiglia, l'età ormai ce l'hai da un pezzo, i figli sono la ricchezza di un uomo, - gli aveva detto pochi giorni prima.
- Vi ringrazio e vi dò la mia parola che il primo maschio si chiamerà Alberto, - aveva visto un lampo di commozione balenare nei suoi occhi chiari. La gente del quartiere raccontava che alla nascita del primogenito mio padre era corso in negozio a brindare e per la gioia aveva offerto da bere per due giorni e da mangiare a tutti, che se non l'avessero fermato di quel passo avrebbe finito col dichiarare fallimento, e tutti parlavano di don Alberto che era un finto burbero, perché era orfano e si era fatto da solo, ma aveva il cuore d'oro e se glielo chiedevi si toglieva di dosso pure la camicia per donartela.
Ora non osava guardarlo, il corpo fragile come vetro era diventato gelido e pesante. Voleva sforzarsi di portarlo a suo padre in una posizione che sembrasse meno atroce, più composta, che lo facesse apparire quasi assopito. Maledì il cielo per quello che era accaduto e perché era stato lui, proprio lui che avrebbe dato la sua vita per quell'uomo e suo figlio, ad avere ora il triste compito di dargli la notizia che l'avrebbe distrutto. Poi ci ripensò e si fece forza, sentì il peso di una grande responsabilità cadere sulle sue spalle e si disse che doveva avere fede. La piccola folla, adunatasi poco prima attorno al bambino, li seguiva a breve distanza riguardosa e commossa. Qualcuno per strada si offrì di portarlo a suo posto ma Mimmo si rifiutò, nonostante avesse la schiena a pezzi, il braccio intorpidito e le gambe grevi quasi trascinassero due macigni, continuò a percorrere con Nicolino in braccio la sua atroce via Crucis, avanzando senza neanche più vedere la strada davanti a sé. L'unico contatto con la realtà era il mormorio che percepiva alle proprie spalle: il pianto sommesso delle donne, la gente che da un vicolo all'altro ripeteva con voce sommessa.
- È il figlio di Don Alberto ha avuto un incidente, non c'è più nulla da fare. -
- Maronna mia chill è piccirill! -
- Povero Don Alberto, nù bravo omm, ha fatt semp o' ben, - sentiva pregare dietro di sé. Qualcuno, forse una madre pietosa, avendoli visti dal balconcino avvicinarsi, scese di corsa in strada per andargli incontro e coprì il piccolo corpo senza vita con un asciugamano, che lo celò fino alla cintola. Giunto in Via Bisignano a pochi metri dal negozio iniziò anche lui a pregare e il suo viso stravolto e tremante si rigò di lacrime.

Simona Federico

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