Amore in incognito.
Seduta nel posto accanto al finestrino, guardo Chicago diventare piccola e scomparire, lasciando spazio a nuvole grigie. Il mio cuore vuoto e sofferente lancia fitte spasmodiche. - Dobbiamo farlo. Dobbiamo provare, Jillian. Cerca di capire, è per il tuo bene. - Queste le ultime parole di mio padre, mentre mia madre piangeva in silenzio. Ho preso il trolley e sono andata via senza voltarmi indietro. Mi sento punita. Mi stanno allontanando da casa. Ora non ho davvero più nulla. Tutto questo è l'epilogo di una storia iniziata il 20 giugno di tre anni e mezzo fa, il giorno più bello della mia vita, dopo un periodo di convivenza con David e un fidanzamento durato ventun anni... sì, perché avevo deciso di sposare David quando avevo sei anni.
David è il fratello maggiore di Emily, la mia migliore amica e compagna di scuola. Le nostre case erano attigue, giocavamo e andavamo a scuola sempre insieme. David, di solo quattro anni più grande di noi, ci faceva da accompagnatore lungo il tragitto, malvolentieri. Era un ragazzino scontroso e sempre arrabbiato con Emily e me, si sentiva grande e non voleva farsi vedere con noi. Il primo giorno di scuola, durante il cammino, dissi a Emily: - Mi piace tuo fratello, quando sarà grande lo sposerò! - . Lei, scandalizzata, rispose: - Che dici? Lui sposerà le ragazze grandi, mica una come te! - . - Beh! Sarò grande anche io! E nessun'altra sposerà David, vedrai. E io e te saremo sempre sorelle. -
David rimase scontroso e irascibile con noi fino al compimento dei miei sedici anni. Cresceva e diventava sempre più bello, alto e muscoloso: capelli tagliati alla moda, color castano con riflessi sul biondo, e occhi grigio celesti con pagliuzze dorate. D'altro canto, il mio corpo lasciava la pubertà e cedeva il posto a una ragazza sinuosa ed elegante: il seno aggraziato, le labbra grandi e morbide, i capelli ricci che scendevano come onde sulle spalle dritte quasi a sfiorare il sedere sodo e tondo. David iniziò a guardarmi in modo diverso, divenne prima protettivo e poi sempre più presente e geloso di Emily e me. Alla fine del liceo ci siamo fidanzati. Quando ho concluso gli studi siamo andati a vivere insieme e a lavorare entrambi per la Brown & Carter Grandi Magazzini, società di cui mio padre è comproprietario insieme a Edward Brown.
Emily e io siamo diventate sempre più inseparabili, lei si è sposata a venticinque anni con Alex, un ingegnere edile, e lavora nel nostro centro come caporeparto nel settore dell'abbigliamento. Stavamo sempre insieme ogni giorno, Emily, David e io, condividevamo tutto. Ci separavamo solo la sera quando David e io rientravamo nel nostro appartamento sul Millennium Park. Avevamo cercato casa con tanta cura e adoravamo la piazza con al centro il bean (il fagiolo simbolo di Chicago). Quando il tempo lo permetteva, ci perdevamo tra i giardini del Millenium Park ed eravamo sempre presenti alle prime degli eventi musicali del padiglione Jay Pritzker, una struttura in acciaio inossidabile che evoca nastri che scorrono nel vento e si eleva a centoventi piedi nell'aria, coperta da tubi incrociati che supportano un sistema audio impeccabile. In estate ci rinfrescavamo mettendo i piedi a mollo nella Crown Fountain, una fontana composta da due torri di vetro di cinquanta piedi che mostrano immagini video rotanti di mille residenti di Chicago, con l'acqua che scorre dalle loro bocche. Eravamo molto felici. Ero fortunata ad avere David al mio fianco. Lui era diventato una parte di me. Ridevamo sempre, tutti invidiavano la nostra complicità e il nostro solido legame. Chi ci osservava diceva di vedere l'amore illuminare i nostri volti. Io lo adoravo letteralmente. Eravamo il sole e la primavera, quando eravamo insieme tutto era perfetto. David mi ha insegnato a guardare il mondo e interagire con le persone con empatia, a interessarmi ai loro problemi e a essere disponibile.
Per rendere perfetta la nostra esistenza, avevamo deciso di completarla giurandoci amore eterno davanti a un altare. Sarebbe stato un matrimonio grandioso, una giornata che nessuno avrebbe dimenticato. Nel centro commerciale ci sarebbero stati buffet per tutti i dipendenti nei ristoranti al piano terra. Avevamo regalato un buono spesa a ogni dipendente come bomboniera. Alla cerimonia vera e propria ci sarebbero stati “pochi intimi”, a detta di mio padre, che equivalgono a duecentocinquanta persone. Per quel giorno avevo scelto un vestito stupendo, cucito per me da un famoso stilista, mentre per David uno smoking sartoriale da far invidia. La chiesa era addobbata di rose e peonie bianche. Unico neo dei preparativi fu come passare la sera precedente al matrimonio, David e io non eravamo d'accordo perché lui desiderava che ognuno stesse a casa dei propri genitori e partisse da lì per la cerimonia religiosa. Ma chi ha dormito! Sono stata a parlare con lui fino alle due al cellulare. Abbiamo riso come scemi e alla fine abbiamo deciso che presto saremmo stati in tre o quattro. Io volevo una bambina e lui un maschietto, chissà a chi avrebbe dato ragione il futuro.
Caos totale a casa, il mattino del matrimonio: sveglia alle sei, e poi estetista, parrucchiera e vestiti. Mi affacciai alla finestra alle dieci e quaranta e vidi che David era sul punto di avviarsi. Era la stessa finestra da cui lo avevo spiato per tanti anni. Lui si accorse di essere guardato, si girò e mi fece dei gesti con il braccio indicando l'orologio per dirmi di non fare tardi. Io sorrisi e mi sbracciai per dirgli di andare. Lo guardai partire alla guida di una decapottabile due posti. Non c'era stato verso di fargli cambiare idea, adorava quell'auto. I suoi genitori lo seguirono con la loro, con a bordo Emily vestita da damigella e suo marito. Rientrai e dissi a mio padre che dovevamo sbrigarci.
Dieci minuti dopo eravamo sullo stesso percorso che ci avrebbe condotto alla chiesa dove David e io saremmo diventati davanti al mondo una sola persona. La chiesa non era molto distante: dopo tre isolati c'era un incrocio con un semaforo e, a pochi metri da lì, la chiesa gremita dei nostri ospiti che ci aspettavano. C'era coda al semaforo. L'autista si fermò. Sentii le sirene delle ambulanze e vidi sfrecciare le auto della polizia. Aprii il finestrino. - Porca miseria, David si arrabbierà moltissimo, ha detto che non voleva aspettare molto. Ma cosa sarà successo? - Una signora mi passò di lato facendosi il segno della croce e parlò con una persona di fianco: - Povero figlio. Che destino atroce, proprio il giorno del suo matrimonio! - . Parole carpite per caso che mi squarciarono il cuore. Aprii lo sportello e iniziai a correre, seguita da mio padre, tra le auto ferme. Arrivai all'incrocio: in mezzo, l'auto di David era completamente accartocciata. Emily e sua mamma si abbracciavano piangendo. Cercarono di fermarmi ma sfuggii alle loro prese. Ero vicina alla barella, circondata da medici e sanitari. Urlai. Uno di loro si girò e mi fece spazio. C'era David, disteso, coperto di sangue. Mi accostai a lui. Aveva gli occhi aperti. Respirava faticosamente. - Stella. Sei bellissima. Non piangere, Jill. Promettimi che non piangerai mai! Promettimi che vivrai anche per me. - Fiotti di sangue gli uscirono dalla bocca. Lo accarezzai e lo strinsi. - Non mi lasciare, David. Fate qualcosa, per favore! - urlai disperata. Non è possibile. Non può essere vero. Qualcuno deve fermare quest'attimo. David non può lasciarmi, non deve! - Ti amo, Jill. Vivi, Jill, vivi! - Vidi la testa girarsi di lato, mentre un altro rivolo di sangue scorreva tra il lenzuolo e il mio vestito. - David! David! Non lasciarmi, David! - Continuai a chiamarlo, ma lui aveva gli occhi sbarrati e non si muoveva più. Mi accostai al suo corpo sopra la barella. Lo chiamai. Urlai il suo nome. Continuai a ripeterlo sempre più forte. Ora aprirà gli occhi e tutto tornerà come prima, ora tornerà a sorridere e i medici lo cureranno. Delle mani cercarono di portarmi via da lui. Mi vogliono staccare dal mio David, ma io sono più forte. Feci resistenza e restai avvinghiata al suo corpo. Sono straziata. Mi manca il respiro. Mi gira tutto intorno. David non si muoveva più. Non mi guardava. Il mio vestito bianco striato di rosso, di rosso... il sangue di David. Sento il caldo del sangue arrivare fino allo stomaco, la nausea che mi assale, un incubo che non ha fine. David! David non mi risponde. Sento i singhiozzi dietro di me. Le sirene dei soccorsi urlano dentro le mie orecchie. Vorrei che smettessero. Il loro ululato rimbomba nel mio stomaco. Il mio viso sul viso di David. Appoggio le mie labbra sulle sue. Voglio i suoi baci. Un sapore salato, amaro e metallico di sangue misto a lacrime invade la mia bocca. Sento le gambe diventare molli... le voci e i suoni si allontanano pian piano, fino a tacere. Il buio mi avvolge.
Jillian
Il buio
Apro gli occhi e mi accorgo di essere a letto. Ho sognato! Mio Dio, che incubo! Ora mi alzo e mi vesto: non devo far aspettare David. Quando gli racconterò del mio sogno, sai quante risate si farà! Giro lo sguardo. I muri sono bianchi. Dove sono? Questa non è casa mia. Sento stringermi la mano. Abbasso lo sguardo: c'è mia madre al mio fianco, seduta su una sedia. Cerco di muovere il braccio e lo vedo legato a un tubicino. Una flebo? Mio Dio, non ho sognato! David! Mi giro verso mia madre. - Mamma! David? Dov'è David? Mamma, cos'è successo? - Mamma non risponde e si asciuga le lacrime con un fazzoletto. Urlo. Urlo il nome di David. Voglio David. Mamma mi accarezza la testa e mi supplica di stare calma, di farmi forza. Io urlo ancora più forte. Arriva qualcuno. Lo avverto solo quando mi sta quasi addosso. Mette qualcosa nella flebo con una siringa. Piano piano sento il cuore rallentare i battiti. Mamma mi accarezza il viso. Le lacrime le rigano le gote. Chiudo gli occhi. Sono con David. Siamo a casa sul divano, mangiamo la pizza e guardiamo uno show. David imita il presentatore, io rido fino allo sfinimento, poi lui mi prende in giro scimmiottandomi. Andiamo al Millennium Park e ci bagniamo i piedi nella fontana. David mi schizza l'acqua e dice che farà mettere anche la mia foto sulla parete della torre: sarà divertente vedermi con la bocca aperta a buttare giù acqua fresca. Lo rincorro. Lui si burla di me. Corriamo lungo i viali del parco. David mi porta il caffè con la brioche in ufficio. David... David.
Non so quanto tempo passa. Riapro gli occhi. C'è mia madre che dorme, seduta sulla sedia con la testa appoggiata sul mio letto. - Mamma! - La chiamo un paio di volte. Lei solleva la testa. - Tesoro, sono qui vicino a te. Coraggio, devi farti forza. Non sei sola. La vita è ingiusta ma devi farcela, tesoro. - Piango in silenzio. Lacrime calde solcano il viso. Sento lo stomaco contrarsi per gli spasmi. Mi sento vuota e sola. Cosa ne sarà di me? Mi hanno rubato l'anima. Il buio spezzato dalle piccole luci del monitor mi trasporta in un altro incubo.
Le mani piene di sangue. Il vestito da sposa bianco macchiato di rosso. Il rosso si allarga, si allarga sempre più, e tutto il bianco si copre di rosso. Poi tutto diventa nero. Il viso di David mi osserva con occhi vitrei. Non sorride più. Non si muove più. Urlo. Voglio scappare. Due mani mi stringono, tenendomi ferma, poi pian piano tutto diventa lontano. Una nebbia avvolge la stanza, e il viso di David prende vita. Io e lui camminiamo, facciamo la spesa, prepariamo da mangiare. Io e David siamo a casa. Si alternano coscienza e incoscienza non so per quanto tempo; a uno dei miei risvegli trovo una signora di una quarantina d'anni seduta al mio fianco. - Ciao, Jillian, sono la dottoressa Amber. Se mi senti fammi un cenno con la testa. - Io annuisco e lei comincia a parlare. Mi dice che David non vorrebbe che io fossi in questo stato, che mi vuole bene e soffrirebbe vedendomi in un letto a lasciarmi andare. Devo essere forte. Devo reagire e tornare a vivere. Ho il dovere di non sprecare i miei giorni in questo modo. Ma cosa dice questa pazza? Che ne sa lei della mia vita? Che ne sa lei di me? Come faccio a spiegarle che lui era il mio tutto, che eravamo due corpi e una sola anima? Perché non sono morta io al suo posto? Come posso continuare a vivere senza di lui? È come camminare senza gambe. Sono un involucro di nulla, ora. David era la mia forza, il sorriso, il cuore che mi teneva in vita. Lui era la mia alba, il mio sole. Io senza di lui sono il buio e non riesco a vedere nulla. Tutto il mio domani è solo un buco vuoto. Chiudo gli occhi e torno da David. Nei sogni sono al sicuro: lui lì vive, mi tiene per mano, sorride, mi porta al cinema, al ristorante, mi stringe tra le sue braccia nel letto e trovo la pace. Dopo un po' apro le palpebre, e la signora seduta sulla sedia parla ancora. Non ho sentito una parola del suo discorso. Sollevo lo sguardo e vedo la flebo. Seguo con gli occhi le goccioline che scendono lentamente. Mi concentro a guardarle finché non sento gli occhi farsi sempre più pesanti; quando li riapro sono sola nella stanza. La signora non c'è più. Il sole filtra dalle tapparelle socchiuse. Il filo della flebo mi tiene legata al letto. Cosa ne sarà ora di me? Cosa farò? Abbiamo organizzato le nostre nozze con tanta meticolosità. Doveva essere un giorno indimenticabile. Beh, lo è stato: chi vuoi che lo dimentichi? Un vero incubo. Un giorno tristissimo e orrendo. Cosa abbiamo fatto a Dio? Era da lui che andavamo per giurarci amore... e lui non lo ha permesso. Come ha potuto farmi questo? Inizio a singhiozzare lentamente. Le lacrime scorrono come rigagnoli sulle guance. Stringo tra le mani le lenzuola e infilo le unghie nel palmo della mano fino a sentire il dolore. È svanito ogni sogno, ogni certezza. Non esiste domani per me. Risento le parole di David che mi chiedeva di vivere e di sorridere. Ma come posso sorridere se lui era il mio sorriso? Qualcuno entra nella stanza e si avvicina al mio letto: un uomo sulla quarantina. Mi sorride e mi prende la mano. Ha un camice bianco aperto. - Jillian, come si sente oggi? - - Non lo so. Mi sento vuota, sola, arrabbiata, spaventata e senza speranza. - - La vita a volte è molto ingiusta, ma ognuno di noi ha una forza dentro, nascosta da qualche parte. Lei deve trovarla per suo padre e sua madre, per tutte le persone che l'amano, per i suoi dipendenti che contano su di lei e soprattutto per se stessa. David le ha lasciato una grande eredità: vivere anche per lui. Ora tocca a lei. - - David si sbagliava: non sono in grado di farlo - , ribatto sottovoce. - È lei a sbagliarsi. Se lo ha detto vuol dire che è in grado di farlo. Lui la conosceva bene, è cresciuto con lei. Vedeva ciò che lei non riesce a vedere. Ora dimostri al mondo che la fiducia che aveva in lei non è stata mal riposta. Dimostri al mondo che David non si sbagliava. Coraggio. - Mi lascia la mano ed esce in silenzio senza voltarsi indietro, con la stessa leggerezza di quando è entrato. Le lacrime ora solcano le mie guance calde e silenziose. Piango senza smettere finché il sonno torna a farmi compagnia insieme al sorriso di David. Mi sveglio nell'udire dei passi. Apro gli occhi. Mia madre e mio padre sono vicini al letto. - Jill? - - Voglio tornare a casa. Voglio andare via di qui. - Gli occhi di mia madre si riempiono di lacrime. Mio padre sorride e mi dice: - Certo, Jillian. Anche noi vogliamo riportarti a casa. Non aspettiamo altro che portarti via di qui, ma devi mangiare, Jill. Appena ricomincerai a mangiare, potremo portarti finalmente via - . - Non ho fame. Mangerò a casa. Poi voglio andare al funerale di David. - - Jill, sai che giorno è oggi? - - Il 21 giugno? Ieri mi dovevo sposare, certo che lo so. - - Jill, oggi è il 12 luglio. Hai alternato momenti di lucidità a momenti di follia e incoscienza. Abbiamo avuto molta paura. I medici sono stati molto bravi e pazienti. Hai buttato all'aria ogni cosa che ti portavano da mangiare. È venuta una psicoterapeuta per vari giorni. Non ti ricordi di nulla? - - No, solo che David non c'è più. Papà, come farò ora? Ho tanta paura, mi manca terribilmente. Perché è successo tutto questo a me? - Mamma si avvicina ad accarezzarmi con dolcezza e sussurra: - Piccola, lo so, ma devi farti forza. Emily, Hanna e Daniel hanno perso un fratello e un figlio. Vogliono che tu possa tornare a casa e onorare la memoria di David. Sei una figlia, per loro, e stanno male ancora di più a saperti in questo stato. Sono venuti più volte a vederti e sono andati via straziati - . - Mi dispiace. Proverò, mamma, ma non so se riuscirò! -
Inizio a bere un po' di tè per cena, malvolentieri. È difficile riuscire a ingoiare del cibo ma mi sforzo. Voglio tornare a casa. Ogni giorno faccio un passetto in più. Vengono spesso a trovarmi anche Emily e Hanna, la mamma di David, e mi esortano a riprendermi. Dopo dieci giorni lascio l'ospedale. A casa sono seguita dalla psicoterapeuta che ha assistito anche la famiglia di David nei giorni successivi all'incidente. Ho saputo che David è morto per mano di un ubriaco. A quel signore, il giorno prima avevano diagnosticato un tumore in fase avanzata ai polmoni. Aveva trascorso la notte passando da un locale all'altro. Il mattino seguente, invece di fermarsi al semaforo, lo aveva superato a una velocità pazzesca schiantandosi frontalmente con l'auto di David. Anche lui era deceduto due giorni dopo in ospedale a causa delle ferite riportate nell'incidente.
Sono Emily e suo marito Alex ad accompagnarmi sulla tomba di David in una giornata di fine luglio. Il sole splende con ferocia inaudita, illuminando la lapide bianca con il volto sorridente del mio amato. Piccoli boccioli di rosa bianca ricoprono il marmo. Un letto di fiori per un tesoro sepolto. Insieme a lui hanno sepolto ogni mio sorriso, ogni mia speranza, ogni sogno, esploso come bolle di sapone al sole traditore. Emily e Alex si sono allontanati per lasciarmi un po' sola. Mi sono inginocchiata vicino alla pietra fredda che mi separerà per sempre da lui. Ho chiuso gli occhi e ho sentito di nuovo il suo sangue scorrermi addosso e le lacrime che scavano dentro l'anima. Avverto lo stomaco contorcersi fino al dolore. Qui è morta la speranza, è rimasto solo il nulla. Davanti a questa pietra non posso che arrendermi a un destino crudele, disumano e spietato. Jillian L'esilio
Sono rientrata al lavoro solo a metà settembre. Nonostante abbia ripreso peso, sono l'ombra della ragazza sorridente e allegra che tutti conoscevano. Peso sì e no quarantacinque chili: troppo pochi per il mio metro e settanta. Quando passo tra le commesse per i reparti sento i loro sguardi di commiserazione e i bisbigli di pietà. Cerco di uscire sempre meno dal mio ufficio ed evito di andare tra i negozi. Un collega mi porta il pranzo in ufficio. Raramente vado nel ristorante dove mangiavamo David, Emily e io. A nulla valgono gli sproni di mio padre e di zio Edward. A casa mia non sono più tornata: non ho il coraggio di varcare quella soglia. David e io avevamo messo tutto quello che potevamo per trasformarla in un sogno, e ora nulla ha più senso. Tre anni sono passati in un soffio, ogni giorno allo stesso modo: lavoro, casa, cimitero. Mi sento una vecchia nell'anima. I giorni scorrono sopra la mia pelle tutti uguali. Nulla mi entusiasma, come se un torpore si fosse impossessato di me ingoiando ogni vitalità. Emily ha avuto una bambina, Allison. Ha poco più di sei mesi e vuole battezzarla per Natale. Neppure davanti a lei mi emoziono. Siamo ai primi di dicembre. Mio padre mi chiama nel suo ufficio: dentro c'è anche “zio” Edward. Mi comunica con aria sommessa che non sopportano più di vedermi come un morto che cammina: senza interesse, senza anima, senza vita. E hanno preso una decisione. Io sono il futuro della Brown & Carter di Chicago: come potrò assolvere i miei doveri se mi rifiuto di esistere? Hanno parlato con la psicoterapeuta e concordano con lei che devo andare via da Chicago. Devo ritrovare una ragione per sopravvivere, e solo lontano da qui c'è una speranza, quindi mi mandano a New York. - Cosa cambia? Quando andrò lì tutti mi guarderanno come qui, come una povera sfortunata. Mi biasimeranno e bisbiglieranno alle mie spalle - , commento. Zio Edward replica: - Andrai lì, nessuno saprà chi sei, Jill. Ti daremo una nuova identità. Abbiamo valutato bene ogni aspetto. Steven non ti vede da quando? Da dieci anni? Non viene mai a Chicago, e quando viene fa visite molto brevi - . - Molto di più - , rispondo con un sospiro. - Bene, vedi che può funzionare? Lui non potrà mai riconoscerti: non hai foto sui social, non ne sono state scattate nel periodo dell'incidente e non eri presente ai funerali. Secondo la psicoterapeuta vivere e affrontare i problemi da sola in un posto sconosciuto dovrebbe darti la scossa giusta e farti ritrovare interesse nella vita. Non devi preoccuparti: abbiamo pensato a tutto. Tu dipenderai da qui, così non dovremo inviare i tuoi documenti. A Steven diremo che sarai trasferita per un periodo a causa di problemi personali. Inoltre, al reparto profumeria stanno subendo dei furti molto frequenti, tanto da giustificare la nostra preoccupazione, e tu sostituirai la caporeparto. Ora ti giro le foto del mio appartamento di New York, è vuoto da quando Steven si è trasferito in quello nuovo. Ti metterò in contatto con il capo della sicurezza, John, lo ricordi? È più di un dipendente, è un caro amico. Solo John saprà la tua vera identità. Ha dato la sua disponibilità totale. Se vuoi dei cambiamenti, dillo a lui. Si occuperà di tutto. - - Resterai qui per le feste, e il 10 gennaio andrai via. Jillian, mi duole il cuore, ma dobbiamo provare, capisci? Rivoglio mia figlia, rivoglio la ragazza battagliera che non si arrendeva, quella che sorrideva e che viveva. Jillian, da te dipenderanno centinaia di famiglie e tu devi tornare a essere la donna che eri, quella che amava David, la donna che tutti amavamo. - - Mi mandate in esilio? Mi sento punita senza aver fatto nulla. - - Non è così. È per il tuo bene, e lo sai. - Abbasso la testa e torno nel mio studio, senza aggiungere altro. Quando prende una decisione mio padre, so che è meglio non discuterla. In fondo ovunque andrò sarò solo un guscio vuoto. Apro la mail che mi ha girato zio Edward e guardo l'appartamento. Richiudo e torno al mio lavoro. Solo la sera a casa, prima di dormire, torno a guardarlo: è grande, ha tre camere da letto con un bagno in ognuna, un grosso salone e una cucina ospitale, più uno studio e un altro bagno. Cosa ci farò con un appartamento così grande, arredato in maniera classica e senza nessuna anima? I muri sono bianchi come quelli di un ospedale e il mobilio è da mausoleo: tutti mobili importanti, classici e scuri. Cerco su internet qualcosa con cui sostituirli. Vorrei rendere quel posto più ospitale. Ha un'aria tetra: sembra essere in linea con il mio stato d'animo. Il giorno dopo mando la mail al signor John Morris con i cambiamenti da fare. Se proprio non posso evitare di trasferirmi, cercherò di rendere il mio esilio un po' meno penoso.
Angela C
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